Nel 2010 la rivista Lancet ha pubblicato i Rapporti di Mortalità Materna (MMR, Maternal Mortality Ratio) stimati a livello globale, in cui l’Italia veniva presentata come la Nazione con l’indice MMR più basso al mondo pari a 3 morti materne ogni 100.000 nati vivi. L’indice italiano proveniva dai dati ufficiali dell’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) che identifica i decessi materni dai certificati di morte, ma il dato non corrisponde alla reale incidenza della mortalità materna.
L’ipotesi che le morti materne italiane, basate sui dati ufficiali Istat, fossero sottostimate era emersa dal raffronto dell’indice italiano con i dati internazionali: esso risultava notevolmente inferiore rispetto a quanto rilevato negli altri Paesi socialmente avanzati. Per questo motivo, nel 2008 l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) aveva promosso un progetto di ricerca, finanziato dal Ministero della Salute, volto a rilevare e quantificare la sottostima dei casi di morte materna, calcolare l’MMR effettivo e analizzare le principali cause di morte associate al fenomeno.
L’intento del progetto di ricerca era di utilizzare le procedure di record-linkage, le uniche che permettono – attraverso l’incrocio dei dati tra più documenti – di ottenere stime più precise e realistiche. L’utilizzo dei soli certificati di morte per il calcolo della mortalità materna appare, infatti, del tutto insufficiente: omissioni varie o poca chiarezza sulla causa effettiva di morte, nonché il fatto che la morte materna non comprende solo il decesso di una donna durante la gravidanza o il parto, ma anche qualsiasi altro decesso avvenuto entro 1 anno da ogni esito di gravidanza (parto, gravidanza ectopica, aborto spontaneo, aborto indotto), rendono i certificati di morte inadeguati a rilevare l’entità della mortalità materna in maniera completa.
Il primo studio italiano di record-linkage sulla mortalità materna
Il primo studio italiano di record-linkage – pubblicato il 10 marzo 2011 su BJOG (An International Journal of Obstetrics and Gynaecology) – ha incrociato i dati dei certificati di morte con la banca dati delle Schede di Dimissione Ospedaliera (SDO) di cinque Regioni italiane (Piemonte, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio e Sicilia) che complessivamente coprivano il 38% della popolazione femminile in età riproduttiva (15-49 anni) in Italia. Lo studio ha preso in esame tutte le donne decedute in età riproduttiva durante il periodo 2000-2007 e, per ciascuna di esse, ha verificato se nei 365 giorni precedenti il decesso era stata ricoverata per gravidanza o per ogni altro suo possibile esito (parto, gravidanza ectopica, aborto spontaneo, aborto indotto).
Il confronto tra i dati ha permesso di identificare tutti i casi in eccesso oltre a quelli segnalati all’Istat tramite i certificati di morte e, quindi, di calcolare la sottostima della mortalità materna che è risultata avere una portata assai maggiore di quella che si sospettava: l’MMR stimato è risultato pari a 11,8 morti materne su 100.000 nati vivi, che equivale a una sottostima del 75%, rispetto al dato nazionale Istat (MMR di 3 per 100.000 nati vivi), e del 63% se confrontato all’MMR calcolato sui soli certificati di morte dell’Istat delle cinque Regioni prese in esame (MMR pari a 4,4 per 100.000 nati vivi). In altre parole, ciò significa che i certificati di morte riescono a individuare solo il 25% di tutti i decessi materni, rispetto al dato nazionale Istat, o solo il 37% dei decessi rispetto al dato Istat delle sole Regioni coinvolte.
Tra il 2000 e il 2007, nelle Regioni partecipanti – specifica lo studio – sono stati registrati 1.001.292 nati vivi e sono state rilevate in totale 260 morti materne, di cui 118 (il 45%) entro 42 giorni dall’esito di gravidanza e 142 (il 55%) tra 43 giorni e 1 anno dall’esito di gravidanza. Oltre a queste sono state individuate anche 15 morti correlate (9 accidentali, 4 da incidenti stradali e 2 omicidi) che però – scrivono i ricercatori – non concorrono alla determinazione dell’MMR, secondo quanto stabilito dalla classificazione ICD-10 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), utilizzata dagli autori dello studio per classificare le morti materne individuate. La classificazione ICD-10 delle morti materne prevede infatti che solo le morti dirette e indirette rientrino nel computo dell’MMR, le quali sono così definite:
- Morte diretta: morte causata da complicazioni ostetriche della gravidanza, parto e puerperio, da interventi, omissioni, trattamenti non corretti, o da una catena di eventi che possono risultare da ognuna delle cause precedenti.
