La dottrina del Concilio

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Il dibattito difficile ma necessario sull’interpretazione del Concilio è iniziato subito dopo la sua solenne chiusura (l’8 dicembre del 1965). Anzi per la verità non era mancato neppure durante lo svolgimento dei suoi lavori.

Oggi ad oltre mezzo secolo da quell’evento, esiste una bibliografica storico-critica piuttosto cospicua sui testi e sul contesto del XXI Concilio ecumenico, sia dal punto di vista strettamente storico e perfino storico-politico, sia dal punto di vista teologico, dottrinale ed ecclesiale.

Un raffinato teologo italiano ha appena proposto una nuova sintesi dell’insegnamento conciliare, che vorrebbe porsi come equidistante dalle critiche dei tradizionalisti e dalle parzialità dei neo-modernisti (cf. Enrico Finotti, La dottrina del Concilio. Per una retta interpretazione del Vaticano II, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2018, pp. 194, euro 20).

Effettivamente vengono ridotte di solito a due le correnti ermeneutiche più significative del Concilio, le quali a ben vedere mantengono vive due delle sensibilità peculiari, tra varie altre però, che emersero nei 3 anni di dibattiti nelle aule vaticane. Quella di impianto conservatore, con notevoli sfumature nel suo seno e quella di tendenza progressista, anch’essa composita e complessa, come di noterà nel post-Concilio.

Secondo don Finotti, “Nell’odierna temperie culturale, religiosa e sociale, subentra con celerità crescente, un clima alquanto diverso, rispetto all’immediato passato, in cui sembra che la stella polare del Concilio sia in qualche modo oscurata ed esca ormai dall’interesse prioritario delle realtà ecclesiali. Il Concilio in quanto tale sembra perdere mordente in nome di nuove evidenze che in parte sono una riesumazione di quei problemi che il Concilio stesso e poi il Magistero dei Pontefici successivi avevano risolto con precise prese di posizione magisteriali” (pp. 9-10). L’autore fa qui riferimento a documenti di rettificazione dottrinale, importantissimi ma sabotati dai teologi, come Sacerdotalis caelibatus (1967), Humanae vitae (1968), Familiaris consortio (1981), Ordinatio sacerdotalis (1994), Evangelium vitae (1995) e Dominus Iesus (2000).

Il fatto però, che sia ieri sia soprattutto oggi, non pochi esponenti del laicato impegnato, della teologia accademica e dello stesso episcopato, rifiutino tale documenti di chiarificazione – e lo facciano in nome del Concilio e spesso su organi ufficiali come l’Osservatore Romano o la Civiltà Cattolica dei padri gesuiti – fa capire che il problema resta, al di là della retta ermeneutica proposta dall’Autore.

Perché la stella polare del Concilio si è oscurata, come ci spiega don Finotti? Un primo motivo sta forse nei frutti che il mezzo secolo post-conciliare ha raccolto. E’ noto il discorso di Benedeto XVI sulla doppia ermeneutica. Meno noto è il fatto che il papa facesse capire chiaramente che l’erronea ermeneutica progressista, rispetto a quella della continuità da lui ribadita, abbia vinto e stravinto nella cattolicità, senza che si sappiano, neppure oggi chi sono i colpevoli. Complotto mondiale anonimo? Difficile sostenerlo.

Già negli anni ’80, il cardinal Ratzinger nel celebre Rapporto sulla fede, asseriva senza tema d’errore che il primo ventennio successivo al Vaticano II (1965-1985) non era stato affatto positivo per la Chiesa. E il trentennio successivo (1985-2015), in cui secondo Giovanni Paolo II, “i falsi profeti e i falsi maestri hanno conosciuto il maggior successo possibile” (EV, 17) ??

Ovviamente, se si entra nella dimensione storica e nella storicità del fatto cristiano, è arduo fare paragoni, trarre conclusioni certe e necessarie, stabilire cause e conseguenze: ne conveniamo tranquillamente. Ma il problema dell’apostasia silenziosa delle masse resta, anche in assenza di profeti di sventura.

E il lavoro di don Enrico, pur collocandosi in un orizzonte storico dato, si pone giustamente come teologico e quindi certamente meno opinabile.

Così, tra i suoi apporti di rilievo vi sono i 5 criteri per la ricezione coerente del Concilio, all’interno del più vasto Magistero della Chiesa. Li ricordiamo brevemente, senza volerli analizzare: 1) L’accettazione del Concilio come fatto teologico (legittimità a priori del Vaticano II, in quanto assemblea canonicamente convocata dall’autorità della Chiesa); 2) La necessaria correlazione tra la lettera e lo spirito del Concilio, analogamente a quanto si deve fare con ogni testo magisteriale e con la stessa Sacra Scrittura; 3) La ricezione degli insegnamenti conciliari fatta alla luce dell’intera Tradizione della Chiesa; 4) La necessaria integrazione dei 16 documenti approvati con i testi successivi promulgati dai pontefici, sia sui temi non trattati dal Concilio (come Humanae vitae con gli anticoncezionali), sia su temi trattati, ma in modo incompleto e perfettibile. I testi faro successivi al Concilio, e alla cui luce il Vaticano II va riletto e ricompreso, sono per l’Autore il Codice di diritto canonico del 1983, il Catechismo del 1997 e gli stessi Libri liturgici, almeno i ciò che essi presentano di dottrinale e di dogmatico; 5) Il superamento della polemica progressisti-tradizionalisti, “in favore del comune obiettivo di ricerca della Verità”: sapendo cioè che la Rivelazione è progressiva, e fondata sulla Tradizione (et et).

