Negli Stati dove l’eutanasia e/o il suicidio assistito sono stati introdotti, non si è assistito unicamente all’innescarsi del meccanismo del piano inclinato, mediante il quale i confini per l’accesso alle pratiche eutanasiche si sono nel tempo progressivamente ampliati, ma si sono verificate anche altre pericolose conseguenze. L’aspetto che immediatamente salta agli occhi è l’aumento incredibile del numero di persone che, negli anni seguenti all’introduzione, sono state sottoposte a tali pratiche. Un fatto, questo, che sconfessa appieno quanto propagandano dagli alfieri della morte autodeterminata, secondo i quali la legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito non condurrebbe a derive sociali, ad incoraggiare cioè un numero più alto di malati e sofferenti a domandare la morte anticipata.
C’è poi da registrare il completo fallimento dell’eutanasia legale come “male minore”, cioè della tesi secondo la quale, non il divieto e la punibilità delle pratiche eutanasiche, ma la loro legalizzazione sia la strada da percorrere per poter fermare il far west eutanasico e gli abusi sui malati. Si è infatti riscontrato con una certa frequenza, nelle persone che hanno chiesto di morire secondo le disposizioni di legge, un inquinamento della loro libertà di scelta, sia a seguito di condizionamenti vari, che a causa di prevaricazioni messe in atto dai più forti nei confronti del più debole. Il rischio più denunciato al riguardo, è quello che le pratiche eutanasiche possano diventare uno strumento per abbattere i costi della sanità pubblica, anche sotto forma di pressioni psicologiche nei confronti delle persone in condizioni di salute non recuperabili e delle loro famiglie, affinché si avvalgano del “diritto” a morire, per non far ricadere sull’intera collettività i costi sanitari delle cure di cui necessitano. Un rischio che è ben più di un’ipotesi, dato che – come vedremo – questo si sta già verificando.
Questa preoccupazione è stata sollevata[1], per esempio, dalla bioeticista Margaret Somerville – docente di medicina e giurisprudenza presso la McGill University di Montreal (Quebec) – la quale durante un’intervista ha fatto presente che “molti temono che l’eutanasia possa essere usata per risolvere il problema del costo della sanità e che gli anziani verranno uccisi anche se non lo vogliono”. Un sondaggio[2] realizzato recentemente in Inghilterra, dall’istituto demoscopico ComRes, sotto forma di interviste a oltre 500 disabili, ha rilevato che ben il 70% di costoro teme che l’introduzione del suicidio assistito possa far sorgere pressioni sui pazienti vulnerabili spingendoli a “porre fine alla loro vita prematuramente”. Il 56% degli intervistati pensa che la legalizzazione influirà negativamente anche sulla concezione che la società ha delle persone con un handicap, e il 3% delle persone disabili intervistate ha, persino, paura che l’introduzione del suicidio assistito possa mettere loro stessi sotto pressione per togliersi la vita.
In America, la questione della riduzione dei costi sanitari, mediante abbreviamento della vita dei malati, è stata trattata dalla stampa già da qualche anno. A settembre 2009 è stata affrontata in maniera tutt’altro che velata in un editoriale[3] della rivista statunitense Newsweek, intitolato “The case for killing granny” (“L’argomento per uccidere la nonna”), con l’immagine simbolica di una spina staccata posta in copertina. La nonna in questione era la madre 79enne, gravemente malata, di Evan Thomas, l’autore dell’articolo, la quale, benché desiderasse porre fine alla propria vita, non aveva potuto farlo a causa dell’opposizione dei medici. Oltre alla vicenda della madre, il giornalista aveva raccontato anche quella dello zio costretto a letto da una patologia degenerativa, e di come fu deciso di staccargli la spina, sia per il suo bene, che per il bene del bilancio federale. La tesi sostenuta nell’editoriale era, infatti, la seguente: se il 30% del programma di copertura agli anziani viene usato per pagare le cure degli ultimi sei mesi di vita, il sistema non reggerà a lungo. “Il bisogno di risparmiare sulle cure agli anziani – aveva osservato Thomas – è l’elefante nella stanza della riforma sanitaria: tutti lo vedono ma nessuno ne vuole parlare”.
Più avanti (agosto 2011) è stato il New York Times a sollevare il problema della non sostenibilità dei costi sanitari, con un articolo[4] del giornalista David Brooks, in cui si spiegava come una parte importante del deficit degli Usa sia dovuto proprio al tentativo di allungare la vita dei malati. Secondo Brooks il problema del nostro tempo è quello di non saper guardare in faccia la morte, così si spendono somme ingenti di denaro pubblico per prolungare di qualche giorno, settimana, mese o anno, una vita che ormai non ha più senso, poiché la salute è compromessa dalla malattia e non più recuperabile. Solo i pazienti di Alzheimer, scriveva Brooks, nel 2005 sono costati alle casse dello Stato 91 miliardi di dollari, e nel 2015 quella spesa sarà più che raddoppiata, a 189 miliardi, per poi raggiungere 1 milione di miliardi annui nel 2050. “Ovviamente – precisava il giornalista – non taglieremo i malati di Alzheimer mandandoli a morire da soli, su una collina. Mai useremo la coercizione per far morire anziani e malati. Ma è difficile pensare seriamente di ridurre la spesa sanitaria se le persone e le loro famiglie non cominciano ad affrontare la morte e i loro doveri verso i viventi”.
Un altro rischio che viene denunciato, è quello secondo cui la richiesta di morte possa essere inoltrata per eliminare il fastidio di prendersi cura, o da parte dei malati che sentono di essere un peso per i propri familiari, o da parte degli stessi familiari, perché non in grado di farsi carico delle necessità del parente malato, o più semplicemente, perché non vogliono assumersi questa incombenza. “Altro che autodeterminazione. Per me, l’eutanasia è una richiesta che proviene dalle persone sane che vogliono disfarsi di un malato grave o in fase terminale”, ha affermato[5] il francese Lucien Israel, specialista in neurologia con decenni di esperienza insieme ai malati terminali. Un malato, infatti, non domanda di essere ucciso se sente di non essere un peso o un fastidio, e se il suo dolore è adeguatamente alleviato. Il neurologo francese ha ricordato in più di un’occasione, che in Francia vive un certo numero di olandesi anziani, emigrati per il timore che se fossero rimasti nel loro Paese prima o poi qualcuno li avrebbe sottoposti all’eutanasia. “Se questa tendenza continua – scrive Israel nel suo libro[6] che tratta di eutanasia – gli anziani dovranno difendersi dai giovani. Ma non solo: dovranno anche difendersi da medici e infermieri. Forse si comporteranno come gli anziani olandesi che, oggi, vengono a cercare protezione in Francia e in Italia. Può darsi che un giorno i nostri anziani saranno costretti a cercare rifugio nel Benin”.
Sembra insomma che, nella nostra epoca, ammalarsi e invecchiare stia diventando sempre più rischioso e problematico, non tanto per la possibile perdita di funzioni e abilità personali, o per l’avvicinarsi della morte (un evento a cui nessuno può di certo sottrarsi), quanto piuttosto perché il colpo di grazia possa giungere anzitempo, anche diversi anni prima, sferrato da chi ha deciso che la nostra vita non è più degna di essere vissuta, da chi ha stabilito, senza neanche consultarci, che per noi vivere non vale più la pena. Avviene così che, la tanto propagandata “libera scelta” divenga ben presto “imposizione”, e l’inviolabile “diritto di morire” si trasformi, una volta introdotto, nel sacrosanto “dovere di morire”, il tutto per il bene dello Stato e della collettività.
Ma non è ancora tutto, perché l’introduzione delle pratiche eutanasiche ha legittimato, facendola radicare nella società, anche la cosiddetta “cultura della morte”, per cui negli Stati che hanno legalizzato tali pratiche si è assistito, non solo all’aumento del numero delle morti su richiesta legali, ma anche a quello dei suicidi “illegali” nella popolazione generale.
Le irregolarità e gli abusi nei Paesi che hanno legalizzato una o entrambe le pratiche eutanasiche ormai non si contano più. Per capire meglio di che cosa si tratta e vedere nel dettaglio tutti gli aspetti di questo scenario inquietante, entriamo ora nell’ambito dei singoli Stati.
