Una figura singolare del nostro tempo, mistica straordinaria, di cui è in corso a Roma il processo di beatificazione, è quella di Marthe Robin, vissuta dal 1902 al 1981. Segnata ben presto dalla malattia che la ridurrà paralizzata a letto, dal 1928 fino alla morte si ciberà esclusivamente della sola eucaristia ricevuta una volta la settimana. Starà per più di cinquant’anni senza mangiare, senza bere e senza dormire.
Leggi tutto “Marthe Robin: una mistica contemporanea”Autore: Claudio Dalla Costa
Padre Bernard Bro: narratore di Dio
Nato nel 1925, padre Bernard Bro è morto all’abbazia di Solesmes il 23 ottobre scorso. Teologo, dottore in filosofia, apparteneva all’ordine domenicano ed è stato titolare di una cattedra di teologia dogmatica e di storia della spiritualità. Negli anni ’60 fu per parecchi anni direttore della prestigiosa casa editrice Cerf. Scrittore rinomato, è stato autore di circa trenta libri di successo. La predicazione, in quanto domenicano, era la forma privilegiata del suo apostolato. È stato anche predicatore delle celebri Conferenze di quaresima a Notre-Dame di Parigi. Proprio in seguito ai quaresimali a Notre-Dame padre Bro è diventato famoso a livello mondiale. La sua predicazione era ricercata in tutto il mondo e molti sono gli episcopati che gli affidavano conferenze e esercizi spirituali da guidare.
Una nuova biografia di don Divo Barsotti
Padre Serafino Tognetti primo successore di don Divo Barsotti alla guida della Comunità dei Figli di Dio, nonché noto ed apprezzato conferenziere di Radio Maria, è l’autore di una biografia intitolata Divo Barsotti Il sacerdote, il mistico, il padre Edizioni San Paolo che narra l’affascinante avventura umana e spirituale di colui che si può ben definire uno dei mistici più originali del ‘900. Leggi tutto “Una nuova biografia di don Divo Barsotti”
Padre Mariano: un maestro impareggiabile
Nato a Torino, il 22 maggio 1906, fin da giovane si sentì divorato da un fuoco interiore che lo portava a far conoscere Gesù.
Scriverà: “Confesso che molte volte mi viene una voglia matta di percorrere tutto il mondo, di avvicinare, se possibile, tutte le creature per invitarle ad amare sempre e di più Dio!…L’unico mio desiderio, che sento mi brucia la carne ed è incontenibile, è di fare totalmente la volontà di Dio, senza che le creature possano frapporvi ostacoli”.
Si era laureato in lettere all’università di Torino all’età di 21 anni. Per 13 anni insegnerà latino e greco in diversi licei. La ricerca della sua vocazione sarebbe durata a lungo, ben quattordici anni di attesa prima di realizzare che il Signore lo chiamava al sacerdozio e alla vita religiosa.
Nel 1927 scriveva: “Non attendo altro che il giorno benedetto in cui potrò correre a servire e lodare il Signore, senza restrizioni, senza limiti, ma con tutte le forze, e poiché queste sono poche, con tanto amore soprattutto”.
Nel novembre del 1939 si fidanza ma il fidanzamento dura solo circa dieci mesi. Poi, nel 1940, in modo del tutto imprevisto, l’incontro con L’Immacolata gli cambia la vita. Scriverà: “Proprio mentre da mesi dirigevo i miei passi verso la mèta che mi pareva quella buona (il matrimonio, ndr), l’Immacolata da me insistentemente invocata per una tempesta – che minacciava il mio nuovo orizzonte, mi fece improvvisamente una precisa sensazione fisica: come di una mano misteriosa che mentre attraversavo una grande piazza mi fermasse e mi obbligasse a tornare – contro voglia – sui miei passi. Sentii d’un tratto un disgusto mai provato, intollerabile, della vita comune nel mondo, e contemporaneo un desiderio irresistibile del sacerdozio, via che avevo sempre scartato”.
Fu ordinato sacerdote il 29 luglio 1945. Fu un vero artista della parola che aveva un forte impatto in chi lo ascoltava. Era molto preoccupato per i lontani, per coloro che sembrano avversi alla vita cristiana, che sono indifferenti al lato religioso della vita. Si dedicò con molto ardore alle missioni popolari, che voleva “antiche nello spirito e moderne nei mezzi”.
Vale a dire prediche nelle scuole, nei luoghi di lavoro, visite agli ammalati, conferenze nei teatri. Padre Mariano andava ovunque lo chiamassero e le folle accorrevano ad ascoltarlo. Parlava anche alla radio vaticana e alla radio italiana.
Ma fu con l’avvento della televisione che avvenne la sua definitiva consacrazione come oratore e scoprì che il Signore gli aveva accordato il carisma specifico della predicazione. Già all’avvicinarsi dell’evento della nascita della Tv, durante la quaresima del 1954, padre Mariano dalla radio inviò questo messaggio carico di significato: “Spunta l’orizzonte della televisione? Egli (l’apostolo, il sacerdote) non si ritiri in un cantuccio, sopportando quanto di male ne possa venire fuori, ma cerchi di prevenire sapendo bene il bene immenso che ne potrà scaturire. Pensate, per esempio, se tutti quelli che ascoltano questo nostro radio-quaresimale (più che centomila persone) mandassero questa sera (chi rimanda a domani non lo farà più) una lettera alla direzione generale della Televisione italiana a Roma, con la preghiera viva che per la quaresima del 1955 (quando già gli apparecchi televisivi saranno diffusi tra noi) venga offerto in televisione a tutti gli italiani un quaresimale quotidiano. Non credete che questo quaresimale potrebbe essere davvero realizzato? Voi tutti sareste apostoli, perché grazie a una semplice lettera moltiplichereste la parola di Dio, presentata nella forma suggestiva della televisione, per milioni e milioni di anime. Dobbiamo farci tutto a tutti per portare tutti a Cristo! Si deve fare qualcosa? Facciamolo!”.
E in una lettera inviata, per il Natale del 1954, ad una comunità religiosa, scriveva: “…Chiedo una preghiera fervorosa per una grande cosa: si inizia a Roma col 1954 la televisione. Per la parte religiosa i superiori hanno fatto il mio nome. Ci sono venti e più candidati. Pregate perché venga scelto il più innamorato dell’Immacolata e che faccia più bene alle anime. Se la Vergine santissima volesse fare tale onore ai cappuccini, Deo gratis! Pregate perché si faccia soltanto la volontà di Dio”.
L’apostolato della predicazione
Questa profezia si sarebbe presto avverata e sarebbe stato proprio lui a iniziare, nel gennaio 1955, le trasmissioni religiose con la rubrica quindicinale La posta di padre Mariano. Padre Mariano diceva che “dobbiamo pregare molto per i predicatori perché ci diano Gesù dal pulpito, non altro che Gesù”. Per quasi vent’anni quest’uomo tenne letteralmente attaccate alla TV milioni di persone tra cui molti atei e agnostici.
