Lutero, scrive Jacques Maritain nel suo celebre Tre riformatori, «si appoggiava, per giungere alla virtù, alle sue sole forze, fidandosi dei propri sforzi, delle sue penitenze, delle opere della sua volontà, molto più che della grazia. Praticava così quel pelagianesimo di cui accuserà i cattolici, e da cui in realtà lui stesso non riuscirà ad affrancarsi. Praticamente egli era, nella vita spirituale un fariseo che conta nelle sue opere, come fa fede il suo raggrinzimento di scrupoloso. Si rimproverava come peccato ogni involontaria impressione della sensibilità, e si studiava di acquistare una santità da cui fosse esclusa la minima traccia della debolezza umana».
Ma ovviamente, non riuscendo a raggiungere la perfezione cui tende con troppo orgoglio, finisce per scorarsi, per abbattersi, e per cedere alla tentazione: «rinuncia a lottare, dichiara che la lotta è impossibile», arriva a concludere che «la concupiscenza è invincibile».
Poiché ha troppo fidato in se stesso, poiché ha creduto di potersi auto-redimere, di poter divenire, con le sue forze, una creatura angelica, disincarnata, ora non può che capitolare, e gettarsi dalla parte opposta, finendo in quello che è, per la Chiesa cattolica, uno dei peccati contro lo Spirito Santo: la sfiducia totale, la disperazione della salvezza.
Lutero si convince così che la virtù, la santità, siano impossibili all’uomo e che la salvezza stia solo nella fede e nei meriti di Cristo. Dietro questa posizione, di apparente umiltà, c’è la superbia che l’ha provocata: e l’apparente umiltà diventa disprezzo per l’uomo, pessimismo antropologico radicale, assolutizzazione del peccato originale, cancellazione della libertà umana, disprezzo della ragione e anticipazione della predestinazione calvinista!
È questa la fine tipica di coloro che scambiano il cristianesimo per una dottrina di puro auto-perfezionamento morale: come cioè se essa fosse anzitutto una morale e solo dopo la fiducia nella grazia di Colui che può tutto, anche attraverso la nostra debolezza.
Così Lutero, continua Maritain, «erige a dottrina ciò che è anzitutto la catastrofe della sua perfezione personale», e contemporaneamente, proclamando l’inutilità delle opere, la salvezza mediante la sola fede, rinnega le veglie, i digiuni, gli eccessi di penitenza del passato: niente più rimorsi, niente più tensione verso il bene, ma «cede alle potenze dell’istinto, subisce la legge della carne, secondo una progressione che è possibile rilevare dalla serie dei suoi ritratti. Collera, calunnia, amore della birra e del vino, ossessione della sozzura e dell’oscenità», crescono in lui via via, sempre di più: il tutto scambiato per libertà cristiana, fede, umiltà.
Gli scrupoli eccessivi, che hanno sempre assediato la sua anima, vengono esorcizzati tramite la pratica dei peccati, vengono affogati nella dissoluzione più violenta (pecca fortiter sed crede firmius). Peccare diventa un modo per mostrare la propria fede, per allenarsi a sconfiggere lo scrupolo stesso, e con esso il diavolo. Scrive: «Cerca subito la compagnia dei tuoi simili, mettiti a bere, giocare, racconta sconcezze, cerca di divertirti. Bisogna… pure talvolta fare un peccato in odio e disprezzo al diavolo, per non lasciargli l’occasione di creare in noi degli scrupoli per dei nonnulla: se si ha troppa paura di peccare, si è perduti… ah! se potessi alfine trovare qualche buon peccato per schernire il diavolo».
Così colui che in passato si è esaurito nelle veglie e nei digiuni, si dà alle gozzoviglie, abbandona l’abito sacerdotale, sposa una ex monaca, Caterina von Bora, da cui avrà sei figli e dispensa, chi lo circonda – lui che dalla legge si era sentito schiacciato, perché non ne aveva compreso lo spirito –, dalla legge stessa: invita sacerdoti e suore ad abbandonare il celibato e autorizza il suo protettore, il principe Filippo d’Assia, a prendersi una seconda moglie, oltre a quella legittima e vivente, per togliergli ogni scrupolo di coscienza.