- Morte indiretta: morte causata da malattie preesistenti o insorte durante la gravidanza, non dovute a cause ostetriche dirette, ma aggravate dagli effetti fisiologici della gravidanza.
Per fare qualche esempio, rientrano tra le morti dirette le morti provocate da emorragia ostetrica, tromboembolia, infezione/sepsi, disordini ipertensivi della gravidanza, ecc. Mentre fanno parte delle morti indirette quelle avvenute a seguito di neoplasie ormono-dipendenti, problemi vascolari e cerebrovascolari, problemi cardiovascolari, infezioni e sepsi non puerperali, ecc. Dibattuta rimane, invece, la collocazione dei suicidi: l’ultima revisione della classificazione ICD-10 dell’OMS ha previsto che tutti i decessi materni da suicidio siano considerati morti dirette, mentre gli autori dello studio italiano li hanno inseriti tra le morti indirette perché – osservano – non sempre è possibile individuare con certezza il ruolo causale diretto della gravidanza o, al contrario, la presenza di un precedente problema di salute mentale. Pertanto, se un suicidio determinato da una psicosi post-partum può essere certamente considerato un decesso diretto, così non lo sarebbe un suicidio dovuto a disturbi psichiatrici diagnosticati prima della gravidanza che – secondo i ricercatori – dovrebbe essere inserito tra le morti indirette. I suicidi individuati dai ricercatori sono stati 21 (2 entro 42 giorni e 19 avvenuti da 43 giorni a un anno dall’esito di gravidanza).
I ricercatori puntualizzano inoltre che, per vari motivi, anche l’MMR più accurato ottenuto dall’incrocio dei dati potrebbe essere a propria volta sottostimato. Vuoi perché la banca dati delle dimissioni ospedaliere identifica solo le donne ricoverate in ospedale; o perché il linkage potrebbe non aver rilevato i casi di donne decedute a seguito di un esito di gravidanza avvenuto al di fuori della Regione esaminata; vuoi per possibili errori nelle variabili da linkare; o per il fatto che alcune morti materne – classificate come “possibili o incerte” – siano state escluse dall’analisi a causa di informazioni lacunose e incomplete perché, per alcuni problemi di salute come il suicidio o le patologie cardiovascolari, sono necessarie informazioni dettagliate sullo stato di salute della donna prima e durante la gravidanza, e conoscere le circostanze della morte è fondamentale per identificare accuratamente il nesso causale con la gravidanza; vuoi infine perché alcuni decessi correlati (come cadute, infortuni, incidenti) – i quali, come precedentemente specificato, non rientrano nel calcolo dell’MMR –, potrebbero essere stati in realtà dei suicidi e perciò da includere nella stima del rapporto di mortalità materna. Per tutti questi motivi le morti materne, l’MMR e la sottostima potrebbero essere un po’ più elevati di quelli individuati dalle procedure di record-linkage utilizzate dallo studio.
Le critiche del dottor David Reardon allo studio italiano
L’utilità delle procedure di record-linkage non riguarda solo la possibilità di individuare le morti materne che solitamente sfuggono ai conteggi ufficiali basati unicamente sui certificati di morte, ma anche di rilevare, nell’ambito di queste morti, l’indice di mortalità per ciascun esito di gravidanza. Questo ci permette di conoscere qual è l’impatto che ciascun esito di gravidanza ha sulla salute e sulla la vita della donna e di confrontare fra loro la mortalità associata alla gravidanza portata a termine e al parto con la mortalità correlata alle perdite di gravidanza (gravidanza ectopica, aborto spontaneo, aborto indotto). È proprio su questo secondo importantissimo aspetto che lo studio italiano non fornisce risposte.