Un insegnante di filosofia che si professava ateo, diceva: “Io non credo in Dio, ma mi piace quel frate che ne parla, e ne parla, credo, perché lui lo possiede più che crederci”. Penso che siano proprio pochi gli uomini che non sono sensibili al fascino di Gesù, se la sua figura viene presentata in modo avvincente. Un suo biografo scrisse: “Il suo dire semplice e chiaro, punteggiato da aneddoti, slogans e persino da battute spiritose, rendeva piacevole l’ascolto e facilitava il ricordo. Aveva consapevolmente prese le distanze dal modo tradizionale di predicare”.
Il frate diceva: “Gli sviluppi della TV nel 1956 mi allarga il cuore ma cresce anche il peso della mia responsabilità. Sento che dovrò rispondere al Signore di tante e tante anime! Dicono che è una delle trasmissioni più attese; anche la Direzione è entusiasta. Avverto tuttavia la mia miseria, la pesante responsabilità e penso quanto dovrei essere più unito a Dio per il mio tremendo compito”.
Qui sta proprio uno dei punti fondamentali della sua predicazione vincente. Sapere che da questa attività dipende il bene di innumerevoli anime, che proprio quelle parole possono essere decisive per cambiare una vita, per convertire un cuore, per ridare una speranza. Senza questo senso della grave incombenza che deve affrontare chi sale sul pulpito, si rischia di trasformare l’omelia in una tra le tante attività di routine che il prete deve affrontare lungo la giornata.
All’apostolato della parola seguiva quello della penna. Il frate riceveva migliaia di lettere in cui chi gli scriveva gli confidava dubbi, incertezze, sofferenze, gioie, chiedeva consiglio. Lui trovava il tempo per rispondere a tutti e spesso usava aneddoti significativi per far passare il contenuto che voleva trasmettere. Achille Campanile disse di lui che è “l’unica barba della TV, ma uno dei pochi che non sia una barba”.
“Pace e bene a tutti”, il saluto dei terziari francescani, diventa anche il saluto di frate Mariano ai telespettatori. Albert Camus ha scritto: “Tutte le disgrazie degli uomini derivano dal non tenere un linguaggio chiaro”.
Anche certe disgrazie in cui incappa la Chiesa sono, a mio parere, dovute alla difficoltà di farsi capire. Per lui la parola aveva una certa sacralità e aveva paura che scivolasse via senza che la gente potesse afferrarla. Per questo motivo faceva di tutto per farsi capire. In secondo luogo, ripeteva con l’esegeta Luis Alonso Schökel: “Ricordate che chiarità è carità”. Infatti era convinto che “la fatica nel capire fa distrarre o fa dormire”. Pregava il Signore perché “mi faccia parlare come vuole Lui”.
Mi pare che oggi capiti quasi sempre il contrario, i predicatori parlano non come vuole Lui, bensì come vogliono loro e poi non lamentiamoci se i risultati sono quelli che sono. Confidava: “Abbiamo complicato tanto la faccenda dell’apostolato? Possibile che per fare un po’ di bene ci voglia davvero tanta tecnica, tanta carta stampata, tante macchine organizzative? Non lo voglio credere. Dio è così semplice! Basta farsi uomini con gli uomini, come Egli si è fatto uomo con noi. Forse la nostra parola ha poco mordente perché è fasciata di troppa seta: non è più nudamente evangelica”.
E ancora: “Qualche volta il sacerdote non ha vera
Qualcuno lo rimproverava di usare con troppa frequenza aneddoti e parabole per spiegare il Vangelo e rispondeva: “l’esempio oltre che a richiamare l’attenzione, viene compreso, si ricorda più facilmente ed è il mezzo migliore per approfondire e non dimenticare la predica”.
Predica senza predicare
Colpivano le sua forte carica di umanità, unita ad una grande dolcezza e ad un amore profondo per tutti gli uomini. Tanto che la televisione americana invitava i funzionari della TV italiana a studiare il fenomeno “padre Mariano”, capace di arrivare a punte di ascolto di 15 milioni di telespettatori. Il Catholic Comment on the News rilevava che era proprio padre Mariano il fattore vincente perché “conquista il suo uditorio con la sua vivacità e gentilezza senza far prediche vere e proprie. Il modo di esprimersi è così intimo che ogni spettatore ha la sensazione che parli direttamente a lui…”.
Un giornale scrisse: “La gente è affamata di spiritualità, e l’umile frate gliela distribuisce a piccole dosi settimanali”. Anche adesso la gente è affamata di Dio, e va alla disperata ricerca di surrogati che, anziché sfamarla, la rendono ancora più affamata. Se si percepisse davvero la fame di Dio che c’è in giro, e che gli uomini cercano in tutti i modi di saziare, si avrebbe molto più a cuore il carisma della predicazione. Dove si preparava per le sue trasmissioni padre Mariano? “È qui (in chiesa) che mi preparo sempre alla televisione. Gesù eucaristico è il mio maestro. Studio Lui. Ascolto Lui. Interrogo Lui. Guardo Lui.”.
Non sarà perché manca questo allenamento costante faccia a faccia del Signore che poi tante prediche non hanno l’effetto desiderato? “Guardate a Lui e sarete raggianti” (33,6) dice il salmista, e dove contemplarlo se non nel tabernacolo? Conviene sempre rifarsi all’esempio dei santi, hanno sempre qualcosa da insegnare.
Gemellaggio spirituale
C’è una donna che riveste grande importanza nella vita di padre mariano. Si tratta di Caterina Serra, primatista italiana degli 800 metri, selezionata per le olimpiadi di Berlino del 1936. Proprio in quell’anno i due si incontrarono perchè la ragazza, fino ad allora non praticante, aveva deciso improvvisamente di frequentare l’Azione Cattolica. Qualche giorno dopo Caterina decise di entrare nel monastero delle clarisse cappuccine di Torino, prendendo il nome di suor Maria Giuseppina. Passarono diversi anni e la suora riuscì ad avere l’indirizzo di padre Mariano e gli scrisse la prima lettera. Iniziò così la loro corrispondenza, che conta 107 lettere, che durò fino alla morte del frate.
Una grande comunione di anime si era creata tra i due, e tutto questo li portava ad essere collaboratori nell’apostolato delle anime. La confidenza e la fiducia reciproca conduceva padre Mariano ad aprire il suo cuore e raccontarle le gioie e le speranze, ma anche le preoccupazioni e gli insuccessi della sua attività pastorale. Alcune espressioni del Nostro frate la dicono lunga di come tenesse in gran conto delle preghiere, dei sacrifici e dell’offerta della propria vita di suor Maria Giuseppina.
Si sentiva “indegnissimo di avere una Sorella spirituale e validissima ausiliaria”, oppure: “Quando mi elogiano e ringraziano…, io rido dentro di me, pensando a chi non riceve mai un
Diceva di sé: “Quante belle scoperte in Paradiso! Il povero P. Mariano si vedrà che era un semplice piffero suonato da labbra invisibili”. Se padre Mariano era la punta di diamante, non bisogna sottovalutare il lavoro di chi rimaneva nelle retrovie. Per questo confidava a suor Giuseppina: “(la trasmissione) Chi è Gesù raccoglie i massimi consensi. Il Signore mi ha proprio “ispirato” quando ho pensato di fare questa rubrica – e Lei ne sa qualcosa, briccona sorella spirituale, che lavora in silenzio con il sacrificio e la preghiera, come l’ape silenziosa”.
La comunione dei santi è una realtà indiscutibile. Lui semina, altri fanno germogliare, lui predica e altri nel silenzio pregano e offrono a Dio una vita di penitenza e amore per la conversione dei fratelli.