Oregon
La legge dell’Oregon che consente il suicidio assistito, ha incaricato il Department of Human Services (DHS) di raccogliere le informazioni sui suicidi assistiti praticati, dei quali deve analizzare un campione e, quindi, pubblicare un rapporto statistico annuale. Tuttavia – osserva[7] Rita Marker -, a causa di gravi difetti presenti nella legge e del sistema di rilevazione “a campione” previsto, non si riesce a conoscere con certezza quanti e in quali circostanze i pazienti siano morti. Gli stessi funzionari, incaricati di formulare le relazioni annuali, hanno ammesso che “non c’è modo di sapere se delle morti in più non siano state segnalate”, perché l’Oregon DHS “non ha autorità di regolamentazione o le risorse per garantire il rispetto della legge”.
I rapporti ufficiali dei primi sei anni (1998-2003) indicavano complessivamente 171 casi di suicidio assistito. Dopo il primo anno, in cui sono stati segnalati 16 decessi, le morti hanno continuato a salire, facendo registrare un incremento del 250%, come indicato nel rapporto annuale pubblicato il 5 aprile 2004 sull’American Medical News, ma, visti i limiti dei metodi di rilevamento, i numeri potrebbero essere ben più elevati. I dati ufficiali del 2010 e 2011 indicano[8] rispettivamente 65 e 71 morti per suicidio assistito, a fronte di 97 e 114 prescrizioni mediche di dosi letali di barbiturici. La Physicians for Compassionate Care Education Foundation (PCCEF) ha osservato al riguardo che, nel 2011, le prescrizioni e i decessi hanno raggiunto una cifra mai vista prima: “indice di un aumento di mancanza di speranza e disperazione tra la popolazione vulnerabile con gravi malattie”.
Questi dati smentiscono quanto propagandato dagli alfieri della “dolce morte” che – come abbiamo visto – dopo il passaggio del suicidio assistito in Oregon, hanno fatto di questo Stato il manifesto per dimostrare che il suicidio assistito è una scelta personale e, se legalizzato, è usato raramente. In realtà in Oregon, dopo la legalizzazione, i suicidi assistiti sono lievitati: dal 1998 al 2011 sono quasi 600 i pazienti che vi hanno fatto ricorso. In tredici anni i casi sono più che quadruplicati, passando dai 16 del 1998 ai 71 del 2011 (il 350% in più), e mancano tutti quelli sfuggiti ai rilevamenti ufficiali.
Oltre all’incremento esponenziale dei casi, irregolarità e abusi in Oregon non mancano, come denuncia Rita Marker. In base alla legge dell’Oregon – osserva la Marker – i pazienti depressi o malati di mente possono ricorrere al suicidio assistito solo se non hanno il “giudizio alterato” ma, per esempio, dal rapporto dell’aprile 2004, si vede che solo il 5% dei pazienti è stato sottoposto a una valutazione psicologica o di consulenza prima di ricevere una prescrizione per il suicidio assistito. A questo fatto, il dottor Mel Kohn, epidemiologo dell’Oregon, ha obiettato che la decisione di sottoporre il paziente ad una valutazione psicologica “è, secondo la legge, a totale discrezione dei medici”. Una discrezione, tuttavia, che può produrre anche decisioni arbitrarie, ancor più quando nei suicidi assistiti vi è il coinvolgimento di una paladina dell’eutanasia come la “Compassion in Dying” (CID). Emblematico è il caso di Michael Freeland, un uomo di 64 anni con alle spalle 43 anni di depressione acuta e alcuni tentativi di suicidio. Ebbene, il Dottor Peter Reagan, affiliato alla CID, che nel 2001 ha prescritto i farmaci letali secondo la legge dell’Oregon, ha detto a Freeland, e alla figlia che l’aveva accompagnato, che una consulenza psichiatrica non era “necessaria”. O il caso di una donna di mezza età, che da 22 anni combatteva contro il cancro al seno: ben due medici si sono rifiutati di fare la prescrizione letale, tra cui il medico curante della donna che riteneva la richiesta fosse imputabile alla depressione di cui costei soffriva, finché non è stata coinvolta la CID. Significativa è anche la vicenda dell’85enne Kate Cheney, affetta da demenza precoce, la cui figlia ha fatto di tutto per ottenere la prescrizione letale, riuscendovi solo al quarto tentativo. Riferisce Rita Marker che il medico curante della donna si era rifiutato di fare la prescrizione letale, e che lo psichiatra, chiamato a verificare la sua capacità, aveva stabilito che la signora non fosse idonea per il suicidio assistito, dato che non lo stava esplicitamente chiedendo, mentre sembrava fosse la figlia a spingerla in quella direzione. La donna è stata quindi presa in carico da uno psicologo il quale, pur stabilendo che la donna fosse capace, ha tuttavia precisato che forse ciò era dovuto all’influenza della figlia che si era mostrata “alquanto coercitiva”. Alla fine è stato un managed care ethicist, che ha supervisionato il caso, a certificare l’idoneità, che ha permesso alla figlia di ottenere la prescrizione letale di farmaci per la madre e l’attuazione del suicidio assistito. Nonostante questa realtà, osserva Rita Marker, non è possibile sapere quale sia il numero delle persone affette da demenza o da depressione morte per suicidio assistito, poiché i rapporti ufficiali non contengono queste due categorie.
In base alla legge dell’Oregon, poi, le prescrizioni letali dovrebbero essere limitate a pazienti che abbiano un’aspettativa di vita di sei mesi o meno. Tuttavia, durante i primi due anni di applicazione della legge – osserva la Marker – almeno una dose letale è stata prescritta più di otto mesi prima che il paziente l’assumesse. Mentre dalla sesta relazione annuale si è potuto riscontrare che due pazienti che hanno ricevuto le prescrizioni rispettivamente nel 2001 e nel 2002, sono morti per assunzione del farmaco letale nel 2003. Poiché il DHS non è autorizzato ad indagare su come i medici determinino le diagnosi e l’aspettativa di vita dei pazienti, non c’è alcun modo di scoprire se la prescrizione letale è stata fatta anche a malati non terminali, né si può sperare che il medico che abbia violato le linee guida si autodenunci segnalando la propria infrazione.
Dati parziali e lacunosi sussistono anche in merito alle complicazioni che, non di rado, si verificano durante i suicidi assistiti, questo perché la legge dispone che il medico che fa la ricetta per il farmaco letale non sia tenuto ad essere presente al letto del paziente quando costui lo assume. Va da sé che, se il medico non è presente, non può sapere quali complicazioni si siano verificate, perciò le informazioni che i medici forniscono per i report ufficiali possono essere di seconda mano, cioè riferite da terzi (un familiare, un amico, ecc. presente al momento del suicidio), o possono essere solo congetture. E se si considera – come indica il sesto rapporto annuale – che la presenza di un medico si è registrata in meno del 30% dei decessi segnalati, se ne ricava che, ciò che avviene durante i suicidi “assistiti”, rimane perlopiù sconosciuto, e che la maggior parte dei suicidi assistiti sono in realtà ben poco “assistiti”. Il sesto rapporto indica tra le complicazioni: “7 casi di rigurgito”, un’evenienza tutt’altro che rara, è infatti risaputo che “le overdose di barbiturici possono causare il vomito quando una persona inizia a perdere conoscenza. Il paziente poi inala il vomito”[9].
Oltre a questo, la confusione indotta dai farmaci può provocare nella persona anche panico, sentimenti di terrore e comportamenti aggressivi che, in assenza di un medico, possono essere molto difficili da gestire, sia da parte del malato che dai suoi familiari. Rita Marker racconta il caso di Patrick Matheny, che ha ricevuto la ricetta dall’Oregon Health Sciences University a mezzo corriere Federal Express. Quando quattro mesi dopo ha cercato di assumere i farmaci ha incontrato molte difficoltà. Il cognato ha raccontato di averlo dovuto “aiutare” a morire: “Non va sempre tutto liscio per chiunque – ha dichiarato -. Per Pat era un problema enorme. Non avrebbe funzionato senza aiuto”.
