C’è un solo dato certo, nella storia di Noa Pothoven, la diciassettenne olandese che cinque giorni fa ha ottenuto il suicidio assistito perché segnata da un’esperienza devastante come possono essere tre violenze subite (la prima a 11 anni, l’ultima a 14): quella giovane è morta quattro volte. Tre per mano di bestie dalle sembianze umane, una tramite una barbarie dalla sembianza di Stato. Ed è su quest’ultima morte – quella definitiva, purtroppo – che dovremmo riflettere chiedendoci se alla povera Noa, con essa, sia stato dato un sostegno o una scorciatoia, un abbraccio o un colpo di grazia. Il fatto che lei non sia più tra noi, e soprattutto tra quelli che le hanno voluto bene, credo basti e avanzi per capire che il suicidio assistito non è stato che l’ennesimo orrore toccatole.
Invece i nostri bravi giornalisti sono tutti lì – rigorosamente allineati e falsamente commossi – a raccontare la storia di questa giovane donna osannando la «sua lotta», la sua «lunga battaglia per l’autorizzazione alla dolce morte». Come se le cose dovessero per forza andar così; come se si potesse parlare di autodeterminazione nella scelta di morte di una ragazza che dalla morte, nella vita, era stata tallonata. Non so se ve ne siete accorti, ma stiamo allegramente passando dall’eutanasia come rimedio al dolore terminale al suicidio assistito come estremo rimedio allo stupro: il tutto senza provare quel minimo di schifo. Una volta speravo, davanti a certe follie, in chi avesse avuto il coraggio di alzare la voce. Oggi sarebbe già qualcosa se qualcuno avvertisse il bisogno di turarsi il naso. Spero di non chiedere troppo.
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