Dirà: “È questo olocausto della clausura, ignorata per sempre dagli uomini, ma tanto cara al Signore” che ottiene le grazie dal Signore e non le parole del frate. Quindi per la riuscita della predicazione prima di tutto mettersi davanti al Signore e chiedere cosa dire e come dirlo per attirare a Lui le anime. Poi avere chi prega per la riuscita del proprio lavoro, che intercede continuamente per i fratelli ai quali va annunciata la Parola di Dio. È questa l’opera principale dei monasteri di clausura che accompagnano tutta l’attività pastorale della Chiesa.
Mai si devono disgiungere l’azione e la contemplazione nella visione cattolica dell’esistenza. Non ci può essere l’una senza l’altra. Anche nel campo specifico della predicazione è quanto mai necessario creare un solido legame tra chi ha il mandato di annunciare il Vangelo e chi ha il compito, nascosto ma non meno fecondo, di pregare per la buona riuscita dell’annuncio.
E per questo motivo che Giorgio La Pira scrisse: “Si cerca oggi con tanta passione – ed è giusto farlo – la produzione e il dominio della energia nucleare: ebbene: ecco qui un altro tipo di
E ancora Giorgio La Pira a ricordarci che “la più potente forza storica, che muove i popoli e le nazioni, che finalizza la storia intera è l’orazione!”. Tanto che qualcuno afferma che la preghiera è il cuore dell’evangelizzazione. Per tornare a padre Mariano va detto che il suo impegno alla televisione gli portava via tempo ed energie e per questo motivo, all’inizio della sua attività televisiva, aveva scritto al Ministro Provinciale dei cappuccini per chiedere un collaboratore. Non gli venne dato nessun aiuto e fu costretto a continuare da solo quest’immensa opera di evangelizzazione.
Questo perché, come ci ricorda il cappuccino, anche tra i suoi confratelli pochi capivano “il valore eccezionale di questo apostolato televisivo, arma di oggi e dell’avvenire per conquistare anime a Cristo”. Una caratteristica fondamentale di questo frate era la misericordia verso tutte le persone. Per attirare gli uomini a Dio non servono la severità e la durezza ma la bontà e la pazienza. Sul suo volto era sempre stampato il sorriso di un vero e proprio giullare di Dio che esprimeva la perfetta letizia francescana.
Un brillante comunicatore
Un suo biografo ha indicato tre caratteristiche nella sua predicazione: chiarezza, brevità, incisività. Un giornalista americano scrisse che il programma di padre Mariano: “stimola l’interesse dei telespettatori; e così il tempo della trasmissione non risulta mai noioso e comunque mai troppo lungo”, due caratteristiche queste quasi sempre presenti nelle prediche che ascoltiamo nelle nostre chiese. Il cappuccino Giancarlo Fiorini scrive: “I contenuti erano ridotti all’essenziale e venivano proposti in piccole dosi, intervallandoli con riferimenti a fatti e persone, ad esperienze personali, ad aneddoti e perfino a barzellette. Era un discorso facile da capire ma pieno di contenuto esistenziale”.
E ancora: “In ogni trasmissione poi citava degli esempi o dei fatti, intercalandoli con riflessioni teoriche. Sorprende la conoscenza di tanti episodi e frasi significative, di persone di ieri e soprattutto di oggi, di iniziative valide e di movimenti che perseguono finalità positive; in questo era agevolato dalla passione per la lettura e dal suo schedario (o zibaldone, come lo chiamava), contenente oltre cento cartelle ordinate per argomenti, che aggiornava di continuo. A chi non condivideva l’alternanza nell’esposizione di idee e fatti concreti, rispondeva che l’esempio, oltre a richiamare l’attenzione, viene compreso subito, si ricorda più facilmente ed è uno stimolo per approfondire e personalizzare. Inoltre era convinto che conoscere l’esperienza spirituale di cristiani autentici, di convertiti e di uomini illustri del nostro tempo, ha una forza trascinante ben superiore ad ogni discorso: un fatto vale cento ragionamenti”.
Diceva: “La Chiesa vuole – e quanto spesso lo ripete! – che l’omelia della messa sia breve, breve: non passi i dieci minuti. Perché un discorso sia immortale – pare che la Chiesa dica, raccomando la brevità ai ministri di Dio – non è necessario che duri eternamente. Economia nelle parole: come se quello che si dice si dovesse telegrafare per esempio in America, con la tariffa – non indifferente – di
Il suo parlare era fluido, brillante ed aderente alla vita. La capacità di sintesi, il modo avvincente con cui raccontava le cose e il calore umano che emanava dalla sua persona attaccavano il telespettatore al teleschermo. E poi la Grazia di Dio faceva il resto, toccando i cuori e le menti, provocando conversioni, cambiamenti di vita, suscitando il desiderio di una maggior intimità con Dio e un maggior amore ai fratelli.
Gli stessi indici di gradimento gli davano ragione: oscillavano tra il 77 e l’81%, indici mai più raggiunti nella storia della televisione italiana. Basti pensare che la trasmissione Lascia o raddoppia, condotta da Mike Bongiorno, raggiunse l’indice di gradimento del 74 nel 1957, del 67 nel 1958 e del 56 nel 1959. Morirà il 27 marzo del 1972 a Roma. È in corso il processo di beatificazione.
Il cardinale Ugo Poletti, nell’omelia funebre, così si espresse: “Era come vedere ancora san Francesco, con un largo sorriso sul volto, con la gioia che sprizza dagli occhi, con una disponibilità per quanti volevano chiedergli qualche cosa, con la semplicità che disarma e conquista, con quel linguaggio caldo, carico di umanità, e di fede”. (da Avete finito di farci la predica? Riflessioni laicali sulle omelie – Effatà Editrice 2011)
Ripartire dalla bellezza liturgica
La liturgia, in molti casi, non aiuta a tuffarsi nel mistero. Talvolta appare come un ritualismo vuoto, eccessivamente giuridico.
Molta responsabilità ricade certamente su quei fedeli che vanno a messa per adempiere ad un precetto più che per un incontro autentico con il Signore. Tuttavia il compito dei ministri del Vangelo è proprio quello di rendere appetibile il desiderio di Dio.
Già nel 1952, Giorgio La Pira scriveva che occorre “elevare gli intelletti e i cuori sino alla contemplazione della bellezza eterna! Il cristianesimo – specifica La Pira – non è solo bontà: è anche, essenzialmente, bellezza, purità, luce: …bisogna mostrare agli uomini contemporaneamente questi due aspetti indissociabili dell’unica redenzione”.
E questo ruolo spetta in modo determinante proprio alla liturgia. Sentiamo ancora La Pira in uno scritto del 1953: “La civiltà cristiana medievale si definisce proprio per questo primato della contemplazione: è la civiltà della liturgia e della bellezza cristiana; è il tentativo massimo compiuto dai cristiani di trascrivere nelle strutture della città terrestre la grazia, la luce e la bellezza della città celeste”.
