Patrizia Floder Reitter ha mostrato sulla Verità di ieri come un galà filo omosessuale possa facilmente trasformarsi in un momento di cattofobia ordinaria, senza che quasi nessuno dica nulla. Ma l’eccezione per fortuna esiste.
Per una volta un vescovo diocesano disapprova esplicitamente un Gay pride e sostiene, pur con dei distinguo, la processione di riparazione organizzata dai cattolici più militanti e identitari.
Ieri si è tenuta a Modena la marcia della fierezza gay e mons. Erio Castellucci, arcivescovo diocesano, all’opposto di ciò che hanno fatto molte volte i suoi confratelli, in Italia e nel mondo intero, ha espresso apertamente la sua opposizione. Nel comunicato, citato anche da Avvenire,
il presule ribadisce la propria “adesione alla visione antropologica cattolica, espressa costantemente dal magistero del Concilio Vaticano II e condensata nel magistero dei pontefici, specialmente nella Familiaris Consortio di San Giovanni Paolo II, nel Catechismo della Chiesa cattolica e nella Amoris Laetitia di papa Francesco. Credo, aggiunge, che il matrimonio sia una comunità di vita e di amore tra un uomo e una donna, connotata da complementarità, reciprocità e generatività, e come tale rientri nel progetto stabilito da Dio creatore e confermato da Cristo redentore”.
Il riferimento al Catechismo del 1992 è oggi un riferimento forte e tutt’altro che banale, visto che quel testo afferma che l’inclinazione omosessuale è “oggettivamente disordinata” e che “Le persone omosessuali sono chiamate alla castità” (nn. 2358-2359). L’opposto di quanto sbandierato in queste fiere. E ben lungi dal pensiero cattolico più aggiornato, che più volte ha espresso il desiderio, perfino durante l’ultimo Sinodo sulla famiglia, di censurare o almeno aggiornare e correggere il catechismo in quel punto.
Ma anche riguardo al cosiddetto Modena pride, benché faccia propria la distinzione logica tra errore ed errante che risalirebbe a papa Giovanni, mons. Castellucci esprime “dissenso dai contenuti e dal metodo che (lo) anima”. Aggiungendo, sempre in modo critico, delle chiare riserve “verso l’utilizzo del rosone del Duomo come logo della manifestazione. Si tratta di un simbolo caro ai modenesi, non solo cattolici, che sarebbe stato meglio evitare di inserire, perché finisce per costituire già di per sé una provocazione”.
Si tenga presente il quadro generale di questo scontro. Che è non solo e non tanto tra laici e cattolici, quanto in realtà tra la concezione comune e costituzionale della famiglia (naturale), e i fautori della teoria del gender (il sesso è una scelta e la biologia non centra), delle nozze gay (con adozione di bambini da parte di 2 papà o 2 mamme), del poliamore e di tutto il resto. In pratica st tratta dell’eterna lotta tra la Città di Dio e la Città dell’Uomo o se si preferisce della cultura della vita contro la cultura della morte (un’introduzione alla problematica in, Stelio Fergola, La cultura della morte, edizioni La Vela, 2017).
Se alle numerose e assai partecipate manifestazioni in difesa della famiglia tradizionale, come i vari Family day romani del Circo Massimo e di piazza san Giovanni o al Congresso delle famiglie di Verona, non si videro mai offese o insulti agli omosessuali come tali, alle manifestazioni pro omosessualità, dette comunemente Gay pride è costantemente accaduto il contrario. E di solito ci sono stati dei gay o almeno dei cittadini gay friendly travestiti da papi, da vescovi, da monache più o meno oscene, eccetera, eccetera. Per non parlare degli attacchi espliciti al Vaticano, alla Chiesa, al ministro Salvini e ai presunti omofobi Trump e Putin.
Proprio per questa ragione, san Giovanni Paolo II, criticò seccamente il Gay pride tenutosi a Roma durante il grande Giubileo del 2000. E la scelta di Roma da parte del movimento gay mondiale non fu casuale, e resta emblematica come affronto alla cristianità e alla civiltà.
Da allora, sono sorti sempre più numerosi dei gruppi di cittadini, cattolici e non, che con coraggio protestano e organizzano delle manifestazioni pacifiche di riparazione. Solitamente, ignorate o perfino snobbate dai vescovi delle città dove si tengono.
E mons. Castellucci, nel comunicato pubblicato sul sito dell’arcidiocesi, non solo non sconfessa la processione riparatoria del Comitato san Giminiano dei cattolici modenesi, ma dice che i fedeli, pur non rappresentando ufficialmente la diocesi, sono liberi di manifestare contro le provocazioni e gli scandali pubblici, senza “necessità di alcuna autorizzazione, in quanto libera espressione del diritto dei fedeli ad associarsi (cf. Codice di Diritto Canonico, can. 215)”.
Aggiungendo l’auspicio che “la processione avvenga secondo gli intenti preannunciati dal Comitato: che sia un momento di preghiera per la conversione prima di tutto dei partecipanti (e anche del sottoscritto) e non una manifestazione contro qualcuno”.
Il che non esclude la conversione di coloro che usano il dileggio, la blasfemia e la volgarità per far parlare di sé e promuovere idee alternative e discutibilissime di amore, di famiglia, di fecondazione e di adozione.