Questa lacuna è stata evidenziata dal dottor David Reardon nella sua revisione sistematica del 2017 in cui analizza tutti gli studi di record-linkage che a livello globale sono stati realizzati su questo tema, comparando gli MMR associati a ogni esito di gravidanza e realizzando una sintesi narrativa dei risultati. Per quanto riguarda la migliore individuazione delle morti materne dovuta all’uso delle procedure di record-linkage, tutti i 68 studi di 11 Paesi diversi (individuati dalla revisione), che hanno impiegato il collegamento dei dati, hanno identificato un numero significativamente maggiore di decessi materni rispetto a quelli risultanti dall’impiego dei soli certificati di morte. Il record-linkage ha perciò migliorato significativamente il riconoscimento delle morti materne confermandosi una procedura più accurata e attendibile.
Purtroppo – prosegue Reardon -, tra questi 68 studi, 57 hanno calcolato o riportato solo i dati dei decessi associati al parto, ovvero mancavano tutti i dati delle morti associate alle perdite di gravidanza. Tra di essi, Reardon inserisce anche lo studio di record-linkage italiano di cui scrive: “Un’occasione mancata sembra essersi verificata in uno studio su donne italiane in cui i ricercatori riferiscono di aver effettivamente collegato i certificati di decesso ai record degli aborti indotti e degli aborti spontanei, ma purtroppo nelle analisi che hanno pubblicato non hanno fornito alcuna ripartizione dei rapporti di mortalità di ciascun esito di gravidanza”. E aggiunge: “La nostra richiesta di ripartire i decessi per ciascun esito di gravidanza è stata respinta”.
Reardon dice il vero, infatti i ricercatori italiani elencano i seguenti codici di diagnosi o procedure che hanno selezionato dalla banca dati delle SDO per individuare le donne decedute:
- Diagnosi principale o secondaria di complicazioni della gravidanza, parto e puerperio (codici ICD9 CM 630-677);
- Diagnosi principale o secondaria di ricorso ai servizi sanitari per gravidanza (V22=gravidanza normale, V23=controllo di gravidanza ad alto rischio, V24=cure ed esami postpartum, V27=esito del parto, V28=ricerche prenatali);
- Diagnosi principale o secondaria di nato vivo (V30,V39);
- Procedura principale o secondaria ostetrica (codici di intervento 72=parto con forcipe, ventosa e parto podalico; 73= altri interventi di induzione o di assistenza al parto; 74= Taglio cesareo ed estrazione del feto; 75= altri interventi ostetrici);
- Procedura principale o secondaria di dilatazione e raschiamento per Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG) (codice intervento 69.01);
- Procedura principale o secondaria di dilatazione e raschiamento a seguito di parto o aborto (codice intervento 69.02);
- Procedura principale o secondaria di raschiamento dell’utero mediante aspirazione per IVG (codice intervento 69.51);
- Procedura principale o secondaria di raschiamento dell’utero mediante aspirazione a seguito di gravidanza o aborto (codice intervento 69.52);
- Procedura principale o secondaria di salpingectomia con rimozione di gravidanza tubarica (codice intervento 66.62).
Come si vede, sono inclusi anche i codici che si riferiscono agli aborti spontanei e indotti. Quindi i ricercatori italiani sono in grado di stabilire quante delle 260 morti materne individuate e delle 15 morti correlate, avvenute durante e entro 1 anno dall’esito della gravidanza, sono imputabili al parto, all’aborto spontaneo e all’aborto indotto, ma non lo hanno voluto rendere noto. E, alla richiesta del dottor Reardon, di effettuare la ripartizione dei decessi materni sulla base di ciascun esito di gravidanza, hanno risposto picche.
Perché lo hanno fatto? Probabilmente perché, per ragioni ideologiche, delle complicanze provocate dall’aborto indotto non si può e non si deve parlare: la narrazione pro-aborto vuole che esso sia presentato come una procedura sicura esente da gravi complicazioni. E non lo hanno fatto perché – come spiegherò nel titolo successivo – tutti gli studi di record-linkage che hanno effettuato la ripartizione dei decessi materni sulla base di ciascun esito di gravidanza, hanno individuato indici di mortalità materna più elevati per l’aborto indotto rispetto alla gravidanza portata a termine e al parto. Si tratta di risultati che confutano inequivocabilmente la propaganda abortista secondo la quale si morirebbe più di parto che di aborto indotto.