Bellezza della predicazione e della liturgia formano un tutt’uno. “La parola del predicatore deve attingere motivo di armonia e di conforto da tutto il complesso di ciò che nella chiesa fa impressione di ben disposto e di vera bellezza. Chi parla, chi istruisce trae motivo dall’arte, dalla liturgia, da tutto ciò che nella chiesa ha virtù di edificare e di commuovere. Siamo fatti così. Un tocco d’organo, un canto collettivo, soave o poderoso, accompagnato o illustrato da una parola appropriata e serena – la parola canta – tutto vale alla vibrazione del cuore, all’incoraggiamento, alla rinnovazione di uno stato d’animo bisognoso di coraggio e di pace” (Beato Giovanni XXIII).
L’arte ha questa capacità di elevare il cuore dell’uomo verso Dio. E papa Paolo VI, che ebbe tanti amici tra gli artisti, e che aveva una grande sensibilità verso il tema della bellezza, volle esprimere la sua riconoscenza agli artisti, invitandoli nella Cappella Sistina, il 7 maggio del 1964. Nel discorso che pronunciò affermò tra l’altro che “Noi abbiamo bisogno di voi. Il nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio…? il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colore, di forme, di accessibilità”.
Proprio la liturgia ha la capacità di esprimere la bellezza, la tenerezza e la gratuità di Dio. Gli uomini di ogni tempo hanno sempre avuto bisogno di spazi e tempi specifici per rendere lode al Creatore. In questi ultimi quattro decenni si è coltivato l’impoverimento dei luoghi e dei segni liturgici, e oggi molti preti si scandalizzano se tanti giovani si sentono attirati verso nuovi culti e forme di religiosità dove sono in voga pseudo liturgie che scimmiottano quelle celebrate nelle nostre chiese.
Un certo spirito di povertà mal compreso ha fatto si che tante chiese fossero spogliate di ogni forma artistica. Alcune assomigliano più a dei garage che a luoghi di culto. Una certa mentalità diffusasi anche nella Chiesa pensava di rendere gloria a Dio risaltando al massimo lo spogliamento di ogni oggetto di culto. Uno dei modi per evangelizzare è proprio la liturgia. Ad essa, infatti, spetta il compito di sensibilizzare alla bellezza perchè rimane la porta attraverso la quale si ha accesso al Mistero.
Una grande opera di nuova evangelizzazione è in atto per riportare Gesù Cristo al centro della vita di tanti uomini del nostro tempo. Il problema sorge quando si deve invitare il neo convertito alla messa: dove indirizzarlo? Poiché non sempre si tratta di persone capaci di comprendere che Gesù è presente quali che siano le qualità della celebrazione o le infedeltà del celebrante. C’è il rischio di perdere per strada queste persone dopo aver fatto tanta fatica per riportarle a Gesù. Se c’è un campo privilegiato dove bisogna investire nella bellezza questo è proprio la liturgia.
Sempre la Chiesa nella sua storia ha coltivato il gusto del bello. Ha protetto gli artisti e sviluppato l’arte in tutte le sue forme. L’architettura, la pittura, la musica si sono messe a disposizione per creare dei capolavori degni di Dio. Benedetto XVI scrive che ”oggi più che mai, nella civiltà dell’immagine, l’immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico”.
Già papa Paolo VI, nell’anno 1965, rivolgendosi ad artisti, scrittori e musicisti, aveva affermato: “Da lungo tempo la Chiesa ha fatto alleanza con voi; voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. Voi l’avete aiutata a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere sensibile il mondo invisibile”. (da Avete finito di farci la predica? Riflessioni laicali sulle omelie – Effatà Editrice 2011)
L’omelia è malata
Il cardinale Yves Congar, uno dei più importanti uomini di Chiesa del XX secolo, alla fine degli anni sessanta disse: “Nonostante trentamila prediche domenicali la Francia è ancora un paese cattolico”.
Anche chi non crede ai miracoli dovrebbe porsi qualche interrogativo. Se poi si pensa che dopo più di quarant’anni da questa affermazione le cose non sono cambiate in meglio, è auspicabile che gli addetti ai lavori comincino a preoccuparsi e interrogarsi sul livello della predicazione. Pochi sono coloro che tra i fedeli esprimono sinceramente il proprio pensiero su che cosa ascoltano la domenica andando alla messa.
La maggior parte delle persone preferisce sorbirsi il panegirico del prete di turno in religioso silenzio, magari estraniandosi e pensando a tutt’altro, considerandolo come una sorta di penitenza ormai abituale. “Si subisce la predica, perché non se ne può fare a meno, fa parte di un copione obbligato” (don Alessandro Pronzato).
Non tutti, però, hanno la pazienza di continuare ad essere sommersi dalle troppe parole che cadono dai nostri pulpiti. Va detto che un confronto leale, con quella franchezza tanto auspicata nella Chiesa, sia un servizio quanto mai opportuno da rendere ai tanti predicatori che hanno come missione l’annuncio della Parola ed il suo commento. Il disagio nelle nostre parrocchie è sempre più crescente e anche le statistiche, quanto mai di moda in questi anni, sottolineano che l’omelia è malata e urgono dei rimedi. Non si può continuare a far finta di niente, sorbirsi il sermone senza capo né coda e poi tutti a casa.
Con rispetto verso chi ha il dovere della predicazione, e con l’umiltà che si è tutti in cammino e che si può sempre migliorare, penso che i laici debbano esprimere la propria convinzione riguardo a quel momento della liturgia volgarmente chiamato predica. Esiste nella Chiesa un grave problema di comunicazione e molti fedeli abbandonano le comunità cristiane perché non trovano un linguaggio che sappia interessarli e coinvolgerli. Molte persone borbottano e poi tengono per sé il disagio provato in anni e anni di omelie noiose e inutili. Pochi sono coloro che tra i fedeli hanno il coraggio, in tutta sincerità, di esprimere le loro perplessità e le critiche per cercare di migliorare un certo linguaggio ecclesiale.
Mons. Mariano Crociata, segretario generale della CEI, a fine 2009 ha rincarato la dose affermando che le omelie domenicali sono ridotte a “una poltiglia melensa”, quasi “una pietanza immangiabile” o, comunque, ben “poco nutriente”. D’altra parte, come sottolineato da Sergio Zavoli, “…è da tutti risaputo che il 95% della formazione cristiana (dopo il periodo della catechesi) passa – o non passa – quasi esclusivamente attraverso l’omelia domenicale e festiva, e le diverse forme di predicazione”.
Il cardinale Silvano Piovanelli, presentando il monumentale Dizionario di omiletica edito in collaborazione tra l’Elledici e la Velar, scrisse: “Effettivamente, almeno a giudicare dalle critiche che ci vengono mosse da persone semplici e da persone colte, non sembra che noi sappiamo cogliere quest’
Chi osserva le persone uscire dalla messa domenicale si accorge subito che non hanno l’aria festosa. Talvolta danno l’impressione di essersi liberate di un peso, ma quasi mai si legge sui loro volti ciò che andava ricercando Julien Green prima di convertirsi al cattolicesimo.
Lo scrittore francese era solito appostarsi fuori dalle chiese al termine della celebrazione eucaristica e si domandava: “Se questi veramente credono a quello cui partecipano, dovranno venir fuori da qui con facce splendenti, occhi incendiati di luce, il fuoco nel cuore”.