La Marker riporta anche il caso di un suicidio assistito andato decisamente storto, descritto durante un incontro al Portland Community College da Cynthia Barrett, un avvocato pro suicidio assistito, che così ha esposto i fatti: “L’uomo era a casa. Non c’era nessun medico con lui. Dopo aver preso [la dose letale], ha iniziato ad avere alcuni sintomi fisici. Per la moglie i sintomi sono stati difficili da gestire. Perciò ha chiamato il 911”. L’uomo è stato quindi caricato sull’ambulanza, “rianimato, nel bel mezzo di esso, e portato in una struttura di cura locale. Non so se è ritornato a casa. È morto poco dopo, un certo periodo di tempo dopo che…”. Non si sa esattamente quali sintomi si siano manifestati in quel frangente, visto che – osserva la Marker – la Barrett si è rifiutata di discutere il caso dopo la sua rivelazione nel dicembre 1999.
Che in Oregon i problemi che si verificano con i suicidi assistiti non siano comunicati come di dovere – aggiunge la Marker – lo dimostra anche il dato relativo alle complicanze e ai problemi con il completamento che si verificano in Olanda, dove si è visto che i medici sono dovuti intervenire con un’iniezione letale aggiuntiva nel 18% dei casi di suicidio assistito. In sostanza – osserva l’avvocato -, sebbene nei Paesi Bassi il suicidio assistito sia una realtà ormai consolidata, e i medici abbiano avuto anni di pratica per apprendere la maniera di superare le complicanze, queste continuano ancora oggi ad essere segnalate. Questo fatto, ha portato il dottor Nuland Sherwin, della Yale University of Medicine, a mettere in discussione la credibilità dei dati contenuti nei report dell’Oregon che, al contrario, non indicano alcuna problematica di questo tipo.
Ma non è ancora tutto. Dai rapporti ufficiali dei primi tre anni si vede che solo il 41% dei medici ha accettato di fare la ricetta alla prima richiesta del paziente. Molti di coloro che hanno chiesto assistenza al suicidio – scrive la Marker, citando una ricerca[10] apparsa sul New England Journal of Medicine – “hanno dovuto chiedere a più di un medico per avere la prescrizione dei farmaci letali”. Tuttavia, non c’è modo di sapere perché i medici precedenti abbiano rifiutato la prescrizione (il paziente non era malato terminale, non aveva capacità di giudizio, ecc.), in quanto i dottori che non prescrivono non sono intervistati per le relazioni ufficiali di Stato. Gli unici medici intervistati per i report sono quelli che hanno prescritto le dosi letali di farmaci ai pazienti. E, ad ogni modo, dopo il terzo anno, anche questo genere d’informazione è stata eliminata dalle relazioni annuali.
Rita Marker denuncia anche altri aspetti preoccupanti, come il fatto che, in Oregon, la “Compassion in Dying” (CID) sia stata coinvolta nella stragrande maggioranza dei suicidi assistiti, infatti, se un medico si oppone al suicidio assistito o pensa che il paziente non abbia i requisiti di legge, la CID può intervenire e predisporre la morte. Secondo quanto affermato da Peter Goodwin, direttore medico della CID, circa il 75% di coloro che sono morti utilizzando la legge sul suicidio assistito fino a tutto il 2002, lo hanno fatto con l’assistenza della CID. Nel corso del 2003, il coinvolgimento della CID è salito al 79%. E mentre i gruppi pro suicidio assistito facilitano le morti sotto la legge dell’Oregon – precisa la Marker -, i familiari del suicidario sono tenuti all’oscuro di tutto: “la mancanza di coinvolgimento della famiglia o anche della sola notifica è preoccupante”. La legge dell’Oregon, infatti, non prevede l’obbligo di informare i familiari prima che una persona si sottoponga al suicidio assistito: la notifica alla famiglia è consigliata, ma non obbligatoria. Così può succedere che si venga a sapere che un proprio congiunto stava prendendo in considerazione il suicidio assistito solo dopo che è già morto.
La legge dell’Oregon – denuncia la Marker – offre una protezione maggiore ai medici che non ai pazienti. I medici che prescrivono il suicidio assistito secondo le disposizioni di legge, sono esentati dagli standard di cura che sono invece tenuti a rispettare per le altre prestazioni sanitarie. Ai sensi della legge sul suicidio assistito, colui che fornisce assistenza, non è soggetto a responsabilità penale o civile, o a qualsiasi altra azione disciplinare, a condizione che agisca in “buona fede”. Questo standard soggettivo di “buona fede” – continua la Marker – è assai meno severo rispetto all’oggettivo “ragionevole standard di cura” che è richiesto ai medici nell’ambito delle cure mediche compassionevoli, come hospice, trattamenti palliativi o terapeutici. Ne consegue che, un medico che con negligenza “partecipa” al suicidio assistito, non può essere ritenuto responsabile se afferma di aver agito in “buona fede”. Per contro, un dottore che con negligenza fornisce gli altri interventi sanitari, può essere ritenuto legalmente responsabile in sede civile, indipendentemente dalla sua “buona fede”. Questo abbassamento dello standard di cura per il suicidio assistito – conclude la Marker – potrebbe incentivare i medici a raccomandare il suicidio assistito, piuttosto che le cure palliative, nelle situazioni di fine-vita. Un aspetto assai preoccupante che, in realtà, le autorità mediche oregoniane hanno già iniziato a mettere in pratica.
Osserva la bioeticista Margaret Somerville, che in Oregon, “l’autorità medica che è responsabile del suicidio assistito, decide anche chi sono le persone che possono usufruire a titolo gratuito di avanzate terapie palliative per chi ha malattie gravi molto dolorose, ma vuole vivere fino all’ultimo dei suoi giorni senza soffrire”. “Queste cure – spiega la Somerville – hanno un costo altissimo, che va dai 30 fino ai 100mila dollari al mese. Quasi nessuno può permettersele e per questo lo Stato fornisce dei sussidi. Una donna [Barbara Wagner] ha fatto richiesta del sussidio e l’autorità medica le ha risposto che non potevano somministrarle gratuitamente le cure. Ha poi aggiunto, nero su bianco, che il suicidio assistito è una soluzione indolore ed economica per porre fine alla propria vita”.
L’Oregon, infatti – nota[11] Rita Marker –: “sembra aver trovato un modo infallibile per ridurre i costi dell’assistenza sanitaria: dice alla paziente che pagherà per i farmaci che metteranno fine alla sua vita, ma non per quelli che gliela allungherebbero”. Dopo che la vicenda della Wagner è finita sui giornali, prosegue la Marker: “l’Oregon Health Plan ha riconosciuto di inviare regolarmente lettere simili ai pazienti che hanno poche possibilità di sopravvivere per più di cinque anni, informandoli che il piano sanitario pagherà per il suicidio assistito (eufemisticamente classificato come ‘comfort care’), ma non per le cure che potrebbero aiutarli a vivere per mesi o anni”. “Certamente – osserva la Marker – spendere 100 dollari per i farmaci mortali è conveniente, perché i pazienti muoiono prima, evitando qualunque costosa cura. E, da quando, oltre dieci anni fa, il Death with Dignity Act ha trasformato il reato di suicidio assistito in un ‘trattamento medico’, questo è divenuto perfettamente legale. Così i medici dell’Oregon prescrivono le overdose letali e i farmacisti le dispensano, qualche volta con istruzioni del tipo ‘prendere il tutto con uno spuntino leggero e alcool per indurre la morte’”. I sostenitori del suicidio assistito si mostrano fortemente risentiti quando si fa loro notare che lo si sta usando per il contenimento dei costi sanitari, tuttavia ciò che conta non è come si sentano costoro, ma i fatti. E i fatti dicono che, conclude la Marker: questo è il prezzo inevitabile che tutti pagheremo per la riduzione delle spese sanitarie, grazie al contenuto di leggi mortifere in stile Oregon.
Le violazioni di legge e gli abusi evidenziati dall’avvocato Rita Marker, sono stati ribaditi[12] nel 2012 dai medici della Physicians for Compassionate Care Education Foundation (PCCEF), che hanno consegnato una relazione critica al Public Health Departmenta proposito del report dell’Oregon Health Authority relativo ai suicidi assistiti del 2011, facendo notare i seguenti aspetti critici:
- 62 medici hanno scritto 114 ricette, alcuni fino a 14 ricette a testa. Alcuni dottori conoscevano il paziente solo da una settimana prima di scrivere la prescrizione. È risaputo che alcuni dottori sono prominenti prescrittori di barbiturici letali per il suicidio assistito.
