La tradizione spirituale giudaico-cristiana, per salvaguardare la Trascendenza e l’Unicità divine, ha negato alla Creazione ogni valore “divino”. Questo tuttavia non ha impedito al Cristianesimo di concepire per secoli una visione “sacra” e simbolica del creato, visto come Vestigia Dei, che nulla ha da spartire con la prospettiva esclusivamente quantitativa e meccanicistica del materialismo moderno.
Qualche decennio fa, un (allora) noto teologo come W. Kern[1], nel tentativo di “costruire un ponte” fra la visione materialista e secolarizzata della realtà e la visione cristiana, affermò che la moderna visione “profana” del mondo deriverebbe dalla concezione ebraico-cristiana, che attraverso il concetto di creazione ex nihilo avrebbe demitologizzato e quindi mondanizzato il cosmo. Questo giudizio, che pur così tanti consensi ha finito per raccogliere nello spaesato mondo della teologia contemporanea, si scontra tuttavia con una millenaria riflessione che dal mondo biblico ci accompagna fino agli albori della modernità e che proprio dalla visione creazionista trae spunto. Senza negare la prospettiva decisamente antropocentrica del Cristianesimo, infatti, non si può nemmeno ignorare come per secoli la tradizione ebraico-cristiana abbia affiancato allo studio del “Libro della Rivelazione” (la Scrittura), l’attenzione e la contemplazione del “Libro della Creazione” (l’Universo); a tal punto che ancora in tempi relativamente vicini, persino lo stesso Galilei ha potuto riprendere l’idea tradizionale e “cattolica” (universale) dei “due libri” scritti dal medesimo Autore divino, per giustificare quella “razionalità del mondo” a partire dal quale lo scienziato pisano ha gettato le basi teoriche del suo “metodo”.
– Vestigia Dei.
Già nell’Antico Testamento, pur nel quadro di una prospettiva più “storica”, il cosmo e la natura non rappresentano affatto un aspetto marginale della realtà. Ne fanno fede, tra gli altri, i celebri “Salmi cosmici” e i cantici in cui il cosmo nella sua interezza partecipa della lode e del provvidenziale amore di Dio. Specie nella letteratura sapienziale, il cosmo è visto come una realtà che partecipa profondamente dell’azione di Dio: Dio può essere conosciuto per analogia a partire dalla creazione (Sapienza 13, 5), e la conoscenza della creazione nei suoi ritmi nascosti è considerata dono della sua Sapienza[2].
Anche nel Nuovo Testamento, pur in un contesto antropocentrico di salvezza umana, il cosmo e la natura rientrano appieno nelle cure e nelle attenzioni della Provvidenza divina. Gesù compie molti dei suoi miracoli sugli elementi naturali e nel famoso discorso sui gigli di campo[3], pur affermando il valore unico della persona umana, Egli riafferma la misteriosa partecipazione di tutto il creato alle attenzioni divine.
Nella teologia paolina, inoltre, è chiaramente presente una riflessione di carattere cosmico, specie nel noto passo di Rm. 8,19;21:“La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità, (non per suo volere ma per volere di colui che l’ha sottomessa), e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”. Paolo, naturalmente, ribadisce sempre la centralità dell’essere umano, ma il suo non è un antropocentrismo esclusivista; per Paolo esiste un’interazione fra Dio, uomo e mondo, in cui l’uomo è l’elemento centrale attraverso il quale tutta la realtà è destinata alla redenzione. Questa visione, del resto, si avvicina alla teologia dei primi capitoli di Genesi, in cui è messo in evidenza il rapporto esistente fra la condizione spirituale dell’uomo e l’armonia della natura: la terra, infatti, viene fisicamente coinvolta nelle conseguenze del peccato di Adamo[4].
La creazione, dunque, non può in alcun modo essere assimilata ad una “materia inerte”, e la visione biblica della natura è qualcosa di infinitamente più “sottile” e di radicalmente diverso dalla prospettiva meccanicistico-profana della modernità.