Green rimaneva immancabilmente deluso: volti tristi, musi lunghi e chiacchiere futili. La cosa che più preoccupa e che se si appostasse adesso nei paraggi delle nostre chiese il risultato sarebbe pressoché identico. “Il motivo per cui la Chiesa ha posto il Credo dopo l’omelia è per invitarci a credere nonostante ciò che abbiamo ascoltato” (card. Tomáš Špidlik). (da Avete finito di farci la predica? Riflessioni laicali sulle omelie – Effatà Editrice 2011)
La missione della Chiesa cattolica
Mi capita, di tanto in tanto, di leggere delle interviste a preti e religiosi che sono disturbati dalle battaglie portate avanti da una parte del mondo cattolico contro quella vera piaga sociale che è l’aborto. Costoro definiscono ipocriti chi lotta per la difesa della vita umana fin dal suo concepimento e preferirebbero una Chiesa più schierata sui problemi della povertà, della fame e della giustizia. Penso che valga la pena di fare alcune considerazioni su quanto sopra esposto.
Se c’è un ambito dove la Chiesa deve impegnarsi maggiormente è la predicazione riguardo alla risurrezione di Cristo. La proposta cristiana, soprattutto in questo campo, ha da dire una parola di formidabile speranza sulla sorta ultraterrena degli esseri umani. La novità fondamentale del cristianesimo è proprio questa: Gesù Cristo è risuscitato dai morti, qui sta o cade l’intero edificio della fede cristiana.
Già S. Paolo, scrivendo la 1? lettera alla comunità di Corinto, dice: “Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini” (1Cor. 15,13-14-19).
Siamo chiamati ad annunciare che, duemila anni fa, a Gerusalemme, è accaduto un avvenimento di una tale portata che tutta la storia dell’umanità ha preso da allora una strada diversa. L’inaudito, l’impensabile e, badate bene che non sono termini esagerati, se si riflette a fondo su questa questione, è accaduto: la tomba di Cristo si è trasformata nella sua culla.
Tutta quanta la vicenda umana è trasfigurata da questo evento, la resurrezione di Cristo getta luce nuova su ogni vita umana, la morte si trasforma nel passaggio alla vita stessa di Dio. “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio!” (Col. 3,1-3).
Una speranza amputata
Purtroppo, tante volte, lo stesso personale della Chiesa sembra ignorare queste verità che toccano ogni individuo e lo pongono davanti alla questione ultima sul senso della propria vita. Qualcuno ha detto: “Più che annunciatori di speranza, certi cristiani, certi cattolici di oggi si direbbero piuttosto ladri di speranza“.
Se togliamo al cristianesimo proprio le fondamenta, che cosa rimarrà del nostro annuncio? Se tronchiamo i Vangeli alla morte di Gesù, li mutiliamo proprio di quella resurrezione che è la base di partenza della speranza cristiana. A che cosa servirebbe la Chiesa se non fosse più chiamata a testimoniare Cristo risorto? Che Buona Novella sarebbe mai questa se si deve morire e, se, con la morte, tutto ha fine? Senza la vittoria sulla morte operata da Gesù, la Chiesa sarebbe una tra le tante istituzioni della nostra società impegnate nel sociale e in attività benefiche ma nulla di più.
L’annuario della carità
In secondo luogo vorrei chiedere a coloro che pensano che la Chiesa sia poco presente nel mondo della giustizia e della sofferenza: dove vivete? Non sapete che la Chiesa cattolica è presente ovunque l’uomo soffre, viene umiliato, torturato e perseguitato. Penso soprattutto al settore della carità dove la Chiesa è sempre in prima linea quando l’uomo è malato e ferito per curarlo, rialzarlo e guarirlo. Chi, dunque, nei secoli ha creato gli orfanotrofi, le scuole, i lebbrosari, gli ospedali se non, quasi sempre, dei battezzati sull’esempio di Gesù che è passato sanando ogni male.
Stando a dati relativi all’anno 2003 la Chiesa cattolica dona al mondo contemporaneo 6038 ospedali, 17189 studi medici, 799 lebbrosari, 13238 case d’accoglienza per persone anziane o handicappate, 8711 orfanatrofi, 10368 centri per bambini in difficoltà, 18798 centri di rieducazione sociale e 25257 centri di pastorale per la sanità. Senza contare tutto ciò che non è ufficialmente recensito. Questo è l’annuario della carità scritto da centinaia di migliaia di cattolici ogni anno, in ogni parte del pianeta, per dare dignità e speranza alla nostra umanità.
E che dire dei martiri del XX secolo e di questo inizio secolo, che continuano a dare la vita per essere fedeli a Dio e servire gli uomini? La Chiesa ha avuto più martiri nel XX secolo che non in tutta la sua storia. Quale altra istituzione può dire di avere operato con altrettanto efficacia per servire, aiutare e proteggere l’uomo? Come battezzato sono fiero di appartenere a questa Chiesa così spesso attaccata e contestata anche da una parte del suo clero miope e succube di ideologie non cristiane.
Il feto: l’essere umano più innocente, più vulnerabile, più inoffensivo
In terzo luogo la promozione della vita umana fin dal suo nascere è una delle priorità della nuova evangelizzazione auspicata con forza da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Urge ribadire con determinazione anche a molti cattolici che “il concepito sia un essere umano oggi non dovrebbe essere messo in dubbio più da nessuno che non voglia negare i dati della scienza, e della ragione. Se è un essere umano, sia pure in forma microscopica, possiede già, sin dal momento del concepimento, la dignità propria degli esseri umani” (P. Gino Concetti – L’Osservatore Romano, 23-24/6/2000).
Il Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa cattolica parlando dell’aborto come di un “delitto abominevole” non hanno fatto altro che riaffermare quella che è l’ininterrotta posizione della Chiesa lungo tutta la sua storia. Antonio Socci, nel suo libro Il genocidio censurato, scrive: “I morti causati dai regimi totalitari e dagli innumerevoli conflitti armati che hanno insanguinato il Novecento sarebbero circa 200 milioni. Eppure c’è una strage – tuttora in corso – che ha prodotto oltre un miliardo di vittime e di cui nessuno oggi vuole parlare: l’aborto”.
Davanti a questa gigantesca cospirazione contro la vita umana la Chiesa cattolica risponde con centinaia di associazioni e movimenti che difendono l’essere umano più innocente, più vulnerabile e più inoffensivo. Coloro che si discostano da questo insegnamento siano essi laici, religiosi o preti si mettono in aperto contrasto con i dati della scienza, della ragione e con il Magistero supremo della Chiesa cattolica creando confusione e turbamento tra i fedeli e, per di più, umiliando lo sforzo delle migliaia di volontari che ogni giorno lottano contro questa piaga sociale.
Segni di Dio nel mondo contemporaneo
Un grande poeta inglese, Coventry Patmore, ha scritto: “Ogni conoscenza degna di questo nome è una conoscenza nuziale“, questo è tanto più vero per la conoscenza del Dio di Gesù Cristo.
La nostra dignità di uomini è in stretto rapporto alla conoscenza che ogni giorno approfondiamo con Dio, a ciascuno di noi è data la possibilità di scoprire o riscoprire con Lui un’esperienza personale essenziale. Attingendo attraverso la vita sacramentale i tesori della Grazia, saremo in grado di aprirci alle problematiche del nostro tempo, perché i nostri contemporanei hanno bisogno di incontrare persone e gruppi che vivono intensamente la loro adesione a Cristo.