- Com’è accaduto negli anni precedenti, non tutti coloro che assumono i farmaci muoiono. Due pazienti hanno ingerito il farmaco ma non sono riusciti a morire. Entrambi hanno ripreso conoscenza e sono deceduti oltre un giorno dopo, rispettivamente dopo 30 e 38 ore. Nessuno dei due è stato considerato come decesso avvenuto a seguito di ingestione di farmaci, ma a causa della propria malattia di base. Questi non sono farmaci che si assumono con facilità, sono amari e dal gusto sgradevole e, nonostante gli antiemetici, il vomito si verifica lo stesso.
- Come negli anni precedenti, non c’è stata in pratica alcuna esplicita valutazione per verificare se alla base della richiesta vi fossero depressione, ansia o un altro grave problema di salute mentale. Solo 1 dei 71 pazienti è stato indirizzato ad una valutazione psichiatrica. Eppure i ricercatori dell’OHSU nel 2008 hanno rilevato che il 25% dei pazienti che chiedono il suicidio assistito è depresso.
- Solo in 6 casi il medico che ha fatto la prescrizione era presente al momento dell’ingestione, mentre in altri 3 casi era presente un altro fornitore. Perciò molto poco si conosce, o è riportato, circa gli effetti al momento dell’assunzione. Per 62 pazienti mancavano entrambe le figure, o mancava l’informazione sulla presenza di un operatore. I medici appaiono disinteressati alla fine dei loro pazienti.
- In sostanza, dunque, le complicazioni sono rimaste sconosciute per 59 pazienti, e ogni informazione riguardante i minuti tra l’ingestione, la perdita di coscienza e la morte, è rimasta ignota per 63 pazienti.
I medici della PCCEF hanno infine concluso: “Il velo di segretezza che circonda il suicidio assistito è più pesante che mai. Ogni anno che passa, gli oregoniani sanno sempre meno di ciò che realmente accade nello Stato con i suicidi assistiti.
Washington
Nonostante nello Stato di Washington la legge sul suicidio assistito sia entrata in vigore solo dal marzo 2009, il trend in crescita dei suicidi è già evidente[13]. 36 sono le persone morte grazie al “Death with Dignity Act” (DWDA) nei primi dieci mesi di applicazione e, secondo i rapporti annuali del Washington State Department of Health (DOH), 51 sono i decessi del 2010 e 71 quelli del 2011. In sostanza, in appena tre anni, i suicidi assistiti sono già raddoppiati. Ma i conti non tornano perché, per esempio, nel rapporto del 2011 si vede che sono 103 pazienti ad aver chiesto e ricevuto dosi letali di farmaci per il suicidio assistito, da parte di 80 diversi medici che li hanno prescritti. Oltre ai 71 che sono morti dopo assunzione di farmaci letali, vi sono altri 19 pazienti che, nonostante l’assunzione del cocktail letale, risultano essere morti per cause naturali, e altri 5 decessi per i quali non si hanno informazioni circa l’assunzione di farmaci per togliersi la vita.
Il rapporto del 2010 presentava delle discrepanze analoghe, tanto che, dopo che è stato reso pubblico, la presidente della “True Compassion Advocates”, Eileen Geller, ha obiettato che la precisione del report del Dipartimento della Salute doveva essere messa in discussione, dato che vi sono persone il cui stato risulta sconosciuto dopo aver ricevuto dal medico la prescrizione dei farmaci per uccidersi. “I dati pubblicati dal rapporto del 2010 – ha detto la Geller – sono così scarsi e inattendibili che anche alcuni di coloro che sono d’accordo con questa linea politica hanno delle riserve circa la capacità del DOH di stabilire se la legge opera in piena sicurezza e ‘volontarietà’ come i suoi fautori hanno promesso”. “Gli elettori di Washington – ha aggiunto – pensavano che avrebbero ottenuto una legge che garantisse loro la scelta. Quello che hanno ricevuto è qualcosa di completamente diverso: una legge che in alcuni casi è diventata una ricetta per l’abuso nei confronti degli anziani e uno strumento per la coercizione finanziaria”. La Geller ha quindi raccontato di aver “ricevuto molte segnalazioni da parte di professionisti sanitari, familiari e amici, preoccupati per la sicurezza dei propri cari”. Per esempio – ha spiegato –, un nipote era preoccupato per la depressione non trattata dello zio e la mancanza di fondi adeguati per la cura, che l’hanno indotto a chiedere la prescrizione per il suicidio assistito secondo il DWDA. E ha citato il caso di una donna paralizzata gravemente malata che, dimessa anzitempo da un ospedale di Seattle, era preoccupata di essere un peso per la sua famiglia. La donna non disponeva di risorse finanziare adeguate per curarsi, così ha chiesto al medico la prescrizione per il suicidio assistito perché sentiva di non avere in realtà nessun’altra scelta.
Oltre ai limiti presenti nella legge e agli abusi che, al pari dell’Oregon, anche nello Stato di Washington hanno subito iniziato a materializzarsi, la legge del secondo Stato USA ad aver legalizzato il suicidio assistito riesce a fare pure peggio, dato che si spinge fino a costringere i medici a mentire. Scrive[14] la Marker: “La nuova legge di Washington aggiunge uno strato di inganno senza precedenti, costringendo i medici a mentire sulla causa di morte”. Essa stabilisce che, quando un paziente muore dopo aver assunto il farmaco prescritto per il suicidio assistito, il medico “riporti come causa di morte la malattia terminale di base”. Brian Wicks, presidente della “Washington State Medical Association” (WSMA), ha così criticato il requisito di legge previsto, in un comunicato stampa della WSMA: “Se il medico prescrive un’overdose letale, quando quel medico compila il certificato di morte, lui o lei è tenuto – effettivamente tenuto – ad indicare la malattia di base (per esempio cancro ai polmoni) come causa di morte, anche quando il dottore sa bene che il paziente è morto per suicidio a causa dell’overdose che lui o lei ha prescritto. Per quanto ne so non c’è nessun’altra situazione in medicina nella quale il certificato di morte sia deliberatamente falsificato, ed in cui questa falsificazione sia obbligatoria per legge”.
Ma c’è anche un’altra grave conseguenza che si è materializzata dopo l’introduzione del suicidio assistito in Oregon e a Washington, messa in luce dalla dottoressa Jacqueline Harvey dell’University of North Texas. La Harvey ha analizzato la letteratura scientifica degli ultimi vent’anni dei Paesi che hanno introdotto le pratiche eutanasiche, in particolare di Oregon, Washington e Olanda, scoprendo che la legalizzazione del suicidio assistito non ha fatto aumentare solo le richieste di suicidio, ma anche il tasso di suicidi nella popolazione. “C’è la questione del contagio da suicidio”, ha osservato[15] la dottoressa, “i suicidi sono quasi come una malattia infettiva. È stato statisticamente dimostrato che dopo la legalizzazione del suicidio assistito in Oregon, il tasso di suicidio degli adolescenti e i suicidi illegali delle altre persone sono aumentati”. Lo stesso vale anche per lo Stato di Washington, e anche se i dati sono disponibili solo dal 2009 indicano che la legalizzazione produce quella che alcuni chiamano una “cultura di morte”. La Harvey ha anche notato come fosse evidente il fatto che, molti dei pazienti interessati al suicidio medico-assistito, sentivano che fosse loro dovere morire. “Se si guardano le ragioni di coloro che hanno scelto il suicidio assistito – ha precisato la Harvey – per molti di essi queste non hanno niente a che fare con la libertà o la dignità, ma con il non voler essere un peso. Perciò le persone non necessariamente scelgono liberamente questa strada. Lo fanno per far del bene ad altri”.
