Condivido quanto sotto il titolo “La saggezza delle leggi del mare” scrive sull‘Osservatore Romano Gaetano Vallini: “Il mare ha le sue leggi. Quelle non scritte, ma radicate nel cuore di quanti sul mare e dl mare vivono. E la legge più importante è anche la più semplice: se qualcuno è in difficoltà bisogna soccorrerlo”.
Per la medesima ragione sono anche un appassionato ammiratore di Antigone, la fanciulla greca, che, a costo della vita, nega obbedienza alle leggi della città, perché si rifiuta di credere che queste possano avere tanta forza da far sì che le “leggi dei Celesti, non scritte ed incrollabili”, che “non adesso furono sancite o ieri: eterne vivono esse, e niuno conosce il dì che nacquero”, vengano soverchiate dai bandi dei mortali. Ammiratore tanto appassionato che nel giro di pochi anni, dal 2005 al 2017, le ho dedicato ben due libri, Antigone contro la democrazia zapatera e Antigone e i diritti dell’uomo, editi entrambi da Solfanelli. Ma appunto per questo trovo inaccettabile (poco meno di una bestemmia) che alcuni (probabilmente molti di loro in altre circostanze si sono schierati e si schiereranno a tutt’uomo a favore della supremazia del “diritto positivo”, appunto le leggi della città) si siano azzardati a ribattezzare “Antigone” Carola Rackete, la “capitana” tedesca della nave ong Sea Watch. Le differenze sono incolmabili e il paragone assolutamente improponibile.
La greca Antigone voleva solo attuare il comando della legge dei Celesti che impone rispetto per le spoglie dei defunti. Non chiedeva le dimissioni del tiranno di Tebe Creonte. Nessuno avrebbe potuto accusarla di “ricatto politico”, di “provocazione programmata”, di “utilizzo strumentale” del corpo del fratello Polinice, caduto in battaglia mentre combatteva fra le fila dei nemici della sua patria.
D’altra parte è possibile che l’attuale governo italiano, in particolare nella persona del vice-premier Salvini, presenti qualche tratto di affinità con Creonte, ma certamente non ha varato nessuna norma che vieti o comunque impedisca il pieno rispetto della legge dei Celesti, scritta da sempre nel cuore non soltanto di quanti sul mare e del mare vivono, ma dell’intero genere umano. Una norma propria del diritto naturale, che, a differenza di altre, è stata sostanzialmente recepita anche dal diritto positivo tanto nei singoli ordinamenti giuridici nazionali quanto, e ancor più dal momento che l’elemento marino è tanto vasto da superare le competenze dei singoli Stati, in quello internazionale. Questa pluralità di norme, divine ed umane, negli ultimi due secoli è stata esattamente riassunta nella formula che obbliga chiunque si trovi per mare e ne abbia appena la possibilità a prestare soccorso ai naufraghi e a condurli nel “porto sicuro più vicino”.
Questo, quindi, il contenuto attuale della norma dei Celesti per i naviganti, del resto pressoché coincidente con la fondamentale disposizione del diritto internazionale in materia, contenuta nell’art. 98 della “Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare” (in genere citata col suo acronimo inglese Unclos), sottoscritta il 10 dicembre 1982 a Montego Bay in Giamaica: “Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio e i passeggeri, a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;c) presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo”.
Ovviamente il diritto umano è sempre più complesso e particolareggiato, e per questo anche meno affidabile e più manipolabile, di quello, estremamente semplice ed essenziale, dei Celesti. Alla Unclos si affiancano, quindi, altre norme quali la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas), la Convenzione internazionale sul salvataggio e, con specifico riguardo all’ambito nel quale si è mossa l’operazione di Carola Rackete, la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso marittimi (Sar).
In base alle varie regole applicative di tale ultima Convenzione Carola Rackete avrebbe dovuto attenersi alle indicazioni dei governi competenti (Libia e Italia), che le avevano assegnato come porto di sbarco Tripoli. Tuttavia, trattandosi di un paese dove è in corso una guerra civile e giungono notizie di pessimo trattamento dei migranti costretti a soggiornarvi, si può capire il rifiuto di approdare ad un porto quanto meno sospetto di non possedere i necessari requisiti di sicurezza. Rifiuto giustificato, che però, in osservanza della legge dei Celesti (indifferenti tanto a Salvini quanto a Soros), comportava l’obbligo di scegliere non un porto a proprio piacimento, come vorrebbero alcuni commentatori (che si guardano bene dal citare norme al riguardo), ma quello in possesso dei requisiti oggettivi richiesti tanto dalla legge degli Dei quanto da quella degli uomini: il porto sicuro più vicino. Nel caso della Sea Watch Tunisi o Malta.
La scelta di Lampedusa fa di Carola, non un’eroina, ma molto più prosaicamente, l’autrice di una “provocazione organizzata”, come ha detto l’ex magistrato in pensione Carlo Nordio, che la connota di “irresponsabile arroganza”, o, secondo il commento del collega di opposto orientamento ideologico (per intenderci, “ex-toga rossa”) Nicola Quatrano, una “bulla”, che ha deciso “di imporre l’agenda politica della sua Ong: costringere l’Italia ad accogliere i 42 profughi”. In definitiva, un’agitatrice politica, che, condannata o assolta che sia in sede penale, non ha niente a che spartire con Antigone, che, ad ogni buon conto, è stata condannata a morte. Pena eseguita.