Sono soprattutto i testimoni che hanno forza persuasiva. Paolo VI scrisse: “L’uomo di oggi apprezza di più i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni”. Sta a ciascuno di noi di essere un autentico segno di Dio nel mondo contemporaneo. Dovremmo essere capaci di una passione d’amore così forte per Cristo, che sia in grado di contagiare coloro che vivono attorno a noi. ? possibile che, attraverso di noi, Dio diventi una realtà nella storia del mondo, perché generalmente è proprio attraverso una mediazione umana che si comprende qualcosa della bellezza di Dio. Siamo chiamati a risvegliare negli uomini del nostro tempo una sorgente di stupore, per far loro scoprire che una Presenza li avvolge. Abbiamo il compito di fare della nostra vita un capolavoro di luce e di amore, bisogna che sia bella, che porti l’irradiazione della gioia. Non si tratta di chiacchierare, di assediare la gente, di fare propaganda. Se siamo portatori di gioia, se la vita si trasfigura dove arriviamo, se c’è più rispetto nel nostro ufficio, nella nostra casa, le persone vedranno in noi delle rivelazioni viventi del viso di Gesù Cristo, che vuole rivelarsi e manifestarsi attraverso il nostro. Pensiamo al credito che Dio ci fa affidando Se Stesso nelle nostre mani, diventando suoi ambasciatori.
Prestare a Dio il nostro viso
Padre Maurice Zundel diceva: “Ognuno di noi ha ricevuto da Dio un tratto del suo Viso Infinito per manifestarlo, e questa rivelazione che è il nostro stesso essere, solo noi la possiamo fare. Dobbiamo apportare agli altri infinitamente più che noi stessi nell’irraggiamento di Dio che ci abita. Tonnellate di discorsi non hanno mai cambiato niente. Lo spirito non può essere colpito fruttuosamente che per lo spirito, l’anima per l’anima, la persona per la persona, la vita per la vita. I beni dello spirito non possono essere comunicati che nella misura in cui sono vissuti”.
Dobbiamo prestare a Dio il nostro sorriso, la nostra bontà, la nostra amicizia perché queste cose colpiscono il cuore dell’uomo. S. Gregorio Nisseno ha scritto: “Occorre respirare Cristo, assimilare Cristo, per poi esprimere Cristo con la nostra vita”. Una delle cose belle della nostra vita è proprio la possibilità che ci è data di rivelare Dio; se saremo capaci di rivestirci di Cristo, secondo la stupenda espressione di S. Paolo, coloro che incontreremo nel cammino saranno certamente capaci di fermarsi e domandarsi da dove proviene la bontà e la bellezza della nostra esistenza. Fare esperienza di Dio significa vivere una forte relazione di amicizia e di amore con Lui, in cui si impara anche a farlo scoprire agli altri. Oltre a gustare le cose di Dio, ad alcuni è concesso di farle gustare a loro volta ad altre persone, vengono fatti capaci di diventare propagatori di questo desiderio del Signore, e diffusori di questa luce e letizia di Dio.
S. Escrivà de Balaguer ripeteva: “Se le persone che ci stanno accanto non migliorano la vita cristiana, se noi non abbiamo il desiderio che le persone che conosciamo stringano amicizia con Dio, fino a giungere ad una stretta intimità con Lui, significa che non stiamo corrispondendo alla chiamata ricevuta, in quanto ci sollecita a diffondere il regno di Dio, e – rendetevene conto – significa che persino su un piano umano siamo dei falliti, perché abbiamo disertato dalla strada che il Signore, nell’infinito suo amore e nella sua misericordia, ha tracciato personalmente per noi“.
Nei santi si intravede Qualcuno che vive in loro e la gente li segue proprio per questo motivo: il loro volto svela un altro Volto. Quale stupore nel poter vedere, attraverso il viso di un uomo, il Viso di Dio. Il grande predicatore domenicano di Notre-Dame di Parigi, Lacordaire, era solito andare ad ascoltare il Curato d’Ars, sebbene quest’ultimo non avesse la dottrina e la preparazione del primo. A chi gli faceva notare perché si scomodasse per andare fino ad Ars, Lacordaire rispondeva: “Vado a sentire cosa dice lo Spirito Santo”. Il Curato d’Ars era un vero uomo di Dio, e la gente accorreva da tutte le parti per ascoltare quest’autentico profeta del Signore, che richiamava alla conversione e alla penitenza con la santità della propria vita.
Il sacramento della riconciliazione
Il sacramento della confessione, o riconciliazione, oggi è fortemente in crisi perché, come insegnava papa Pio XII, “il più grande peccato dei tempi moderni e di non credere più nel peccato”.
Dov’è finito il peccato? Si è perso il senso del peccato perché si è affievolito il senso di Dio. Si sente dire che confessarsi non è di moda, confessarsi da un uomo sembra ormai cosa inaudita, salvo andare poi in certe trasmissioni a chiedere perdono, davanti a una telecamera, con milioni di spettatori, quando si è offeso qualcuno. Ma poi a che prò dover chiedere perdono? Non si è mica ammazzato nessuno! Ci riteniamo tutti innocenti, o, per meglio dire, abbiamo uno specchio che rimpicciolisce i nostri peccati e che ingrandisce quelli del prossimo. Sarebbe tutto più facile se, anziché dover confessare i nostri errori, potessimo confessare quelli degli altri, sapremmo certamente trovarne di tutti i tipi e qualità.
Già S. Francesco di Sales diceva: “? cosa naturale cercare di nascondere i propri difetti: ma, se è così, perché godere allora che siano manifestati i difetti altrui?”. Tanta gente dice di intendersela direttamente con Dio senza aver necessità di passare attraverso la mediazione di un uomo, ignorando che il Signore vuole salvarci attraverso la mediazione umana. Non facciamo come il tizio che, trovandosi in punto di morte, rifiutò di vedere il sacerdote che attendeva in anticamera, dicendo: “Quanto alla mia coscienza, me la intendo direttamente con Dio“.
Bisogna vedere se anche Dio voleva intendersela direttamente con lui. ? un dato di fatto che più si vive lontano da Dio e meno si sente il desiderio di chiedere perdono; quante volte sentiamo la gente che dice: “che male c’è?”, “non ho fatto niente di cui accusarmi” e l’elenco delle giustificazioni potrebbe continuare. Viceversa, se si è vicini a Dio, e in questo caso l’esempio dei santi è sotto gli occhi di tutti, si sente il bisogno di purificarsi continuamente perché ci si sente schiacciati dalle nostre miserie che in qualche modo ci allontanano dal Signore. D’altra parte “bisogna essere molto vicini a Dio per misurare la distanza che ci separa da Lui” (Léon-Joseph Suenens).
Chesterton si chiedeva: “Chi è un santo? Un uomo che sa di essere peccatore“. Sminuire il senso del peccato vuol anche dire annullare in un certo modo il sacrificio di Cristo sulla croce. Senza dubbio quando prendiamo coscienza di essere peccatori siamo già sulla buona strada. Ricordiamoci, però, che i sensi di colpa sono altra cosa rispetto al senso del peccato. I santi comprendono che peccando si ferisce il Sommo Bene e non si lascia trasparire la sua vita nella nostra.