Olanda
Da quando nel 2001 l’Olanda ha legalizzato l’eutanasia, le morti eutanasiche sono progressivamente cresciute, come ha reso noto uno studio pubblicato dal Lancet a luglio 2012, in cui si vede che, nel periodo di sette anni 2003-2010, le “dolci morti” olandesi sono aumentate del 73%: erano 1.815 nel 2003, sono arrivate a 3.136 nel 2010. Il trend in forte aumento delle eutanasie legali è stato confermato anche dal rapporto annuale per l’anno 2011 presentato dalla Commissione governativa, che ha registrato 3.695 morti. Un ulteriore balzo in avanti, quindi, con un aumento del 18% rispetto alle eutanasie del 2010, e del 103%! rispetto alle 1.815 del 2003. Nel rapporto risalta in particolare il dato delle persone affette da fasi iniziali di demenza sottoposte a eutanasia: ben 49, il doppio rispetto all’anno precedente; e i 13 pazienti definiti, invece, “psichiatrici”. Dati eloquenti che confermano la deriva eutanasica, non soltanto per l’aumento del numero dei malati terminali uccisi, ma anche in misura sempre maggiore per i pazienti non terminali affetti da demenza e depressione.
Nello studio pubblicato dal Lancet, emergono anche altri dati, che i promotori dell’eutanasia hanno subito rilanciato per affermare che la legge olandese non ha promosso la cosiddetta “cultura della morte”, mentre è riuscita a ridurre le eutanasie occulte, perciò la legalizzazione delle pratiche eutanasiche da parte degli Stati è un obiettivo auspicabile e da perseguire.
Nella ricerca[16] si legge che le morti per sospensione dei sostegni vitali sono rimaste stabili nel tempo (18,2% nel 2010); che i casi di eutanasia e suicidio assistito sono passati dal 2,8% di tutte le morti nel 2001 al 3% nel 2010; e che i casi di eutanasia involontaria, senza cioè il consenso del paziente, sono scesi dallo 0,7 allo 0,2%. Quest’ultimo dato è particolarmente sbandierato dagli alfieri della morte autodeterminata perché – sostengono costoro -, dimostra che la legalizzazione ha ridotto le eutanasie clandestine, e perciò ha funzionato. Se però si va a leggere tutto il rapporto – fa notare il neurologo Gian Luigi Gigli –, ed in particolare i dati riguardanti la cosiddetta “sedazione profonda continua”, emerge una realtà ben diversa da quella sbandierata. La “sedazione profonda continua” – spiega Gigli – “non è esattamente un intervento palliativo. Mira, infatti, non a controllare il dolore, ma a far entrare il paziente in un tunnel senza via d’uscita, al termine del quale vi è inevitabilmente la morte. I farmaci sono, infatti, somministrati a dosi tali da abolire la coscienza, mentre vengono abitualmente sospese le altre terapie e sono arrestate l’idratazione e la nutrizione”. Questa sedazione – continua Gigli -: “per l’impossibilità (intenzionale) di tornare indietro e per i suoi effetti (acceleratori della morte) sui centri encefalici che regolano le funzioni vitali, resta difficilmente distinguibile dall’eutanasia”.
Significative al riguardo sono le linee guida (aggiornate al 2009) emanate dalla Royal Dutch Medical Association, in cui si prevede la sedazione “terminale” “nelle ultime due settimane di vita del paziente”, associata con la sospensione di idratazione e nutrizione. Ebbene, osserva[17] Gigli, è lampante il fatto che “la sospensione di idratazione e nutrizione comporta inevitabilmente la morte nell’arco di un paio di settimane”, pertanto “il requisito olandese di ‘terminabilità’ a due settimane costituisce una sorta di profezia che si autorealizza”. “Che si tratti invece di eutanasia mascherata – prosegue Gigli – lo dimostra il fatto che i maggiori centri europei di cure palliative riferiscono percentuali di malati sedati che in genere non superano il 5 o il 10 per cento del totale dei pazienti seguiti”, mentre in Olanda – come riporta il Lancet a luglio 2012 -, in dieci anni la percentuale di pazienti che sono morti a seguito di sedazione continua profonda “è passata dal 5,6% del 2001, al 7,1% del 2005, all’11% del 2010, al 12,3% del 2011”. Dopo l’entrata in vigore della legge, quindi, il numero dei casi di sedazione terminale è raddoppiato, interessando nel 2010 ben 16.700(!) persone. Se si considera che tutto questo avviene “senza possibilità di una seconda opinione, come è previsto per l’eutanasia, e spesso senza il consenso del paziente, trattandosi di una ‘normale pratica medica’”, ne consegue che, non solo il far west non è stato arginato – come propagandano gli alfieri della morte – ma, nonostante l’eutanasia legale, gli abusi continuano a verificarsi e, anzi, sono in aumento.
Un analogo scenario – prosegue Gigli – lo si riscontra anche con il dato relativo alle “morti dopo alleviamento intensificato dei sintomi”. In questi casi – osserva Gigli -, la morte “è preceduta da somministrazione di oppiacei e psicofarmaci, invece che da miorilassanti e barbiturici, come avviene per l’eutanasia riconosciuta e per il suicidio assistito”. Ebbene, anche il numero di questi decessi risulta aumentato, essendo passato dal 20,1 al 36,4% delle morti totali. Ed anche in questo caso è significativo notare che “in oltre la metà dei casi di ‘morte dopo alleviamento intensificato dei sintomi’, la decisione sia stata presa senza consultare né il paziente né i suoi familiari”. “Lo stesso editoriale di commento che accompagna l’articolo di Lancet – prosegue Gigli -, prospetta la possibilità di confusione nella pratica clinica tra l’eutanasia e la meno controversa sedazione profonda continua: ‘I medici che affermano di praticare la sedazione palliativa attraversano talora la linea di confine con l’eutanasia’”.
Quindi, per riepilogare, i pazienti “morti dopo alleviamento intensificato dei sintomi” sono in forte aumento, mentre coloro che sono morti dopo “sedazione continua profonda”, sono raddoppiati. Questi dati – conclude il neurologo – sono “molto sospetti e non giustificati da reali modificazioni della scena clinica”, ed insinuano il dubbio “che la percentuale dei casi di eutanasia resti bassa perché i medici non chiamano eutanasia la morte affrettata con gli oppiacei e gli psicofarmaci, nella metà dei casi senza neanche discuterne con il paziente e i familiari”. Gigli esorta perciò a fare “attenzione alle false rassicurazioni delle riviste internazionali sulla cosiddetta ‘buona morte’ all’olandese”.
In pratica le due nuove definizioni introdotte (“sedazione profonda continua” e “alleviamento intensificato dei sintomi”) per pratiche che di fatto portano il paziente a morte certa, hanno sempre più spesso preso il posto della vecchia “chiusura del procedimento senza richiesta o consenso”, che richiamava in maniera esplicita l’eutanasia involontaria, e così si è pensato che il numero delle eutanasie involontarie fosse diminuito. In realtà, le cose non sono cambiate di una virgola, visto che anche dopo le nuove procedure, definite con un lessico più attraente, i pazienti continuano ad essere uccisi senza essere consultati, ed i loro parenti continuano ad essere tenuti all’oscuro su tale decisione.
“Nonostante questa carneficina – ha detto[18] Wesley J. Smith dell’International Task Force -, i medici olandesi molto raramente sono perseguiti per tali crimini, e i pochi che vengono portati in tribunale sono solitamente prosciolti. Per di più, anche se un medico è giudicato colpevole, lui o lei non è quasi mai punito in modo significativo, né l’uccisore va incontro ad un provvedimento disciplinare da parte dell’Associazione Medica Olandese. Per esempio, nel 2001, un medico è stato condannato per l’uccisione di un paziente 84enne che non aveva chiesto di morire. I pubblici ministeri hanno chiesto nove mesi con la sospensione della pena(!)” ma, nonostante questa punizione lieve “che non può nemmeno essere definita uno schiaffo”, la richiesta “è stata respinta dal giudice che si è rifiutato di imporre qualsiasi pena. […] La corte d’appello ha imposto al medico per l’omicidio, una settimana con la sospensione condizionale della pena”.
Belgio
Nei primi quindici mesi dall’entrata in vigore in Belgio dell’“Act on Euthanasia” (maggio 2002) – secondo le statistiche fornite dal quotidiano belga La Libre Belgique -, sono state 259 le eutanasie ufficiali praticate, delle quali il 54% in ospedale, il 41% a domicilio e il 5% nelle case di riposo. Anche in Belgio, il numero delle morti on demand ha continuato anno dopo anno a crescere, fino a raggiungere nel 2010 quota 954, nel 2011 un totale di 1.133, e nel 2012 la cifra di 1.432, secondo i dati della Commissione Federale di controllo. In pratica in nove anni i casi di eutanasia sono più che quintuplicati aumentando in termini percentuali del 450%.