Scrive Reardon nella sua revisione: “Il fatto che così tanti studi omettano di riportare i decessi associati alle perdite di gravidanza, indica che potrebbe esserci un rischio di parzialità nell’informazione. Le varie sensibilità sociali, politiche e accademiche che promuovono l’aborto legale e sicuro nei Paesi in via di sviluppo possono avere un pregiudizio nei confronti della pubblicazione di risultati che mostrano un aumento dei tassi di mortalità associati all’aborto indotto”. È, infatti chiaro – aggiunge Reardon – “che nella maggior parte dei Paesi in cui sono stati condotti gli studi di record-linkage, non esistono ostacoli strutturali all’ampliamento di questi studi al fine di includere anche la mortalità associata alle perdite di gravidanza”. “Ciò che è semplicemente richiesto è la volontà accademica e/o politica a intraprendere questa indagine” che, evidentemente, nello studio italiano è volutamente venuta a mancare visto che le informazioni erano disponibili e sono state recuperate, come espressamente comunicato dai ricercatori.
Cosa dicono gli studi di record linkage che hanno esaminato la mortalità materna associata a ciascun esito di gravidanza?
A conti fatti – osserva Reardon nella sua revisione – gli studi di record-linkage che hanno calcolato i rapporti di mortalità materna anche per le perdite di gravidanza sono in tutto 11 (7 finlandesi, 2 danesi, 2 statunitensi). A questi vi è da aggiungere un successivo studio finlandese pubblicato sul BJOG il 28 dicembre 2016, che porta il totale a 12. Sulla base della valutazione NOQAS (la Newcastle-Ottawa Quality Assessment Scale per gli studi di coorte) questi studi di record-linkage presentano rischi di bias molto bassi e punteggi qualitativi molto elevati, si possono perciò considerare statisticamente significativi e attendibili.
Ebbene, cosa hanno scoperto questi studi? Quello che accennavo prima, cioè che nel confronto tra la mortalità materna di tutti gli esiti di gravidanza, l’aborto indotto è quello che ha presentato i tassi di mortalità più elevati, sia rispetto all’aborto spontaneo che soprattutto rispetto al parto. In altre parole, risulta che le donne che portano a termine la gravidanza e partoriscono hanno gli indici di mortalità più bassi, non solo rispetto alle donne che incorrono in un aborto spontaneo o che ricorrono all’aborto indotto, ma anche rispetto alle donne non incinte. La gravidanza portata a termine si rivela pertanto come protettiva della salute della donna, mentre le perdite di gravidanza, e tra esse l’aborto indotto in particolare, dimostrano di avere un impatto negativo sulla salute della donna in generale e quindi un effetto negativo sulla sua aspettativa di vita.
Per rendere l’idea dell’incidenza della mortalità materna tra i vari esiti di gravidanza, riporto i risultati scoperti da alcuni di questi studi di record-linkage.
Lo studio di Gissler M. e Hemminki E. “Pregnancy-related violent deaths”, pubblicato nel 1999 sullo Scandinavian Journal of Public Health (27: 54–55), aveva come obiettivo quello di identificare le morti per cause naturali e per cause violente (suicidi, omicidi, incidenti) correlate a tutti gli esiti di gravidanza (parto, aborto spontaneo, aborto indotto, gravidanza ectopica). I ricercatori hanno identificato 281 donne finlandesi decedute in età fertile entro un anno dalla loro ultima gravidanza, nel periodo 1987-1994, mediante il collegamento di quattro fonti di dati: i certificati di morte, i registri delle nascite, i registri degli aborti indotti e i registri delle dimissioni ospedaliere.
In generale, i ricercatori hanno scoperto che per le donne che avevano partorito la probabilità (aggiustata per età) di morire entro un anno dal parto era la metà delle donne non incinte. Invece, sempre rispetto alle donne non incinte, coloro che erano ricorse all’aborto indotto avevano il 76% in più di probabilità di morire entro un anno. Comparando la mortalità delle donne che avevano abortito volontariamente con quella delle donne che avevano partorito, è risultato che le prime avevano una probabilità 3,5 volte più elevata di morire entro un anno.
Entrando nel dettaglio delle singole cause di morte violenta, gli autori scrivono che 77 decessi (il 27%) sui 281 individuati erano avvenuti per suicidio, e specificano che il rischio di suicidio dopo il parto era circa la metà del rischio di suicidio delle donne nella popolazione generale. 57 decessi (il 20%) su 281 erano stati provocati da lesioni fisiche dovute a incidenti. I ricercatori riferiscono che le donne che nell’anno precedente alla loro morte si erano sottoposte all’aborto indotto avevano un rischio di morte per incidente 4 volte più alto rispetto a coloro che avevano portato a termine la gravidanza. Rispetto alla popolazione generale, le donne che avevano partorito avevano la metà del rischio di subire un incidente mortale, mentre per le donne che avevano abortito volontariamente il rischio di incidente mortale era più del doppio.