Le tematiche cosmiche, in seguito, verranno riprese nella riflessione di molti Padri: così, per Clemente Alessandrino, esiste una “simpatia” fra tutti gli esseri che fanno parte dell’”unità cosmica”[5]; per Ireneo, il cosmo è il grande tò Pan (il Tutto), in cui ogni aspetto interagisce con gli altri[6]; mentre per Evagrio Pontico “un unico logos compenetra tutte le cose”[7].
Questa visione della natura e del mondo verrà continuamente rielaborata per tutto il Medioevo: in tale prospettiva, possiamo ricordare ad esempio una figura straordinaria come Ildengarda di Bingen, che presenta nella sua opera una visione sacra e simbolica della natura in cui l’essere umano appare al centro di un’armonia cosmica che promana da Dio[8]. Una teologia della natura si ritrova ancora, quasi agli albori dell’età moderna, nella scuola francescana, che sulla scia della profonda intimità con la creazione dimostrata dal suo fondatore, elabora, per l’ultima volta in Occidente, una visione dottrinale (San Bonaventura) in cui il cosmo è concepito come “Vestigia Dei” e aiuto nella contemplazione[9]; e se è pur vero che tale riflessione cosmica passerà in secondo piano dopo Lutero e la Riforma cattolica (in cui le prospettiva moralistica e individuale diverranno giocoforza preponderanti), essa sopravviverà nell’Oriente cristiano, giungendo più viva che mai fino ai nostri giorni. Il pensiero cristiano-orientale, infatti, ha sempre avuto il senso di una particolare “vocazione cosmica”[10]. Questa caratteristica si è conservata, in tempi recenti, nella scuola “sofiologica” russa – di cui hanno fatto parte figure come Soloviev, Florenskij, Evdokimov e Bulgakov. La Sofiologia è una riflessione sulla Sapienza divina intesa come energia che pervade tutto il creato, a partire dalla quale anche la dimensione cosmica assume l’aspetto di una vera realtà liturgica. Come scrive Pavel Evdokimov: “solo la sofiologia, gloria della teologia ortodossa attuale, solleva l’immenso problema cosmico. Essa si oppone ad ogni cosmismo agnostico, idealista, a ogni materialismo evoluzionista e vede il cosmo liturgicamente”[11].
La visione “secolarizzata” della natura, pertanto, lungi dall’essere una conseguenza necessaria della visione creazionista giudaico-cristiana, è solo un’invenzione di quel materialismo moderno che ha creduto di poter dominare demiurgicamente il creato: lungi dal garantire la Trascendenza del Creatore, infatti, la “mondanizzazione” del mondo e la sua dissacrazione, il misconoscimento delle Vestigia Dei e del valore simbolico del cosmo, non sono stati altro che il primo, ineliminabile passo verso l’eliminazione di Dio dalla prospettiva di vita dell’uomo contemporaneo.
[1] Cfr. W. Kern, Dio ha tratto il mondo dal nulla, in Mysterium Salutis, vol. IV, Brescia 1970, pp. 154-157
[2] “Egli mi ha dato la vera conoscenza delle cose, per comprendere il sistema dell’universo e la forza degli elementi” (Sap. 7,17).
[3] Mt. 6,25-34; Lc. 12, 22-34
[4]“Maledetto sia il suolo per causa tua” (Gn. 3,17)
[5] Clemente Alessandrino, Stromata, 5,133,7
[6] Ireneo, Adversus haereses, 1,4, PG 7, 477ss
[7] T. Spidlik, La spiritualità dell’Oriente cristiano, cit., p. 123
[8] La principale opera “naturalistica” di Ildengarda, il Liber Scivias, è pubblicata su “Corpus Christianorum – Continuatio Medievalis”, voll. 43-43A, Brepols, Turnhout, 1978. Sulla figura e sul pensiero di questa grande mistica e teologa ricordiamo: Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri, In una aria diversa. La sapienza di Ildengarda di Bingen, Milano, 1992; Sabina Flanagan, Ildengarda di Bingen. Vita di una profetessa, Firenze 1991.
[9] Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum, 1, 1-15
[10] T. Spidlìk, La spiritualità dell’Oriente cristiano, cit., p. 319
[11] Cit. in ibidem, p. 124