Sant’Agostino diceva: “Per lodare Dio, ti accusi: in effetti, la sua grandezza sta nel rimettere i tuoi peccati. Confessare i tuoi peccati fa parte della lode di Dio. Per quale motivo? Perché tanto più ci si felicita con il medico quanto più si era disperato del malato“.
Che ridicoli questi cattolici, sempre con queste storie oscurantiste da Medio Evo, non ci siamo liberati una volta per tutte da questi tabù clericali noi adulti moderni? Non sarà che, per caso, ci dà fastidio fare ogni tanto l’esame di coscienza per interrogarci sui nostri rapporti con Dio (se ci si crede naturalmente), e con il nostro prossimo? Noi moderni passiamo per persone aperte in campo sociale e morale, disponibili a interessarci ai problemi legati alla globalizzazione, allo sfruttamento dei minori, alle problematiche degli handicappati, dei lavoratori, degli extracomunitari e, perbacco, come si fa a pensare che personaggi di tale spessore incappino in quella vecchia invenzione chiamata peccato?
Tutti disponibili come siamo, almeno a parole, a batterci per i diritti dell’uomo, per una migliore qualità della vita, e tolleranti davanti a ogni liberazione sessuale e sociale, chi oserebbe mettere in dubbio che siffatti individui si debbano confrontare con il senso del peccato? La realtà la conosciamo tutti e, naturalmente, è ben diversa da quella che si vorrebbe far credere. Per cui, se un male aggredisce il nostro organismo andiamo dal dottore, e cerchiamo di curarci, lo stesso discorso vale per la vita spirituale: quando è malata dobbiamo fare il possibile per curarla. Il sacramento della penitenza è la clinica delle anime.
Siamo allergici alla parola peccato. Bisogna dire che anche nelle nostre chiese se ne sente parlare sempre di meno. Forse per non urtare i pochi fedeli che ancora le frequentano o, forse, perché se ne è parlato così tanto in passato e adesso non si ha più il coraggio di dire qualcosa sull’argomento. Eppure il peccato è una certezza acquisita; le nostre miserie sono all’ordine del giorno. Dobbiamo dire, piuttosto, che non ci piace riconoscere che la nostra vita è intessuta di colpe, errori e comportamenti più o meno gravi.
L’allergia al confessionale
Diciamo spesso “Santa Maria prega per noi”, “Padre rimetti i nostri debiti”, “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo” ma da qui a confessarsi la strada non è così breve. Siamo tutti un po’ infastiditi dalla confessione, e tanto più dalla confessione frequente. Ci capita come quel tale che, dopo aver dormito in un’osteria, aveva chiesto al mattino, al suo domestico gli stivali, e se li era visti portare ancora coperti di polvere. “Come mai non gli avete puliti?” aveva chiesto. “Ho pensato che era inutile – aveva risposto il domestico – tanto dopo pochi chilometri di viaggio, si impolverano di nuovo!”. “Giusto, ma ora va a preparare i cavalli per la partenza”. Poco dopo i cavalli scalpitavano fuori dalla scuderia e il padrone era in pieno assetto da viaggio. “Ma non possiamo partire senza colazione” osservò il servo. “? inutile – rispose il padrone – tanto, dopo pochi chilometri di viaggio, avresti fame di nuovo!”
Il mestiere di Dio
Dio ci fa toccare con mano, attraverso il prete, che la riconciliazione è raggiunta. ? un atto di umiltà e di verità accostarci al Signore attraverso la confessione. Papa Luciani ha detto: “Davanti alla nostra miseria finita, Dio ci viene in soccorso con la Sua misericordia infinita”. Quando Heinrich Heine, poeta tedesco di origine ebraica, stava per morire, sua moglie gli suggeriva pensieri religiosi: “Oh, Enrico mio, il Signore ti perdonerà tutto!” e il poeta rispose: “Stai tranquilla cara, certamente Dio avrà misericordia di me; il suo mestiere è quello del perdono”. Charles Sant-Foi, uno scrittore dell’ottocento, definì il sacramento della riconciliazione: “Un’amicizia, elevata a sacramento, fra creatura e Creatore“.
Il peccato non è solo un atto contro Dio, il disordine causato dai suoi effetti si ripercuote a livello della comunità umana. “Un’anima che si innalza, innalza il mondo” (Elisabeth Leseur), la stessa cosa è vera al contrario, per cui ogni anima che si degrada nuoce alla comunione dei santi per questa misteriosa solidarietà che esiste tra tutte le membra della famiglia umana. Nel sacramento della riconciliazione, attraverso la mediazione del sacerdote, veniamo riconciliati con Dio e con tutta la comunità precedentemente ferita dal nostro peccato.
San Leopoldo Mandi?
La storia della Chiesa è ricca di tanti santi confessori: pensiamo al curato d’Ars, S. Giovanni Bosco, padre Pio da Pietrelcina, padre Felice Cappello. Vorrei, qui, tratteggiare brevemente alcuni aspetti di colui che viene anche indicato come il confessore della misericordia: S. Leopoldo Mandi?. Nato in Dalmazia nel 1866, morì a Padova nel 1942, e per quasi tutta la vita esercitò il suo ministero di confessore a Padova. Frate cappuccino, incarnava la bontà e la tenerezza di Dio, i fedeli accorrevano da tutta Italia per confessarsi da lui. Era piccolo di statura (m. 1,38), balbuziente, non ci ha lasciato nessuna predica, era capace di rimanere nella celletta confessionale dalle 12 alle 15 ore al giorno e tutto questo per 40 anni. Sono famose alcune sue frasi che meritano di essere ricordate: “La misericordia di Dio è superiore ad ogni aspettativa”, “Dio preferisce il difetto che porta all’umiliazione piuttosto che la correttezza orgogliosa“.
Criticato perché troppo sbrigativo, buono e largo di manica nell’assolvere, rispondeva: “Ci ha dato l’esempio Gesù, non siamo stati noi a morire per le anime, ma ha sparso Lui il Suo sangue divino. Perché dovremmo noi umiliare maggiormente le anime che vengono a prostrarsi ai nostri piedi? Non sono già abbastanza umiliate? Ha forse Gesù umiliato il pubblicano, l’adultera, la Maddalena?”.
Le confessioni di solito erano corte e raccomandava ai preti: “Nel confessionale non dobbiamo dare sfoggio di cultura, non dobbiamo parlare di cose superiori alle capacità delle singole anime. Noi dobbiamo scomparire, limitarci ad aiutare questo divino intervento nelle misteriose vie della salvezza e santificazione“.
Era magnanimo anche nelle penitenze, ordinariamente dava da recitare tre gloria al Padre e tre ave Maria, salvo poi passare lui tante notti in preghiera per ricordare al Signore coloro che si erano confessati nella giornata. Ad un prete, che voleva far mettere il cilicio ad una ragazza sua penitente, rispose: “Lei padre lo usa il cilicio?”. Questi rispose di no ed egli ribattendo: “E allora? Caro padre, abituiamo i penitenti ad ubbidire ai comandamenti di Dio e al loro dovere. Ce n’è abbastanza, ce n’è abbastanza! E i grilli via!”.