Ci sembrano 5 punti fermi che – se presi nel loro insieme – aiuterebbero a relativizzare i dibattiti in ciò che essi hanno di eccessivo, spurio ed inutile, e a concentrare l’attenzione dei teologi sulle questioni di fondo.

Non abbiamo spazio per passare in rassegna tutte le analisi proposte dal sacerdote sul valore e i limiti del Magistero ordinario universale, in cui può essere collocato, entro certi limiti, quello del Concilio e dello stesso post-Concilio. Notiamo solo qualcosa in modo sintetico.

Come insegnava Gérard Philips già nel 1983, “Si può certo riconoscere lealmente che il Concilio non ha proclamato come de fide definita nessuna nuova tesi” (citato a p. 19, nota 9). D’altra parte, come fa notare Alain Contat, l’assenso dovuto dal fedele all’insegnamento magisteriale, “non è univoco, ma analogicamente differenziato, poiché si articola in tre piani distinti: l’assenso di fede a tutto ciò che è divinamente rivelato; l’assenso a tutte le verità definitive necessariamente collegate alla Rivelazione; e la religiosa sottomissione della volontà e dell’intelletto al Magistero autentico anche non definitivo” (p. 18, nota 7). Quindi, sempre seguendo don Contat, “i documenti del Vaticano II vanno serenamente ricevuti dal credente e dal teologo prima di essere interpretati; ma non possono essere guardati come un superdogma in cui tutto avrebbe lo stesso valore magisteriale” (ib.).

Qui vorremmo però esprimere, pacatamente, una minima problematizzazione che, ne siamo certi, non dispiacerà all’illustre Autore e sarà forse utile per chiarificazioni magisteriali successive, da lui stesso auspicate (cf. pp. 24, 25, etc.). Tutto il suo libretto, contro la devastante anarchia modernista, sottolinea molto la necessaria sottomissione del fedele al magistero della Chiesa, anche ordinario e universale (ex can. 750), e perfino non assolutamente definitivo. Forse si sottolinea poco il fatto che proprio nel Vaticano II – rispetto a tutti gli altri 20 Concili precedenti – si hanno affermazioni su affermazioni e brani su brani, assolutamente estranei alla Rivelazione divina, i quali non richiedono nessun tipo di assenso, neppure il religiosum obsequium del canone 752 e della Professione di fede del 1989.

Sarebbe lungo e noioso citare frasi e passaggi, contenuti praticamente in tutti i documenti del Concilio, che si trovano in questa situazione. Certo anche nel magistero pre-conciliare si trovano passaggi storici contingenti, si pensi alle tante encicliche dell’Ottocento, che non richiedevano alcun assenso di fede. Ma nel Vaticano II, che resta un Concilio ecumenico e quindi un momento straordinario della missione della Chiesa docente, gli “elementi congetturali e contingenti” (cf. Donum Veritatis, 24) sono presenti in modo sistematico, forse per il taglio ‘pastorale’ che l’assemblea ha voluto dare a se stessa.

Sarebbe folle immaginare che il fedele, alla luce della Rivelazione divina, debba accettare questa o quella considerazione sulla natura dell’induismo o del buddismo (cf. Nostra aetate, 2) o sui mutamenti sociali, tecnici e psicologi del mondo contemporaneo, di cui largheggia Gaudium et spes.

Non è un caso neppure che Giovanni Paolo II per ristabilire la piena concordia con i membri della Fraternità sacerdotale san Pio X non li obbligò ad un assenso indifferenziato ai 16 documenti del Concilio, ma unicamente ai criteri di cattolicità, da esso ribaditi come la sottomissione al Papa e al suo insegnamento de fide (LG 25), il riconoscimento della validità dei nuovi sacramenti e della disciplina della Chiesa espressa dal nuovo Codice.

Si aggiungeva, però: “A proposito di certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o relativi alle riforme posteriori della liturgia e del diritto, che ci sembrano difficilmente conciliabili con la Tradizione, ci impegniamo ad assumere un atteggiamento positivo di studio e di comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica” (testo della dichiarazione dottrinale firmata da mons. Lefebvre e il card. Ratzinger il 5 maggio 1988).

Ammettiamo che si trattava di un caso limite, ma anche nei casi limite la Chiesa non può concedere ad una porzione del gregge di non accettare la dottrina della fede. Ecco quindi che si evince quanto volevasi dimostrare: molti passaggi dei documenti conciliari sono estranei alla dottrina della fede a cui ogni cattolico è tenuto.

Proprio la quantità di detti passaggi, è secondo noi una delle cause della situazione presente in cui don Finotti giustamente sottolinea la “confusione e le opinioni erronee, ormai diffuse capillarmente nel tessuto ecclesiale, nei semplici fedeli, nei teologi e anche in uomini investiti di ruoli gerarchici” (p. 25).

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