Anche in Belgio, come in Olanda, molte eutanasie avvengono senza il consenso del paziente e, benché la legge disponga che a dare la morte debba essere il medico, si è in verità scoperto che sovente sono invece le infermiere a dispensarla. Questi aspetti sono stati evidenziati da due studi[19] pubblicati nel 2010 sul Canadian Medical Association Journal (CMAJ). Il primo studio[20] – intitolato “La morte medicalmente assistita secondo la legge belga: una ricerca statistica nella popolazione”, ha rilevato che ben un terzo delle eutanasie, praticate nelle Fiandre tra giugno e novembre 2007, è avvenuto senza il consenso dei pazienti. Su un totale di 208 decessi per eutanasia, quelli avvenuti senza richiesta o consenso del paziente sono stati 66. Di queste morti mancanti di una richiesta esplicita, solo nel 22,1% dei casi la possibilità di eutanasia è stata discussa con il paziente, inoltre, in più della metà dei decessi senza richiesta (52,7%), la persona aveva 80 anni o più. Dopo la diffusione dello studio i medici si sono giustificati dicendo di non aver chiesto il parere dell’interessato perché – scrive Gianfranco Amato -: il paziente era in stato comatoso (70,1%), o affetto da demenza (21,1%), o aveva precedentemente espresso una volontà verbale di morire (40,4%), circostanza, quest’ultima, che non può tuttavia considerarsi come valido consenso. Invece, riguardo al fatto che mancava una discussione preventiva con il paziente, i medici l’hanno motivato dicendo che, secondo il loro giudizio professionale, l’eutanasia corrispondeva comunque al “miglior interesse” del paziente (17%), e che, affrontarne l’argomento con il malato, sarebbe stato rischioso per il suo stato psicofisico (8,2%).
Il secondo studio[21] del CMAJ, dal titolo “Il ruolo delle infermiere nella morte assistita in Belgio”, ha rilevato che 248 infermiere, cioè un quinto circa di tutte le infermiere belghe, avevano praticato l’eutanasia, e che ben 120 di costoro l’avevano fatto senza il consenso espresso del paziente. Un dato segnalato anche da un altro studio[22] pubblicato il 5 ottobre 2010 sul British Medical Journal, che ha evidenziato come nel 41,3% dei casi di eutanasia non segnalati nelle Fiandre, la procedura fosse stata eseguita da un’infermiera in assenza di un medico, in palese violazione di legge. Lo studio ha anche rilevato la violazione circa l’obbligo di comunicazione delle morti per eutanasia all’organismo di controllo competente, mettendo in luce che solo il 52,8% di tutte le morti per eutanasia avvenute nelle Fiandre, erano state comunicate alla Commissione Federale di Controllo e di Valutazione.
Molte riserve sussistono in verità anche sulla reale capacità di monitoraggio di detta commissione, dubbi che sono stati sollevati il 13 giugno 2012 in una lettera pubblicata sulla Libre Belgique. Dopo aver ricordato le derive dell’applicazione della legge, e le minacce derivanti dallo “slippery slope” (“pendio scivoloso”) e dagli abusi, i firmatari hanno chiesto: “È ragionevole immaginare che un medico si autodenunci se non ha soddisfatto i requisiti di legge?”, e: “Si può dire che la legge sia rispettata?”[23].
Ma in Belgio si stanno affacciando scenari ben più foschi di quelli appena visti, basta vedere la denuncia fatta nel gennaio 2011 dall’avvocato Wesley J. Smith, quando dal suo blog ha richiamato l’attenzione sul controverso progetto presentato a dicembre 2010 da tre trapiantologi belgi. Durante un congresso sulla donazione e trapianto di organi, organizzato dall’Accademia Reale di Medicina del Belgio, i professori Dirk Ysebaert, Dirk Van Raemdonck e Michel Meurisse, hanno presentato l’intervento “Organ Donation after euthanasia. Belgian experience: medical & practical aspects”, in cui hanno proposto la definizione di linee guida per il prelievo di organi dalle persone morte per eutanasia. Il suggerimento è partito dopo che si è constatato che in Belgio, nel 2008, 141 persone su 705 (il 20%) ad aver scelto ufficialmente l’eutanasia soffrivano di disturbi neuromuscolari, un fatto che fa di costoro ottimi potenziali donatori vista l’“alta” qualità dei loro organi. In sostanza, si sono detti i professori: perché sprecare tale prezioso materiale biologico destinato alla decomposizione, quando potrebbe tornare utile per fronteggiare la penuria di organi da trapiantare? La proposta risulta ancor più agghiacciante se si considera che, come suggerisce il titolo della relazione presentata dai tre medici, si basa su una prassi già esistente. Sono almeno quattro, i casi menzionati dalla letteratura scientifica, di pazienti belgi ai quali sono stati espiantati gli organi dopo la morte per eutanasia. L’avvocato J. Smith aveva lanciato l’allarme già nel maggio 2010, denunciando[24] il caso di una donna belga affetta da sindrome “locked-in” che, dieci minuti dopo la morte indotta, avvenuta in presenza del marito e certificata da tre medici diversi, ha subìto l’asportazione di fegato e reni. “È un terreno molto pericoloso – ha commentato J. Smith -, reso ancora più infido da medici, coniugi e da una rispettata rivista medica, quello di avvalorare le idee che sia meglio essere morti che handicappati e che dei pazienti viventi possano, in sostanza, essere considerati una risorsa naturale da uccidere e sfruttare”[25]. “Il prelievo di organi da chi è stato sottoposto ad eutanasia – denuncia l’avvocato -, introduce la prospettiva assolutamente realistica per cui persone disperate a causa di una malattia terminale o di una grave disabilità (o, forse, semplicemente disperate) potrebbero aggrapparsi all’idea di essere uccise per consentire il prelievo dei loro organi, come un modo per dare un senso alla propria esistenza”[26]. Una volta aperta la porta all’eutanasia, il passo dall’omicidio del consenziente all’omicidio dell’indifeso è davvero breve.
Svizzera
Lo stesso trend di crescita del ricorso alla morte indotta, si è registrato pure in Svizzera, dove negli ultimi quattordici anni i suicidi assistiti sono lievitati del 730%, passando dai 43 casi del 1998 ai 257 del 2010, 305 del 2011 e 356 del 2012. In enorme crescita sono anche gli iscritti alle organizzazioni private di aiuto al suicidio. La Exit DS nel 1982 contava 69 soci, oggi sono più di 60mila, mentre Exit ADMD è arrivata a superare i 17mila[27]. La Dignitas conta più di 5mila membri, la maggior parte dei quali cittadini stranieri. A seguito della domanda crescente di richieste di aiuto al suicidio, dal 2001 i suoi assistenti hanno iniziato a percepire, oltre al rimborso spese, anche uno “stipendio” per l’opera prestata. I dati rilasciati dalla Dignitas indicano che dal 1998 al 2010 ha fornito assistenza a 1.138 persone, di cui 592 provenienti dalla Germania, 118 dalla Svizzera, 102 dalla Francia, 18 dagli Stati Uniti, 19 dall’Italia e 16 dalla Spagna[28]. Emilio Coveri di Exit Italia, ha detto che in totale sono circa una trentina gli italiani andati finora in Svizzera per suicidarsi: “diciotto erano stati informati di questa opzione da noi, gli altri si sono mossi da soli”. Tuttavia – precisa Coveri – “complice una maggiore informazione sull’argomento”, gli italiani emigrati per morire nel 2010 sono stati 2-3 al mese, con un trend in aumento.
In pratica sono saliti, non solo i suicidi assistiti dei cittadini svizzeri, ma anche il “turismo della morte”: nel 2003 le persone provenienti dall’estero per suicidarsi nelle cliniche elvetiche rappresentavano il 6,5% del totale dei suicidi assistiti, nel 2007 la percentuale era già salita di oltre tre punti, arrivando al 9,7%.