Tra le 281 donne decedute, 14 (il 5%) erano state uccise. I ricercatori hanno scoperto che la maggior parte di questi omicidi era avvenuta tra le donne che avevano fatto ricorso all’aborto indotto. In particolare il rischio di morte per omicidio delle donne che avevano abortito era oltre 4 volte più elevato rispetto al rischio di omicidio nella popolazione generale. Infine, i ricercatori hanno analizzato i decessi avvenuti per cause naturali, che sono risultati 127 (il 45%) su 281. Anche in questo caso, quando hanno confrontato l’incidenza del rischio tra le donne che avevano partorito con le donne che si erano sottoposte all’aborto indotto, hanno constatato il solito trend: il rischio di morte per cause naturali era del 60% più elevato tra le donne che erano ricorse all’aborto indotto, rispetto sia a coloro che avevano partorito che a coloro che erano incorse in un aborto spontaneo.
Reardon conclude osservando che lo studio finlandese mostra chiaramente che la probabilità di una donna di morire entro un anno dall’aborto indotto è significativamente più elevata rispetto a quella di una donna che porta a termine la gravidanza o che ha un aborto spontaneo. E questo vale sia per le morti dovute a cause naturali che per le morti violente come i suicidi, gli incidenti e gli omicidi.
Lo studio danese: Coleman PK, Reardon DC, & Calhoun BC (2013) “Reproductive history patterns and long-term mortality rates: a Danish, population-based record linkage study”, European Journal of Public Health 23(4):569-574, aveva lo scopo di calcolare i rapporti di mortalità materna associati a ogni esito di gravidanza, sia nel breve periodo che a distanza di tempo. I ricercatori hanno preso in esame 25 anni di dati incrociando tra loro quattro fonti di dati: i certificati di morte, i registri delle nascite, i registri degli aborti indotti e i registri delle dimissioni ospedaliere. Sono state individuate tutte le donne danesi in età fertile tra il 1980 e il 2004 e sono state esaminate tutte le cause di morte, prendendo in considerazione numerose variabili di controllo (anno di nascita della donna, età all’ultima gravidanza, esposizione a più esiti di gravidanza).
I ricercatori hanno scoperto che, entro il primo anno dall’esito di gravidanza, le donne che avevano abortito presentavano un rischio di mortalità dell’80% più elevato rispetto a coloro che avevano partorito; che i tassi di mortalità associati all’aborto indotto rimanevano notevolmente più elevati fino a 10 anni dopo l’aborto; e che le donne che avevano partorito avevano un rischio di mortalità oltre 6 volte più basso rispetto a coloro che non erano mai state incinte. Per quanto riguarda l’esposizione a più esiti di gravidanza, lo stesso insieme di dati ha rivelato una relazione dose-effetto di parto e aborto indotto, nel senso che un numero crescente di parti diminuiva il rischio di mortalità, mentre più aborti indotti aumentavano il rischio di mortalità. In sintesi, la combinazione di aborti indotti e aborti spontanei era associata a un tasso di mortalità 3 volte più elevato rispetto al parto; e, nello specifico, l’aumento del rischio di morte è risultato pari al 45%, 114% e 191% rispettivamente per 1, 2 e 3 aborti indotti, rispetto alle donne che non avevano abortito. Anche in questo caso, il record-linkage ha permesso di constatare come il parto abbia un effetto protettivo sulla salute della donna e un impatto positivo sulla longevità e, al contrario, come le perdite di gravidanza, e tra esse particolarmente l’aborto indotto, influiscano negativamente sulla salute della donna e sulla sua aspettativa di vita.
