Cosa vuol dire essere tentati
A seguito del peccato originale, Dio permette che l’uomo sia tentato, come dice la tradizione ascetica, «dalla carne, dal mondo e da Satana».
Constatiamo, infatti, che nella vita presente le tentazioni sono inevitabili, anche con tutta la cura per scansarle o per tenersene lontani, che è cosa, per quanto possibile, sempre da fare.
La tentazione al peccato è una pressione esercitata sulla volontà o sulle passioni dell’uomo da parte di cattive tendenze insite nel soggetto, tecnicamente detta «concupiscenza», oppure da parte di agenti esterni (uomini o demonio) e finalizzata a far cadere l’uomo nel peccato.
Ovviamente l’atto di questo peccato in linea di principio è libero e responsabile, con più scelte possibili, perché la volontà non subisce costrizione o necessitazione o violenza, a differenza degli agenti fisici, che agiscono deterministicamente ad unum per necessità di leggi fisiche.
Se la volontà è in funzione, l’atto è libero; se non è libero, vuol dire che la volontà non è in funzione. Si dice che una persona è costretta a fare una data cosa, non perchè la sua azione sia necessitata, ma perchè la fà malvolentieri. Se poi volontà è vinta dalla passione o dalla tentazione a peccare, in un cosa piacevole, per esempio un atto lussurioso, agisce certo volentieri, ma in quanto la volontà è vinta dalla passione, non è pienamente libera e quindi la colpa diminuisce.
Per quanto riguarda la condotta da tenere quando ci si accorge di una tentazione reale o possibile, occorre essere modesti, cauti e guardinghi. Non è prudente infatti esporsi alle tentazioni o mettersi in situazioni di rischio o di pericolo, camminare sul ciglio del burrone, se non obbligati da gravi motivi, come il confessore che confessa una bella donna o il medico che deve vedere la nudità del paziente. Inoltre, occorre sapere in anticipo, almeno con una certa probabilità, se la tentazione può o non può essere vinta. Occorre essere coraggiosi, ma non spavaldi e saper misurare le proprie forze.
Dio comunque, dal canto suo, non può abbandonare senza soccorso nella tentazione, se non è il peccatore che volontariamente e presuntuosamente rifiuta il soccorso e cede ad essa, ed è quindi lui ad abbandonare Dio. E neppure Dio induce in una tentazione insuperabile; oppure, insieme con la tentazione, dà la forza di superarla.
Ovvero, se uno crolla sotto una violenta ed insistente tentazione, dopo essersi strenuamente ma inutilmente difeso, gli viene perdonato o per lo meno ha delle attenuanti. Chiedere dunque a Dio che non ci induca in tentazione o che non ci abbandoni nella tentazione è chiederGli esattamente ciò che Egli stesso vuole darci.
Come sappiamo tutti, sta per entrare nell’uso liturgico il mutamento ordinato dalla CEI dell’espressione del Padre Nostro «non ci indurre in tentazione» con «non abbandonarci nella tentazione». La cosa può mettere a disagio, in quanto non si tratta di semplici parole diverse, ma di concetti diversi. Da qui il timore in alcuni che in questa preghiera fondamentale del cristianesimo sia stato cambiato non tanto il modo di esprimersi del Signore, ma addirittura il contenuto stesso di ciò che Egli dice.
Ora, per la verità, è impensabile che la Chiesa, fedele interprete del Vangelo, assistita dallo Spirito di Verità, che è lo Spirito di Cristo, cambi i suoi contenuti. Si tratta però – bisogna pur riconoscerlo – non di una semplice traduzione, ma di una vera e propria interpretazione, come in altre occasioni la Chiesa ha fatto e può fare, come per esempio l’aggiunta della parola «sacrificio», presente nelle parole della consacrazione eucaristica, ma assente nelle parole del Signore nell’ultima Cena, riportate dai Vangeli.
Perché il cambiamento?