Coveri si compiace del fatto che, grazie ad una maggiore informazione sull’argomento, il numero di italiani che decidono di andare a morire in Svizzera sia in aumento, peccato però che, per esempio, non fa parte di questa maggiore informazione alcuna notizia circa il fatto che, nell’ambito dei suicidi assistiti, non è sempre tutto rose e fiori, poiché è presente una percentuale di complicanze e problemi di completamento che – come abbiamo visto -, rendono la morte assistita, invece che “dolce”, parecchio “amara”. E, parimenti, nulla si conosce delle procedure che si applicano nei confronti del suicidario quando questo genere di fallimenti si verifica.
C’è anche da rilevare che, in più di un’occasione, le associazioni private di aiuto al suicidio sono andate incontro a problemi o hanno creato scandalo a causa della loro condotta. La Dignitas, per esempio – rende noto[29] Swissinfo -, a causa della domanda crescente proveniente dall’estero, ha fatto ricorso anche a pratiche inaccettabili, che in Svizzera hanno prodotto numerose reazioni negative mai manifestatesi in precedenza. Per molti mesi l’associazione è stata costretta a frequenti traslochi[30], poiché i vicini mal sopportavano la continua visione delle bare e l’andirivieni delle pompe funebri, infatti, gli zurighesi saranno sì generosi nel votare a favore del “turismo della morte”, purché il tutto non avvenga nel proprio palazzo o quartiere, e si mantenga ben lontano dalla propria vista. Nel luglio 2007, dopo diversi anni di operatività in un appartamento del quartiere di Wiedikon, è così arrivato per la Dignitas la disdetta del contratto d’affitto. Nel 2004 costei aveva occupato anche un appartamento nel cantone di Argovia, ma siccome le autorità si mostravano molto puntigliose nell’inchiesta obbligatoria aperta dopo ogni decesso straordinario, aveva deciso di abbandonare questa sede continuando ad operare unicamente a Zurigo-Wiedikon. Dopo la disdetta, l’organizzazione affitta un appartamento nella zona residenziale a Stafa, sempre nel cantone di Zurigo, ma poco dopo arrivano puntuali le lamentele dei nuovi vicini, disturbati dall’alto numero di bare che escono dal posto, cui segue l’intervento delle autorità locali che fanno porre i sigilli all’appartamento. Ma la macchina dei suicidi è sempre in moto e non si può fermare, le richieste di morte abbondano e, con o senza sede, la Dignitas continua lo stesso l’accompagnamento ai suicidi, emigrando prima in un albergo di Winterthur, dove assiste clandestinamente alcune persone, e poi trasferendosi nella zona industriale di Schwarzenbach, nei pressi di un grande postribolo. Tuttavia, non potendo esercitare l’attività in questo luogo, si riduce a fare l’assistenza di nascosto, all’interno delle auto parcheggiate nei pressi di un bosco. All’interno dei veicoli muoiono, dopo l’ingestione del pentobarbital, un tedesco di 50 anni e, due giorni dopo, un suo connazionale 65enne. I fatti vengono alla luce e la Dignitas finisce sotto il fuoco di aspre critiche, sia da parte della Germania che della Svizzera, anche se il procuratore zurighese Jurg Vollenweider ha difeso l’operato dell’associazione, dichiarando che: “Chi desidera morire nella natura o nella sua automobile è libero di farlo”[31].
A marzo 2008 arriva, invece, l’indignazione del procuratore generale Andreas Brunner, che invoca la necessità di norme più chiare per l’assistenza al suicidio, quando i responsabili della Dignitas consegnano in procura i filmati di suicidi assistiti avvenuti con il gas elio.
Ma non finisce qui: ad aprile 2010 è già pronto un nuovo scandalo, quando due sommozzatori riportano a galla dal fondo del lago di Zurigo 13 urne funerarie individuate per caso durante un’immersione[32]. La polizia poi ne ripesca altre 22 e altre ne localizza in una zona del lago molto profonda. Su tutte le urne sono state tolte le placche di identificazione, perciò non è possibile risalire ai rispettivi defunti, tuttavia, dato che tutti i contenitori presentano il logo del centro di cremazione di Nordheim, lo stesso di cui si serve la Dignitas per la cremazione dei suoi “clienti”, i sospetti ricadono immediatamente su costei. Un’ex impiegata della clinica – rende noto[33] Euronews – comunica particolari inquietanti, raccontando che: “Il fondatore di Dignitas mi ha sempre detto che si sarebbero dissolte nell’acqua, che erano urne di argilla. La ragione di questo comportamento è economica: perché è molto costoso inviare queste urne all’estero e lui voleva risparmiare”. Euronews ricorda che già nel 2008 alcuni dipendenti della clinica erano stati colti in flagrante mentre versavano le ceneri in acqua, e che per questo motivo le autorità avevano deciso che la dispersione di resti umani nel lago è passibile di un’ammenda di circa 30mila euro. Del resto, il lago di Zurigo, essendo un luogo di svago, di balneazione e un serbatoio di acqua potabile, non è adatto a fungere da cimitero per i defunti sottoposti a cremazione.
La Dignitas non è l’unica clinica elvetica ad aver generato sdegno. A luglio 2007, Peter Baumann, della Verein Suizidhilfe, viene condannato dal Tribunale penale di Basilea Città a tre anni di carcere, due dei quali con la condizionale, perché tra il 2001 e il 2003 ha aiutato attivamente a morire tre malati psichici parzialmente incapaci di discernimento[34]. Secondo la corte, lo psichiatra ha agito per motivi egoistici, sperando così di ottenere un riconoscimento sociale dei suoi metodi, che i giudici hanno definito “disumani”: dopo aver somministrato dei tranquillanti ai pazienti, Baumann li soffocava mettendogli un sacco in testa. I giudici hanno criticato il comportamento negligente del condannato, e il presidente del tribunale ha sottolineato come costui abbia condotto diagnosi da dilettante e violato il suo dovere di diligenza.
Da più parti, nel corso degli anni, è stata invocata la necessità di regole più chiare e di notizie dettagliate circa i suicidi assistiti praticati, dei quali non si sa pressoché nulla. Nel 2006, la Commissione nazionale d’etica (CNE) ha chiesto che le organizzazioni di assistenza al suicidio siano meglio sorvegliate dallo Stato per fare in modo che rispettino delle precise esigenze etiche, e per proteggere i pazienti da eventuali abusi[35]. Nel 2007 il senatore democristiano Hansruedi Stadler, ha presentato una mozione – firmata da una trentina di senatori dei quattro partiti di governo -, in cui si chiedeva alla Confederazione di assumersi compiti di sorveglianza sulle organizzazioni che offrono assistenza al suicidio, per evitare abusi nei confronti di persone in situazione d’emergenza, poiché – ha scritto Stadler: “le finanze e la poca trasparenza di determinate organizzazioni continuano a dare adito a discussioni”[36]. Christoph Rehmann, presidente della CNE, ha richiesto una sorveglianza da parte dello Stato, sotto forma di obbligo d’annuncio, dato che le disposizioni contenute nella legge elvetica offrono “relativamente pochi appigli giuridici” per agire in presenza di casi di eutanasia dubbi dal punto di vista etico[37]. Mentre il presidente dei medici tedeschi, Jorg-Dietrich, quando a novembre 2007 è scoppiato lo scandalo dei pazienti tedeschi suicidatisi nelle automobili, ha affermato che l’attività della Dignitas è “un business celato dietro il pretesto dell’amore per il prossimo”[38]. Dietrich non ha tutti i torti, poiché se si moltiplicano i 1.138 suicidi assistiti praticati dalla Dignitas dal 1998 al 2010 per 8mila euro (il prezzo indicativo del servizio completo reso noto da Coveri), si ottiene un totale di oltre 9 milioni di euro! Della serie: come arricchirsi con la disperazione e la morte altrui.