Lo studio americano Reardon DC, Strahan TW, Thorp JM Jr & Shuping MW (2002) “Deaths associated with pregnancy outcome: a record linkage study of low income women”, Southern Medical Journal 95(8):834-841, aveva l’obiettivo di calcolare gli indici di mortalità materna tra il parto e l’aborto indotto per ogni causa correlata alla gravidanza (suicidio, incidenti, cause naturali, ecc.) sia nel breve che in un periodo più lungo (9 anni). I ricercatori hanno preso in esame le 173.279 donne californiane in età fertile a basso reddito, che nel 1989 avevano partorito o avuto un aborto indotto, reperendo i dati dal California Medicaid records (i registri dell’assistenza sanitaria della California) che sono stati incrociati con i certificati di morte dal 1989 al 1997.
Lo studio ha scoperto che, rispetto alle donne che avevano partorito, coloro che avevano avuto un aborto indotto presentavano un rischio di morte significativamente più elevato per tutte le cause di morte (1,62), dal suicidio (2,54) agli incidenti (1,82), così come per cause naturali (1,44), compresa la sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids) (2,18), i problemi circolatori (2,87) e i problemi cerebrovascolari (5,46). I ricercatori concludono osservando che “gli alti tassi di mortalità associati all’aborto persistono nel tempo e oltre i confini socio-economici. Questo può essere spiegato con tendenze autodistruttive, depressione e altri comportamenti non salutari aggravati dall’esperienza dell’aborto”.
Riporto i risultati solo di un altro studio di record-linkage finlandese tra quelli disponibili, questo: Gissler M, Karalis E & Ulander VM (2015) “Decreased suicide rate after induced abortion, after the Current Care Guidelines in Finland 1987 – 2012”, Scandinavian Journal of Public Health 43:99-101, che aveva l’obiettivo di studiare in particolare la tendenza al suicidio delle donne finlandesi dopo l’aborto indotto. I ricercatori hanno preso in esame il periodo di 25 anni 1987-2012, incrociando tra loro due fonti di dati: il Registro degli aborti indotti e il Registro delle cause di morte, per identificare le donne che si erano suicidate entro un anno dall’aborto indotto. I risultati mostrano che, rispetto alle donne non incinte – che hanno fatto registrare un rapporto di mortalità per suicidio di 11,3 per 100.000 persone in un anno -, il rischio di suicidio diminuiva dopo il parto (5,9 per 100.000 nascite), aumentava dopo l’aborto spontaneo (18,1 per 100.000 aborti spontanei) e saliva ancora di più dopo l’aborto indotto (34,7 per 100.000 aborti indotti). Se si confrontano i rapporti di mortalità tra il parto e l’aborto indotto, risulta che le donne che avevano abortito volontariamente avevano un rischio di suicidio 6 volte più elevato rispetto alle donne che avevano partorito. Anche in questo caso, la gravidanza portata a termine si è rivelata protettiva della salute della donna, presentando il rapporto di mortalità (per suicidio) più basso in assoluto, non solo rispetto agli altri esiti di gravidanza, ma anche nei confronti delle donne non incinte nella popolazione generale.
Il secondo studio italiano di record-linkage sulla mortalità materna
Il secondo studio italiano di record-linkage ha ampliato il calcolo dell’MMR a 10 Regioni italiane (Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia, Sardegna) che rappresentavano il 77% dei nati nel Paese. Sono state individuate tutte le donne tra 11 e 59 anni che erano decedute durante la gravidanza, o entro un anno da qualsiasi esito di gravidanza (parto, gravidanza ectopica, aborto spontaneo, aborto indotto), nel periodo di 7 anni 2006-2012. Come per il precedente studio, i decessi sono stati identificati attraverso l’incrocio dei dati tra i certificati di morte e la banca dati delle SDO, utilizzando fonti di dati sia regionali che nazionali.
Rispetto al primo studio, la sottostima dei decessi materni è risultata inferiore di due punti: l’MMR delle 10 Regioni italiane è risultato pari a 9,8 morti materne per 100.000 nati vivi (era 11,8 nel primo studio). Ciò equivale ha una sottostima del 70% (era del 75% nel primo studio) rispetto al dato nazionale Istat (MMR di 3 per 100.000 nati vivi), e a una sottostima del 60,3% (era del 63% nel primo studio) rispetto all’MMR calcolato sui soli certificati di morte delle 10 Regioni italiane per lo stesso periodo di tempo (3,5 per 100.000 nati vivi). Tuttavia, nonostante la diminuzione, la sottostima rimane comunque elevata poiché ai dati ufficiali basati sui soli certificati di morte continuano a sfuggire da 6 a 7 decessi materni su 10.
