di Pietro De Leo.
Scorrono i titoli di coda, il film è finito. Il pornogiustizialismo iniziato dal ’92 si squaglia assieme alla Anm. Questa associazione, per anni, ha espresso un protagonismo pubblico spesso tra la barricata politica, forte di un’aureola di infallibilità pontificale posta sul capo dei suoi componenti. Le intercettazioni che coinvolgono il pm Palamara e molti suoi colleghi, assieme ad alcune inchieste tipo quella di Taranto, testimoniano come la magistratura, o parte significativa di essa, fosse attraversata da pulsioni umane troppo umane, tra equilibrismi di corrente e scelte spesso dettate dalla tattica. Anche politica. In poche parole, è la caduta del Mito giudiziario. Si chiude a doppia mandata l’uscita di sicurezza cui hanno fatto ricorso, per venticinque anni, partiti col fiato corto sul piano programmatico.
Prima i Ds (molti reduci di quella stagione oggi sono nel Pd), poi il Movimento 5 Stelle. La bomba H moralista attraverso l’additamento di un colpevole su cui far scaricare popolari pulsioni è stata per anni la gallina delle uova d’oro del consenso e, soprattutto, la causa del restringimento delle prerogative politiche a vantaggio di un’esondazione dell’interventismo giudiziario. Bastava accodarsi al pm del momento, e il resto veniva da sé. Dalla conferenza stampa nel 1994 con cui il pool Mani Pulite, di fatto, dava uno stop improprio ai decreti Biondi sino alle dimissioni delle correnti Area e Unicost dall’Anm sono passati oltre cinque lustri, di inaugurazioni di anni giudiziari trasformate in comizi politici, porte girevoli tra Tribunali e Parlamento per magistrati trasformatisi in politici, endorsement delle correnti in occasione di referendum. Il tutto con l’allegro ventilatore di certa stampa che ha costruito il profilo del magistrato a metà tra l’ayatollah e la soubrette.
Ora, il re è nudo. La magistratura mantiene la toga, ma vola via la tunica. Per archiviare quello che è stato dal ’92 in poi e le conseguenze drammatiche del disequilibrio dei poteri (anche sul piano dell’attrattiva economica del nostro Paese) ci vuole una seria operazione di autocoscienza pubblica, ma è indubbio che il discredito della categoria danneggi tantissimi magistrati che, in silenzio, fanno il loro lavoro con serietà. E abbatte, purtroppo, il valore civile della legalità, troppo spesso confuso con la persecuzione. E dunque, che si fa? Si fa che serve, anzi servirebbe, la politica. Serve che si riappropri dei suoi spazi, della capacità progettuale, recuperi un’autorevolezza. Negli ultimi giorni ha suscitato giustificato scalpore un sondaggio di Euromedia Reasearch, pubblicato dalla Stampa, secondo cui appena il 5% degli italiani ha ancora fiducia nei politici. Questo dato, assieme alla debacle della credibilità della magistratura, è da allarme rosso: mancano, in sostanza, dei punti di riferimento. Soggetti cui credere, dei fari che possano fungere da esempio culturale per gli altri, specialmente per i più giovani. Ciò, in un momento di crisi sociale come questo, apre ad un rischio, l’insorgere sui territori di tanti piccoli Don Rodrigo dai contorni torbidi che possano facilmente catalizzare consenso e fiducia dei cittadini, magari attraverso dazioni economiche dalle origini non proprio chiare. Il rischio che, con il vaso di pandora scoperchiato, vengano innalzati a “eroi” i primi che in maniera interessata si mettano a distribuire ammortizzatori sociali di fatto. La minaccia di una maggiore penetrazione sociale ed economica della criminalità organizzata, facendo leva sulla disperazione, è stato più volte sollevato, e (almeno questo) in maniera unanime dal quadro politico. I pericoli non si affrontano con le evocazioni, ma con il “qui ed ora”. Una riscoperta di percorsi di leadership basati sulla primazia delle culture politiche, sulle suggestioni diffuse (di cui comunque è doveroso tener conto) è indispensabile. Costruire un’idea di Nazione e di posizionamento nello scenario europeo e internazionale, recuperare la centralità dell’educazione delle giovani generazioni, saper governare il grande impatto tecnologico sulle nostre vite, affrontare l’enorme disagio sociale, ma anche lo squilibrio demografico e dare sfogo alla cultura di impresa. Un lavoro immenso, faticoso, spesso antitetico al furioso sabba dei social. Ma necessario, se si vuol evitare che tutto venga travolto.
Fonte: l’Occidentale