Daniel Hell, professore di Psichiatria Clinica e direttore della clinica psichiatrica universitaria di Zurigo, ha reso noto che ormai in Svizzera un suicidio su cinque viene assistito, ma la proporzione sale fino a uno su tre per quel che riguarda Zurigo. Hell ha anche parlato della necessità di esaminare le motivazioni di coloro che accompagnano i pazienti al suicidio, poiché è eticamente ingiustificabile approfittare di una situazione d’indigenza o soddisfare dei gusti macabri verso la morte. Ci sono accompagnatori che realizzano fino a 38 assistenze all’anno, facendo del suicidio assisto un mero atto formale, se non addirittura un lavoro, i quali, benché la legge disponga che non si debbano trarre benefici dai suicidi assistiti, in realtà oggi incassano – puntualizza lo psichiatra – fino a 2mila franchi per suicidio. Per fronteggiare questo aspetto pericoloso, a novembre 2009 la ministra della giustizia Eveline Widmer-Schlumpf, ha parlato della necessità di introdurre delle linee guida, per impedire che l’assistenza al suicidio si trasformi in attività orientata al profitto. La ministra ha presentato un progetto di legge dove, tra le altre cose, si prevede che gli assistenti al suicidio non possano più accettare controprestazioni che superino i costi e le spese sostenuti per l’aiuto al suicidio. Nell’occasione ha anche precisato che questa forma di aiuto deve rappresentare soltanto “l’ultima via d’uscita”, ed “essere riservata unicamente ai pazienti in fin di vita e non ai malati cronici o psichici”[39].
In generale, il Rapporto del Consiglio federale del giugno 2011, ha indicato tra i possibili abusi nell’ambito dei suicidi assistiti: “aiuto al suicidio di persone incapaci di discernimento o in buona salute, fornitura di pentobarbitale sodico (NaP) senza prescrizione, o stoccaggio illegale di tale sostanza” e “attività destinate a trarne profitto”.
Ma non è ancora tutto, poiché in Svizzera, il radicarsi della “cultura della morte”, ha prodotto quell’altra gravissima conseguenza di cui abbiamo parlato, ovvero l’aumento dei suicidi nella popolazione generale, tanto che in Svizzera il suicidio è diventato la prima causa di morte fra i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni[40]. Il fenomeno sembra inarrestabile, ogni anno sono circa 1.400 gli svizzeri che si tolgono la vita, il doppio di quanti muoiono a seguito di un incidente stradale: una cifra che pone la Svizzera al di sopra della media internazionale. Secondo uno studio pubblicato nel 2005 dall’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP), una persona su dieci in Svizzera si è suicidata o ha tentato almeno una volta di suicidarsi. L’esperto di Diritto medico a San Gallo, Frank Petermann, ha parlato di “67mila tentativi falliti di suicidio” che “costano alla collettività circa 2,4 miliardi di franchi (2,35 miliardi di dollari) all’anno”[41]. Nonostante questo scenario gravissimo, i dati sui suicidi mancano, come ha denunciato Florian Irminger dell’associazione “Stop Suicide” di Ginevra: “La Svizzera è il paese più sviluppato dove non ci sono dati sui suicidi. È una situazione ridicola. È sorprendente, se si pensa che il suicidio è la principale causa di morte fra i giovani”.
Note:
[1] Leone Grotti, “Un bel posto per suicidarsi”, Tempi, 11 luglio 2012.
[2] Tim Ross, “Allowing assisted suicide would ‘pressurise disabled to kill themselves’”, www.telegraph.co.uk, 9 maggio 2011.
[3] Mattia Ferraresi, “La vita è un po’ cara”, Il Foglio, 20 settembre 2009.
[4] Tommaso Scandroglio, “Belgio, arriva l’eutanasia per Alzheimer”, www.lanuovabq.it, 20 dicembre 2012.
[5] Rodolfo Casadei, “Lucien Israel: ‘Scaricare il malato è eutanasia’”, www.tempi.it, 28 settembre 2011.
[6] Lucien Israel, Contro l’eutanasia, Lindau, Torino 2007, p. 86; citato da: Giuliano Guzzo, “Eutanasia, l’inganno dei ‘casi limite’”, Libertà e Persona, 1 marzo 2011.
[7] Rita L. Marker, “Assisted Suicide & Death with Dignity: Past, Present & Future”, Part II, www.patientsrightscouncil.org/site/rpt2005-part2.
[8] Jonathan Imbody, “Oregon report shows more assisted suicides, more secrecy”, www.lifenews.com, 24 marzo 2012.
[9] Johanna H. Groenewoud et al, “Clinical problems with the Performance of euthanasia and Physician-Assited Suicide in the Netherlands”, New Englan Journal of Medicine, 24 febbraio 2000, 342: 551-556. Citato in: www.patientsrightscouncil.org/site/rpt2005-part2.
[10] Amy Sullivan, Katrina Hedberg, David Fleming, “Legalized Physician-Assisted Suicide in Oregon – The Second Year”, 342 New Englan Journal of Medicine, 24 febbraio 2000, p. 603. Citato in: www.patientsrightscouncil.org/site/rpt2005-part2.
[11] “Washington State: seduced by Oregon’s big lie”, Update 046: Volume 22, Number 4 (2008), www.patientsrightscouncil.org/site/update046.
[12] J. Imbody, art. cit.
[13] Steven Ertelt – Olympia, WA, “Washington assisted suicides increase, 71 died in 2011”, www.lifenews.com, 14 maggio 2012.
[14] Www.patientsrightscouncil.org/site/update046, ibid.
[15] Charlie Butts, “Research: Assisted suicide increases other suicides”, www.onenewsnow.com 31 ottobre 2012.
[16] Gian Luigi Gigli, “Così si seda l’informazione (e l’eutanasia non fa più paura)”, Avvenire, 18 luglio 2012.
[17] Gian Luigi Gigli, “Sedazione: basta con gli equivoci”, Avvenire, 27 settembre 2012.
[18] Wesley J. Smith, “Continent Death: Euthanasia in Europe”, www.commonsenseissues.com.
[19] Gianfranco Amato, “La ‘dolce morte’ senza consenso: com’è facile essere uccisi in Belgio…”, www.ilsussidiario.net, 15 giugno 2010;
Paul De Maeyer, “Sui rischi legati all’eutanasia, il Belgio fa scuola”, www.zenit.org, 22 febbraio 2011, www.zenit.org/article-25675?I=italian.
[20] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20479044, 15 gennaio 2010.
[21] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20479043, 15 gennaio 2010.
[22] Www.bmj.com/content/341/bmj.c5174, 5 ottobre 2010.
[23] Citato da: Lorenzo Schoepflin, “Eutanasia: il Belgio scopre i primi ripensamenti”, Avvenire, 21 giugno 2012.
[24] Il caso è apparso su Transplantation, il giornale ufficiale della “Transplantation Society”.
[25] Citato da: P. De Maeyer, art. cit.
[26] Citato da G. Amato, art. cit.
[27] Sonia Fenazzi, “Vaud disciplina l’accompagnamento alla morte”, www.swissinfo.ch, 17 giugno 2012.
[28] “Dolce morte, Zurigo boccia il referendum. Suicidio assistito anche ai non residenti”, www.repubblica.it, 15 maggio 2011.
[29] Olivier Pauchard, “Aiuto al suicidio: una mozione per attenuare la polemica”, www.swissinfo.ch, 4 giugno 2008.
[30] Ariane Gigon Bormann, “A Zurigo l’assistenza al suicidio cerca casa”, www.swissinfo.ch, 4 ottobre 2007.
[31] Swissinfo e agenzie, “Dignitas suscita sdegno”, www.swissinfo.ch, 8 novembre 2007.
[32] Ariane Gigon, “Urne funerarie sui fondali del lago di Zurigo”, www.swissinfo.ch, 5 giugno 2010.
[33] “Svizzera: urne cinerarie in fondo al lago di Zurigo”, it.euronews.com, 29 aprile 2010.
[34] “Tre anni di prigione per assistenza al suicidio”, www.swissinfo.ch, 6 luglio 2007.
[35] Swissinfo e agenzie, “Più sorveglianza per l’assistenza al suicidio”, www.swissinfo.ch, 27 ottobre 2006.
[36] Andrea Tognina, “Permettere il suicidio assistito, ma senza abusi”, www.swissinfo.ch, 13 giugno 2007.
[37] Renat Kunzi, “Eutanasia: un medico di fronte al giudice”, m.swissinfo.ch, 4 luglio 2007.
[38] Swissinfo e agenzie, ibid.
[39] Urs Geiser, “Suicidio assistito: un esperto stronca il giro di vite”, www.swissinfo.ch, 3 novembre 2009.
[40] Adam Beaumont, “La Svizzera criticata per la passività rispetto al suicidio”, www.swissinfo.ch, 10 settembre 2007.
[41] Urs Geiser, art. cit.