Tra il 2006 e il 2012, nelle 10 Regioni italiane esaminate, lo studio ha individuato complessivamente 863 morti materne (dirette, indirette e correlate) avvenute durante o entro un anno dall’esito della gravidanza. Di queste, 320 sono avvenute entro 42 giorni e 543 tra 43 giorni e 1 anno dall’esito della gravidanza. Le morti che però hanno concorso a determinare l’MMR ammontano a un numero inferiore, perché dal totale sono state scorporate le morti correlate (entro 42 giorni e tardive) che – come precedentemente osservato – non vengono fatte rientrare nel calcolo del rapporto di mortalità. A questo proposito, gli autori specificano che tra i decessi correlati entro 42 giorni, le morti accidentali sono state 43 e che, tra le morti tardive, 52 sono avvenute a seguito di incidenti stradali. Le morti correlate non incluse nel calcolo dell’MMR sono quindi 95. Gli autori aggiungono inoltre di aver individuato tra le morti tardive anche 22 casi di omicidio che, secondo le procedure, andrebbero esclusi dal calcolo della mortalità materna (come hanno fatto nel primo studio di record-linkage), ma che questa volta hanno deciso di inserire perché – scrivono – “la gravidanza e il puerperio rappresentano periodi di maggior rischio di abusi domestici che portano all’omicidio” motivo per cui “la questione deve essere chiaramente evidenziata”.
Esclusi quindi gli incidenti stradali, i ricercatori scrivono che le morti violente hanno rappresentato la seconda causa di morte tra i decessi tardivi e che queste sono costituite per il 10% dai suicidi (tot. 55), il 3,7% dagli omicidi (tot. 22) e il 2% da altre cause di morte violenta non specificata (tot. 10). Riguardo ai suicidi, specificano inoltre che essi rappresentano “il 64% delle morti per causa violenta” risultando essere, dopo le neoplasie, “la seconda causa più comune di morte materna tardiva”. Tra le morti violente avvenute durante la gravidanza o entro 42 giorni dall’esito della gravidanza i ricercatori hanno individuato 12 casi di suicidio.
Come si vede, i ricercatori hanno specificato l’ammontare e/o le percentuali delle cause di morte violenta (suicidi, omicidi, altre cause violente) e correlate (morti accidentali e incidenti stradali), ma non hanno fatto – come per il primo studio – alcuna ripartizione per ciascun esito di gravidanza. In questo secondo studio italiano, i ricercatori hanno seguito le stesse identiche procedure usate per il primo, selezionando dalla banca dati delle SDO tutti i codici (precedentemente riportati) relativi a ciascun esito di gravidanza. Ciò significa che non esistono motivi strutturali che impediscano tale ripartizione, ma più verosimilmente che vi sia una mancanza di volontà a rendere nota l’incidenza della mortalità per ciascun esito di gravidanza, la quale si rivelerebbe con tutta probabilità molto sfavorevole nei confronti dell’aborto indotto, come hanno mostrato gli studi di linkage che questa ripartizione l’hanno effettuata.
Conclusioni
Agli studi italiani di record-linkage va sicuramente dato il merito di aver fatto finalmente chiarezza sulla reale incidenza della mortalità materna in Italia e di aver dimostrato che i certificati di morte da soli sono assolutamente insufficienti all’individuazione dei decessi associati alla gravidanza in maniera completa. Spiace tuttavia constatare che non si sia voluto fare il logico passo successivo, consistente nel calcolare l’MMR per ciascun esito di gravidanza, nonostante vi fosse la disponibilità dei dati per effettuare tale calcolo in entrambi gli studi. Ciò rivela una mancanza di volontà nel riportare questi dati che, verosimilmente, risulterebbero sfavorevoli all’aborto indotto e, al contrario, vantaggiosi alla gravidanza portata a termine e al parto.
La ricerca scientifica non dovrebbe essere frenata da costrutti ideologici e non dovrebbe temere la verità dei risultati, soprattutto quando questi risultati possono incidere su una decisione delicata e difficile come quella di abortire che ha dimostrato di avere un impatto negativo diretto sulla salute psicofisica della donna in generale e sulla sua aspettativa di vita. Le donne hanno il diritto di sapere come stanno le cose sull’aborto indotto e meritano di più, a partire da una ricerca e un’informazione imparziali e libere dalle ideologie.
Fonti:
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