Non c’è peggior cieco di colui che scientemente non voglia sforzarsi per vedere. O almeno per cercare di vedere meglio. Specie oggi che non mancano affatto gli ausili alla vista, in tutti i sensi della parola. Ma è anche vero che, come diceva il filosofo francese Jean Madiran (1920-2013), “quando c’è un’eclissi, tutto quanti siamo immersi nelle tenebre”.
Le tenebre di oggi si chiamano rifiuto dell’intelligenza, dell’analisi, della lettura realista (né ottimista-progressista, né conservatrice-pessimista) della società. E prima di tutto dell’orizzonte politico, sociale, economico ed esistenziale vissuto sulla propria pelle da parte del nostro popolo e della nostra gente.
Noi altri italiani siamo confrontati, ormai da decenni e con un ritmo invero crescente, ad una decadenza spettacolare dei costumi e della legalità, di cui i frequenti crimini su cui ricamano con godimento i media senza censura, sono solo la punta più visibile dell’iceberg. La stessa immigrazione di massa (incontrollata e colonizzatrice), e a sua volta causa di nuovi delitti e di nuove tragedie, è il segno di una debolezza sociale, culturale e politica ormai nota e innegabile.
Il recente saggio del duo Claudio Risé–Francesco Borgonovo (Vita selvatica. Manuale di sopravvivenza alla modernità, Lindau, 2017) enumera una preziosa serie di dati oggettivi, fatti di stime accertate, statistiche e alcune non difficili proiezioni come queste. Nel 2050, anno in cui milioni di persone già nate oggi saranno ancora in vita, la popolazione mondiale sfiorerà, salvo catastrofi precedenti imponderabili, i 10 miliardi di esseri umani, specie asiatici e africani. “I non bianchi saranno la maggioranza in Europa e negli Stati Uniti” (p. 13). Certo, il colore della pelle è secondario nella personalità di un uomo, ma il dato resta simbolico. O no?
La disoccupazione endemica crescerà per più motivi, ma anche a causa della tecnologia e della robotica che sostituiranno gli uomini in molte mansioni di fabbrica. Non pochi mestieri tenderanno a scomparire del tutto, specie i mestieri più arcaici, tradizionali e socialmente rassicuranti, come buona parte di quelli legati al mondo agricolo e all’artigianato, all’arte e al piccolo commercio al dettaglio.
Il caos, già onnipresente nei vari gangli della società europea, arriverà a un punto tale che perfino un insospettabile economista del sistema come Jacques Attali (1943) ha scritto che fra 30 anni il mondo “comincerà a decostruirsi sotto i colpi della globalizzazione. L’Africa di domani non assomiglierà perciò all’Occidente di oggi, sarà piuttosto l’Occidente di domani ad assomigliare all’Africa di oggi” (Breve storia del futuro, citato a p. 9).
Alcuni pensatori originali però, previdero fin dagli anni ’20 la crisi che stiamo vivendo. Si pensi ad Oswald Spengler (1880-1936) e al suo celebre Tramonto dell’Occidente (1923), ma anche ad altri autori meno noti come i brasiliani Gustavo Corçao (1896-1978) o Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995). Quest’ultimo, nel 1993, a due anni dalla morte, scrisse che “Se si cerca un denominatore comune nelle vicende della vita pubblica e privata di tante nazioni, si potrebbe dire che esso è il caos. Le prospettive caotiche sembrano moltiplicarsi sempre più tra di loro; si avanza sulla strada del caos, e nessuno sa con certezza fin dove” (R. de Mattei, Plinio Corrêa de Oliveira, apostolo di Fatima e profeta del Regno di Maria, 2017, p. 73).
D’altra parte, il rifiuto di analizzare la realtà coincide, né più né meno, con il rifiuto della scienza, in nome della fede.
La scienza è qui la conoscenza della realtà attraverso l’osservazione e l’analisi spassionata, a base di indagini, ipotesi e conclusioni. Conclusioni sempre perfettibili certo, ma mai del tutto inutili se hanno come punto di partenza la realtà, e non l’ideologia e i pregiudizi. La fede, in questo contesto, non è la fede religiosa, di tipo cristiano o altro. Ma la fede irreligiosissima nei miti umani più démodé come il progresso necessario e automatico, l’ottimismo modernista e filo-tecnologico, la visione dell’umanità fatta solo di “bravi ragazzi” e semmai di “incompresi”, e non di buoni e cattivi, onesti e disonesti, coraggiosi e vili, eroi e delinquenti.
Galileianamente e cartesianamente dovremmo fare ogni sforzo per conoscere la verità in ciò che ci riguarda necessariamente, specie quando si affastellano nel popolo idee diverse e contraddittorie su temi di importanza vitale.
Ad esempio: è bene o è male dare accoglienza a tutti i profughi del pianeta? E’ possibile o no accettare una ondata migratoria virtualmente illimitata come quella che ci si prospetta nei prossimi anni? Alcuni politici come Macron o intellettuali alla Saviano rispondono che sì, dobbiamo accettare accogliere ospitare e tacere. Altri sono assai più cauti e riservati. Alcuni pensano invece che con una immigrazione costante come quella attuale le nostre società arriveranno al collasso economico. Chi ha ragione? E chi ha torto?
Il nostro popolo palesemente si sta slabbrando, sta compiendo una corsa disperata e a tratti inconscia verso la propria morte per eutanasia. Poche nascite, divorzi e separazioni che superano i matrimoni, decadenza dell’istituzione scolastica, violenza videodipendenza e dilagante alcolismo come dati ormai acquisiti e banalizzati presso i nativi digitali (si veda in tal senso, Carlo Casini, Vita nascente, prima pietra di un nuovo umanesimo, San Paolo, 2017)
I nemici della civiltà però non sono i migranti come tali, e meno che mai i (veri) profughi, che tentano una via di salvezza, magari con le migliori intenzioni di inserimento sociale e di vivere con dignità.
Ma le guide “spirituali” dell’Europa e dell’Occidente – le Boldrini, gli Schulz, i Macron – davanti alla situazione tremenda in cui si trovano popoli di antica civiltà come l’italiano, il tedesco e il francese, cosa fanno? Organizzano, come possono, nuove caccie alle streghe, dove le streghe redivive sono il fascismo, il populismo, i difensori della famiglia tradizionale (e costituzionale), e tutti coloro che mantengono uno sguardo critico verso l’andamento della società di questo primo scorcio del XXI secolo.
“La Rivoluzione non ha bisogno della scienza” sembra che si disse, da parte dei più feroci giacobini, nell’atto di condannare a morte il grandissimo chimico e biologo francese Antoine de Lavoisier (1743-1794), colpevole solo perché di origini nobiliari e non assimilabile al nuovo corso terroristico della politica rivoluzionaria.
Anche in quel caso, la fede ideologica di un Jean-Paul Marat (1743-1793) e di un Robespierre (1758-1794), fu la causa della censura verso un uomo di raro valore come Lavoisier. Ma la storia, nel sangue che ne è il segno più emblematico, sembra doversi ripetere.
La fede laica nella democrazia, nel progresso e nel futuro sopprime le analisi ponderate, ancorché sgradite, della realtà. E se la fede cancella la conoscenza, chi mai potrà dirci come stanno esattamente le cose? La scienza non è mai stata scalzata dalla fede cristiana, al contrario di quanto si afferma in testi di storia manichei e ideologici (si vedano in proposito i libri di Giorgio Israel e di Rodney Stark). Ma la fede irreligiosa delle élite senza patria di oggi, essa sì rappresenta un pericolo senza precedenti per l’intera umanità.