Dal punto di vista religioso, lui che, ossessionato dal peccato, non ha creduto nel perdono, cancella il sacramento della confessione, per eliminare, oltre al perdono, il peccato stesso («Si sforza si sentirsi senza peccato, pur peccando in tutte le sue azioni e di vincere così la coscienza, questa signora della disperazione», scrive Maritain).
Nel fare questo, nel proclamare le nuove verità di fede, la sola fides, la sola scriptura, il servo arbitrio, il libero esame delle scritture, il Papa come Anticristo, pone se stesso, il proprio egocentrismo metafisico, al di sopra di tutto: «Io non ammetto» scrive nel giugno del 1522 «che la mia dottrina possa essere giudicata da alcuno, neanche dagli angeli. Chi non riceve la mia dottrina non può giungere alla salvezza»5. Dice questo, dopo aver proclamato che ognuno può leggere e interpretare liberamente le Scritture, convinto, però, che l’unico a farlo correttamente è lui.
Gli altri, come ad esempio i teologi di Lovanio, sono «asini grossolani, delle scrofe maledette, dei sacchi di bestemmie, dei porci epicurei, eretici e idolatri, delle pozze marcie, la brodaglia maledetta dell’inferno».
Nella sua generica condanna dell’uomo e della sua natura cadono anche la ragione e la filosofia. La ragione è definita più volte «la prostituta del diavolo» ed è dichiarata contraria, opposta alla fede; le streghe «bisogna ammazzarle tutte»; Copernico è «un astrologo da quattro soldi» e «un insensato»; i contadini che hanno fatto la rivolta del 1525 vanno sterminati: «Verso i contadini testardi, caparbi, e accecati, che non vogliono sentir ragione, nessuno abbia un po’ di compassione, ma percuota, ferisca, sgozzi, uccida come fossero cani arrabbiati…»; quanto agli ebrei, sulla scia degli eretici flagellanti tedeschi del Medioevo, dichiara: «In primo luogo bisogna dare fuoco alle loro sinagoghe o scuole; e ciò che non vuole bruciare deve essere ricoperto di terra e sepolto, in modo che nessuno possa mai più vederne un sasso o un resto»; inoltre occorre «allo stesso modo distruggere e smantellare anche le loro case, perché essi vi praticano le stesse cose che fanno nelle loro sinagoghe. Perciò li si metta sotto una tettoia o una stalla, come gli zingari»; i cattolici, infine, sono servi del Papa, che è l’Anticristo («maledetto, dannato, vituperato sia il nome dei papisti»), mentre Roma è Sodoma e Gomorra e la bestia dell’Apocalisse.
In tutto ciò anche la carità, cioè le buone opere, vanno nel dimenticatoio: non è un caso che mentre l’Europa cattolica vede il sorgere delle scuole e degli ospedali moderni, i paesi protestanti sono a lungo esclusi da questo fiorire di opere buone. Sia perché svalutare la capacità dell’uomo di compiere del bene non può che frenare il suo desiderio di farlo, sia perché le terre e i luoghi della Chiesa che offrivano riparo ai poveri, sono stati confiscati dai sovrani protestanti e spesso regalati agli amici o ai nobili che hanno aiutato il processo di usurpazione del potere religioso.
Nei suoi Discorsi a tavola, Lutero racconta che un giorno gli era stato mostrato un bambino minorato mentale. Egli propose subito di sopprimerlo: gli appariva un essere inutile, «che non faceva nient’altro che mangiare, e mangiava come quattro contadini o braccianti». Era, a suo modo di vedere, «solo una massa di carne, nella quale non albergava alcuna anima, se non forse, il diavolo. Ai principi presenti al suo discorso, Lutero disse: “Se io fossi il principe o il signore qui, annegherei di persona il bambino nel fiume”».
Questo disprezzo del bambino malato, e delle opere buone, si collega anche alla tradizionale ostilità di Lutero verso la carne: Lutero nega sia l’Eucaristia, sia la resurrezione dei corpi, a dimostrazione ancora una volta di quanto il suo rapporto con il corpo sia tormentato, prima e dopo la riforma.
da: F. Agnoli, Indagine sul cristianesimo
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