Dall’espressione originaria greca eisenenkes, inducere, indurre – non sappiamo come Gesù si è espresso in aramaico – la Chiesa ha ricavato un «abbandonare». Come è venuto fuori questo significato da quello originario? E qual è stata la ragione del cambiamento? Credo che sia stata la convinzione di fede che Dio non ci lascia soli nella lotta contro la tentazione. Il «non indurre» fa invece pensare, benché erroneamente, a un Dio che potrebbe metterci di proposito nella tentazione, quasi ad averne gusto, il che sarebbe però una bestemmia.
Nella prima espressione sembra che la tentazione possa venire da Dio, Che viene scongiurato di non mandarcela, di non farla sorgere in noi. L’attenzione si concentra sulla tentazione, che suscita preoccupazione o ansietà, benché poi abbiamo la certezza che Dio ci aiuterà.
La seconda espressione, invece, presuppone che la tentazione sia già presente, siamo già sotto il peso della tentazione, senza che sia precisato da dove viene o chi la manda. Si chiede infatti di non abbandonarci non alla tentazione eventuale, ma nella tentazione già presente.
Si esprime cioè una supplica fiduciosa, piena di confidenza, nell’aiuto divino, che certo non mancherà, anche se pure qui, per il fatto stesso di chiedere di non essere abbandonati, sembra che si presupponga che, se Dio volesse, potrebbe abbandonarci, il che ovviamente è impensabile e addirittura blasfemo. Insomma, la seconda espressione manifesta meglio della prima la bontà e la misericordia divine, ci fanno meno temere la tentazione, e ci danno quindi più fiducia di poterla vincere o evitare.
Osserviamo inoltre che se si è abbandonata l’espressione originaria, c’è da pensare che ci sia un vantaggio. E quale? Che «non abbandonare» sembra essere più consono alla bontà di Dio che non il «non indurre», che sa di crudeltà. Tuttavia, anche l’idea che Dio ci abbandoni è spaventosa. Era l’idea che angosciava il Lutero giovane, e che egli credette, per la verità vanamente, di poter cancellare con la sua famosa fede irrazionale, emotiva, fiduciale e fideistica.
Chiedere a Dio di non abbandonarci sembra infatti implicare l’idea che, se vuole, ci può abbandonare. Sia nell’una che nell’altra espressione sperimentiamo l’imperfezione dell’umano linguaggio, anche nel testo biblico e sulla bocca di Gesù. Occorre, con un intelletto di fede e di amore, trascendere questa imperfezione per lasciarci illuminare, magari nel silenzio, dal Mistero.
Tentazioni vincibili e tentazioni invincibili
Occorre ricordare altresì che Dio ha misericordia per chi cede in parte o in tutto alla tentazione o per debolezza o per mancanza di forze sufficienti, nonostante la buona volontà, eventualmente con concorso di ignoranza in buona fede, anche se si tratta di peccato grave.
Caso emblematico sono le tentazioni sessuali, eterosessuali od omosessuali, o gli stati irregolari, come quello dei divorziati risposati o delle prostitute o situazioni come quella degli adolescenti e dei giovani, nei quali capita che l’impulso, per la sua violenza, sia praticamente irresistibile, mentre il soggetto, per la giovane età o per insufficienze educative, può non avere una volontà sufficientemente forte, oppure certi stati mentali patologici, nei quali il soggetto non padrone di sé, è incapace di controllarsi e con ciò stesso la sua azione non è imputabile.
Qui il bisogno o tendenza sessuale di singolo o di coppia assomiglia a quello della fame o della sete o del sonno o dell’evacuazione, esigenze biologiche insopprimibili. Non dimentichiamo la base biologica dell’attività sessuale. Lutero, che non credeva nel libero arbitrio, pensava che la corruzione della natura umana conseguente al peccato originale comportasse che il peccato mortale è inevitabile. Per avere la speranza di salvarsi, egli allora, come è noto, si fece un’idea della misericordia divina, come se Dio lo perdonasse, benché non pentito; il che invece sono pura illusione e presunzione, perché Dio non può perdonare chi non si pente.