Certamente, un certo aspetto della crisi del sacramento della penitenza è dovuto alla fatica di incontrare preti accoglienti, calorosi, capaci di orientare il fedele a superare la fredda ripetizione dei peccati, per far risaltare la conversione e la gioia del ritorno tra le braccia del Padre misericordioso. Tutto, infatti, ruota intorno alla misericordia di Dio. ? importante capire che non deve essere per prima cosa la paura per la nostra salvezza a farci accostare a questo sacramento, ma il dolore per aver ferito Qualcuno che ci ama in modo infinito e sempre ci attende al di là di ogni nostra speranza e aspettativa.
Il veleno nella scodella della madre
Sentiamo questo episodio accaduto a San Luigi Orione, dopo essere diventato prete da pochi mesi. “Da Tortona venni mandato a Castelnuovo Scrivia, circa otto chilometri di strada, per predicare la novena dell’Immacolata. Avevo parlato, quella sera, della confessione a una chiesa gremita di gente e non so perché ma sta di fatto che a un certo punto uscii con questa espressione: “Se anche qualcuno avesse messo il veleno nella scodella di sua madre e l’avesse così fatta morire, se è veramente pentito e se ne confessa, Dio, nella sua infinita misericordia, è disposto a perdonargli il suo peccato“.
Finita la predica incomincio le confessioni e tutti volevano confessarsi da me perché avevo la manica larga e poi perché tanti amano confessarsi da un forestiero perché al loro parroco che li conosce non vanno a dire certi peccati. Finito di confessare, verso mezzanotte, sotto la neve, torno a Tortona a piedi. Fuori dal paese c’era un uomo con il mantello che mi aspettava, ero sorpreso, anche impaurito, decido di superarlo e salutarlo. Lui mi ferma e mi chiede se sono io il predicatore di questa sera e se credo davvero a quello che ho detto specialmente in riferimento al veleno nella scodella della madre. Rispondo di sì, anche se non ricordavo di aver detto quelle parole; il tale mi disse: “Sono quell’uomo che ha messo il veleno nella scodella di mia madre tanti anni fa perché c’era discordia tra lei e mia moglie“.
Da allora non aveva più avuto pace ed era ormai anziano, si confessò e si gettò piangente al mio collo. Anch’io piansi e lo baciai in fronte e le nostre lacrime si confondevano. “Poi mi accompagnò quasi fino a Tortona e poi sparì tra le cascine; non avevo mai provato una gioia così grande nella mia vita e ripetevo quanto è grande la misericordia di Dio”. Davanti a don Orione quest’uomo ha trovato una fiducia che lo ha restituito a se stesso, la sua vita può finalmente ricominciare, nuovi orizzonti si schiudono davanti a sé. Tutti e due adesso sono in grado di proclamare le meraviglie di Dio “perché tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc. 15,32).
La fede è significativa per l’uomo d’oggi?
Per l’uomo di oggi la fede non è significativa. Non ci ingannino le cifre di coloro che per tradizione chiedono il battesimo per i propri figli e, in alcuni casi, arrivano fino a far celebrare loro il sacramento della cresima. Quest’ultimo, anziché essere il sacramento della maturità cristiana, si è trasformato nell’esodo in massa dalla comunità cristiana. Troppi genitori mandano per anni i figli a catechismo per assolvere un obbligo rituale, senza impegnarsi minimamente nell’accompagnamento dei ragazzi alla scoperta di Cristo e della sua Chiesa. Altre persone non intendono neanche più battezzare i figli dicendo che quando saranno grandi prenderanno le decisioni che meglio credono. Non vogliono imporre ai loro ragazzi nessun Credo religioso per un presunto senso di tolleranza e di rispetto della loro libertà.
Ma, allora, come spiegare tutti gli altri condizionamenti a cui sottopongono i figli fin dalla tenera età, in ogni campo della vita, a cominciare dalle scelte meno importanti e fittizie come può essere quella della squadra di calcio? Su cose tanto piccole si condizionano i bambini sin dalla partenza, e sulle grandi questioni li si lascerà scegliere alle soglie della maturità. Non è proprio il contrario di una retta educazione? Non è sulle cose che davvero contano che si gioca tutta quanta la vita di un individuo e non sulle cose di piccolo cabotaggio? Una moda del nostro tempo è di far partecipare i figli a molteplici impegni sportivi per garantirgli la salute del corpo e di trascinarli verso attività quali la musica, la pittura, la danza e via dicendo più per la propria soddisfazione personale che non per la realizzazione dei propri figli. In questo contesto è indubbio che ai ragazzi, presi tra la scuola e questi diversivi, non si possa far perdere altro tempo con quello che comunemente è chiamato il catechismo. Chi oserebbe appesantire la già ricca giornata dei figli con un’ora la settimana (questa si a vantaggio della loro crescita spirituale) a sviluppare tematiche che abbiano come riferimento la fede nel Dio di Gesù Cristo?
Non dobbiamo dimenticare che i primi testimoni della fede sono sempre i genitori, nessun altro può sostituirsi alla loro opera di evangelizzazione. La casa sarà per i figli la prima scuola della fede, perché il padre e la madre hanno la missione di far nascere Dio nel cuore dei loro ragazzi. Se manca questo e, di conseguenza, si rinuncia a qualsiasi insegnamento religioso, si deve constatare che la proposta cristiana è ritenuta marginale, se non insignificante. La fede cristiana non è un vago sentimentalismo per imbonire la gente, se qualcuno pensa queste cose significa che il messaggio è stato annacquato. Se la pratica religiosa continua a diminuire, se i credenti sono marginali nella società odierna, se tante persone di buona volontà si sono allontanate dalle nostre chiese o fanno tanta fatica a seguire gli insegnamenti del Magistero ecclesiastico può essere che “il nostro è un cristianesimo senza Cristo! Come, direte, senza Cristo, se non si fa che parlare e scrivere di Lui! Si, ma è un Cristo impersonale, lontano, che non ci riguarda da vicino, un estraneo, anche se notissimo. Un argomento più che una Persona viva e vera e un amico” (padre Raniero Cantalamessa).
Papa Paolo VI invitava i fedeli a cercare un contatto vivo con il Salvatore dicendo: “Si è reale, è vivo, è personale, è provvido, è infinitamente buono; anzi non solo buono in sé ma buono immensamente altresì per noi, nostro creatore, nostra verità, nostra felicità, a tal punto che quello sforzo di fissare in Lui lo sguardo e il cuore, che diciamo contemplazione, diventa l’atto più alto e più pieno delle spirito, l’atto che ancora oggi può e deve gerarchizzare l’immensa piramide dell’attività umana“.
Penso si debba ritrovare l’annuncio dell’inizio, vale a dire la predicazione incentrata sul fatto principale del cristianesimo: l’incarnazione di Gesù Cristo. Altrimenti si finisce per dare ragione all’umorista polacco Stanislaw Lec che ha detto: “In principio era il Verbo, alla fine le chiacchiere“. Il cristianesimo prima di essere una morale, un’etica, un insieme di valori e di dogmi è una Persona. Scoprire che è possibile incontrare Gesù Cristo, che di Lui si può fare un’esperienza personale, vuol dire entrare nel cuore del cristianesimo, e l’accettazione di quell’etica e di quella morale che contraddistinguono il Credo cristiano è l’effetto di aver incontrato Gesù. (da Scommessa sull’uomo, editrice Elledici 2006)