di Marcello Veneziani.
L’aborto è diventato un diritto più sacro e inviolabile della nascita e della vita. Chi osa rimetterlo in discussione è considerato un criminale; ma anche chi non lo rimette affatto in discussione e prospetta la libera possibilità di un’alternativa nella facoltà di chi abortisce viene considerato come un delinquente medievale. Prendete il caso di quei parlamentari della Lega che hanno proposto la possibilità di adottare un feto destinato all’aborto. Apriti cielo, anzi apriti inferno. Qual è il crimine di cui si sarebbero macchiati? Quello di tentare di salvare una vita destinata a morire prima di venire al mondo senza ledere il diritto della madre a interrompere la sua gravidanza e a disfarsi della creatura.
Infatti resterebbe comunque lei a decidere se interrompere la sua gravidanza o se consentire che qualcuno adotti il feto o “il concepito” come dice la proposta di legge di cui è primo firmatario Alberto Stefani. Un tentativo di salvare la vita del nascitura senza ledere la libertà della donna, il diritto di non volere suo figlio. E di contribuire ad arginare il calo delle nascite così drammatico nel nostro paese. Intenzione lodevole anche se sarebbe un po’ contorta la sua applicazione pratica, col pericolo che potrebbe giustificare l’affitto degli uteri, facendolo passare per maternità rigettata e salvata con l’adozione del feto. Ma mi sembra un tentativo responsabile di non arrendersi al muro contro muro nella questione aborto si-aborto no e di mettersi dalla parte della vita, senza privare la donna del suo diritto. Se infatti la madre decide di andare avanti con l’aborto, nessuno lo impedisce. Ha una possibilità in più non un diritto in meno.
Ma la biofollia impazza nel mondo liberal e radical, col sostegno dei media e del Pd. E si estende a tutti gli ambiti in cui si parla di nascita e di morte.
Il tema che in questi giorni s’intreccia con l’aborto è lo ius soli, su cui si sono fiondate le sinistre del nostro paese, approfittando della cittadinanza a Ramy. Anche in questo caso la realtà è vista con un occhio solo e da un solo punto di vista. E prescinde completamente da un dato originario, inalienabile e fondamentale: la nostra nascita, i nostri geni, il nostro sangue.
Di chi siamo figli? In primo luogo dei nostri genitori e tramite loro dei nostri avi, della terra e della storia da cui proveniamo. Poi siamo o diventiamo figli del luogo e del tempo in cui siamo nati. In linea di principio lo ius soli regge su una negazione e un inganno. La negazione riguarda l’identità del neonato e la famiglia in cui nasce, perché considera irrilevante o comunque meno rilevante il ruolo del padre e della madre rispetto al luogo in cui si trovano a vivere. L’inganno è che lo ius soli, al di là del nome antico usato, non evoca un legame col suolo, con la patria o la madre terra, non riguarda il popolo, la nazione, la cultura e la religione, la civiltà da cui origina il neonato; ma semplicemente lo stato, il territorio, l’ospedale in cui si è trovato a nascere. Il retropensiero è che l’identità non conta, ma vale solo la situazione. Il suolo è un alibi perché subito dopo aggiungono che siamo cittadini del mondo, non abbiamo territorio, siamo delocalizzati e liberi di decidere dove vivere. Insomma il suolo è significativo solo per affrancarsi dall’eredità dei genitori; poi perde ogni significato, perché siamo cittadini globali, una terra vale l’altra, e la mia terra è dove voglio stare, finché lo voglio. Non c’è destino, non c’è natura, solo volontà e caso.
Sul piano pratico possiamo pure ammettere che chi nasce in Italia e qui cresce, va a scuola e ha come sua prima lingua l’italiano, debba essere considerato a tutti gli effetti cittadino italiano. Ma non semplicemente in virtù del fatto di essere nato da genitori stranieri su suolo italiano; lo è diventato perché a quel dato di partenza, che non attiene a nulla di costitutivo della sua identità, si è aggiunto un percorso di vita e un’adesione via via consapevole alla cittadinanza italiana. L’uso della lingua, il rispetto delle leggi e dei costumi, l’integrazione attiva nella vita di una nazione. Insomma lo ius soli in sé non basta, non è un criterio sufficiente per determinare diritti e doveri, va correlato allo ius sanguinis che resta decisivo, e va coltivato tramite lo ius culturae che trasforma un fatto occasionale in un’appartenenza consapevole. Altrimenti, ius soli si traduce con diritto delle suole; dove si posano, lì è la nostra patria. Troppo poco per la dignità umana, la sua storia, la sua identità.
MV, La Verità 28 marzo 2019