I due generi di tentazione
Altra cosa che riguarda il nostro argomento è che le tentazioni al peccato comprendono due grandi categorie, a seconda dei peccati ai quali tentano. Esistono così tentazioni carnali per i peccati che si riferiscono al corpo e alle passioni, come per esempio la lussuria, l’avarizia, l’ira, la mollezza, la tiepidezza e la gola; e peccati spirituali, che toccano lo spirito, come la superbia, l’orgoglio, l’odio, l’ipocrisia, l’invidia, l’empietà, l’eresia, lo scisma, l’apostasia.
L’allontanamento delle tentazioni richiede a volte una lotta lunga ed aspra, quella che S.Paolo chiama «buona battaglia». Tentazioni ci possono venire dai nostri nemici, con seduzioni, inganni o minacce. Se peccano contro di noi, la tentazione è quella di odiarli. Sappiamo invece che cosa prescrive il Vangelo: non ripagare il male col male ma col bene.
Ma in tal caso, quale bene? Non è esclusa, come insegna S.Tommaso, una giusta vendetta (vindicatio)[1] secondo le norme del diritto. Il dovere della mitezza non autorizza il cristiano ad essere un formaggio squacquarone. Ma può ricorrere a mezzi legali per ottenere giustizia e comunque alla fine c’è la giustizia divina. Altrimenti, che ci stanno a fare i servizi di sicurezza, la magistratura e le forze armate?
Non è sempre facile distinguere i segni di una tentazione da un impulso o a da un’idea che sembrano buoni o addirittura santi. Esistono tentazioni insidiose e seducenti, che occorre saper smascherare. Le più insidiose, pericolose ed affascinanti sono quelle che vengono dal demonio. Occorre molta cura nel sapere le riconoscere, ma può capitare che anche dei Santi, almeno momentaneamente, ne restino ingannati [2]. Questo capita soprattutto quando si tratta di eresie. Il demonio può provocare anche quelle tentazioni, che generano o diffondono un falso entusiasmo, una falsa mistica o una falsa devozione, con false visioni o falsi messaggi o pratiche spiritiche o magiche o una falsa profezia; oppure, col fanatismo, il fondamentalismo religioso, che porta al terrorismo, la droga e l’indottrinamento politico.
Altre tentazioni sono deprimenti o paralizzanti o gettano nella disperazione o svuotano la vita di senso. Anche qui può agire il demonio. Pensiamo all’esaurimento nervoso o alla paura della morte. Qui occorre più che mai chiedere l’aiuto di Dio. E qui occorre a volte anche un sottile discernimento, col rischio anche di sbagliarsi, e può esser di utilità una guida spirituale.
Finchè saremo in questa vita, dovremo sempre combattere contro le tentazioni, perché sempre resta in noi la fragilità e la tendenza a peccare, restando sempre la concupiscenza, nonostante la quale sempre possiamo e dobbiamo riprenderci dopo ogni caduta senza stancarci, col pentimento e la riparazione, chiedendo a Dio che non ci abbandoni nella tentazione.
Ma la concupiscenza non è, come credeva Lutero, uno stato insuperabile di colpa mortale, quasi fosse una seconda natura voluta o permessa da Dio, perché con tale idea errata, succede che si passa da un eccesso all’altro, dalla disperazione alla presunzione, si finisce per cancellare in modo falso l’angosciante senso di colpa sovrastato da un Dio minaccioso sopra di noi; si finisce cioè col capovolgere il senso del peccato e quindi l’odio per esso, sostituendolo con un illusorio adagiarsi nel peccato e con un falso senso di liberazione dalla tentazione, solo perché non ci si impegna in una lotta contro di essa, ritenuta una presunzione ed un inutile tormento, ma si è persuasi che Dio non ci abbandona nella tentazione, non perché ci dà la forza di venirne fuori, ma perché ci giustifica e ci approva «misericordiosamente» nel momento in cui cediamo ad essa.
[1]Summa Theologiae, II-II, q.108
[2]Vedi il mio libro La buona battaglia, Edizioni ESD, Bologna 1986
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