Tra le virtù personali che sarebbe bene imparare a praticare nella vita di tutti i giorni, per il bene di se stessi e degli altri, se ne trovano tre abbastanza particolari: l’umorismo, la follia e la fantasia. Ora, qualcuno potrebbe obiettare: passino pure l’umorismo e la fantasia, ma la follia, siamo sicuri che sia un pregio? Ebbene sì, anche se a prima vista può sembrare strano, ma quando si entra nel campo dell’amore e nel mistero della Croce anche la follia può essere considerata una virtù. Non è un caso che, tra i campioni in questa terna di virtù (follia inclusa), troviamo moltissimi Santi della Chiesa cattolica e i cosiddetti “folli in Cristo” o “pazzi in Cristo” della tradizione orientale, che con il loro comportamento ci mostrano come esse vadano intese e messe in pratica. Immergiamoci perciò alla scoperta di queste tre singolari virtù!
UMORISMO
Le caratteristiche dell’umorismo
Padre Giovanni Cucci, professore di Filosofia e Psicologia all’Università Gregoriana di Roma, scrive che “l’umorismo richiama alcune fondamentali azioni specifiche della vita umana in quanto tale, come il gioco, il riso, la fantasia, l’immaginazione, elementi tutti che hanno a che fare con la dimensione creativa, gratuita, ludica e anche nascosta dell’esistenza: alla base dell’umorismo si trova infatti un significato velato che va scoperto, intuito, ma che non potrebbe essere semplicemente ‘spiegato’, perché lo banalizzerebbe, rovinandolo”.
Nell’umorismo vi è perciò indubbiamente un elemento artistico “perché chi fa una battuta esprime ciò che in teoria era percepibile da tutti ma che di fatto viene colto soltanto da chi è dotato di questo sguardo, acuto e penetrante” mediante il quale riesce a “indicare la presenza di qualcosa di nuovo, inaspettato, eppure da sempre sotto gli occhi di tutti”. Ebbene, “questa capacità di rilevare qualcosa che altri non vedono è propria dell’artista, per questo l’umorismo presenta un legame forte con la creatività, l’arte e la genialità; in poche battute si elabora una briciola di sapienza, una piccola summa del sapere, una perla di saggezza”. Ma, creatività, genialità, sapienza, saggezza sono tutte caratteristiche che denotano anche intelligenza, per questo si può dire che anche quest’ultima rappresenti un elemento chiave dell’umorismo, infatti – osserva Cucci – la “capacità di penetrazione della realtà, mostra come l’intelligenza costituisca un aspetto essenziale dell’umorismo, perché è in grado di leggere tra le righe ciò che capita”.
Oltre all’elemento artistico, l’umorismo presenta inoltre un elemento “contestativo”, nei confronti di una situazione di cui si è scontenti o di chi ci ha deluso o fatto soffrire, ma non per denigrare, colpevolizzare, incriminare, bensì per trarne una sorta di consolazione personale, per ridimensionare l’accaduto e allentare la tensione. “Il rovesciamento della situazione data – scrive Cucci – costituisce anche una specie di rivoluzione auspicata sovvertendo uno stato di cose insoddisfacente”. Da questo punto di vista, “l’umorismo può essere considerato come una maniera alternativa di vedere il mondo e la vita, soprattutto di fronte a realtà che potrebbero preoccupare diventa un invito ad allentare lo stress”. Fare una battuta di spirito diventa così “un invito a sdrammatizzare le difficoltà della vita, o a prendersi una bonaria rivincita prendendo in giro chi ‘conta’ e ci ha fatto soffrire”. Non è un caso che – osserva Cucci – “la varietà più ricca di battute e storielle di genere umoristico appartenga alla cultura ebraica: si pensi alle storielle hiddish, ma anche ai proverbi biblici… Probabilmente è stata la particolare situazione di sofferenza e separazione che ha caratterizzato il popolo ebraico, uniti alla sua proverbiale genialità, a costituire uno stimolo in questo senso e forse anche una maniera di consolarsi”.
Equilibrio tra spontaneità e riflessività
La virtù – come dice Aristotele – è una medietà tra due vizi, uno per eccesso e uno per difetto. Il coraggio, per esempio, si trova tra l’avventatezza da una parte e il timore dall’altra. O, per fare un altro esempio, la generosità sta in mezzo all’avarizia, da un lato, e alla prodigalità dall’altro. Questo vale ovviamente anche per la virtù dell’umorismo che, per essere tale, deve essere esercitato con equilibrio. L’umorismo è un delicato equilibrio tra spontaneità e riflessività, come spiega William F. Fry nel suo “Una dolce follia”: “Il gioco e l’umorismo ci offrono l’opportunità di esercitare la capacità di equilibrio. Imparare a giocare e a scherzare (a fare un po’ i buffoni o a raccontare indovinelli) ci dà la possibilità di acquisire una certa abilità nel mantenere l’equilibrio fra questi due stati antitetici come la spontaneità e la riflessività. Quando questo equilibrio è stabile, la spontaneità del processo di vita in corso non viene paralizzata dal distacco della riflessività, e l’autocontrollo non si perde in una spontaneità isterica”.
Cucci spiega che l’umorismo è sicuramente caratterizzato da “una modalità offensiva, pungente, come accade nella satira”. Se la satira “è sfumata denota intelligenza e genialità, ma quando diventa grossolana e superficiale rasenta il volgare”, in questo caso l’equilibrio scema in “spontaneità isterica”, come direbbe Fry, cioè irritante, incontrollata, esaltata, labile… L’umorismo richiede perciò “una certa dose di immediatezza, di ‘lasciarsi andare’, ma non troppa!”. Ma l’umorismo scema anche se prevale l’opposto dell’immediatezza, cioè la riflessività, il controllo, l’eccessiva serietà: “Chi si controlla troppo, chi si osserva con troppa serietà, difficilmente trova motivi per sorridere”.
Chi prende tutto sul serio
La persona sprovvista di umorismo la riconosci subito: prende tutto sul serio, spesso superba, se sorridi pensa che la stai prendendo in giro, una battuta scherzosa o fatta per sdrammatizzare la situazione viene unicamente vista come un attacco alla propria dignità da cui difendersi con una reazione aggressiva, incapace di ridere al massimo sogghigna, rigida, deve avere tutto sotto controllo… quanta fatica e quanta pesantezza nel relazionarsi con chi prende tutto sul serio! Cucci scrive: “Ci sono purtroppo persone sprovviste di senso dell’umorismo, che prendono tutto sul serio, e ogni cosa diventa con ciò terribilmente drammatica; c’è in esse come una forma di ristrettezza mentale che impedisce di vedere le cose in una maniera diversa, la maniera propria del meccanismo dell’umorismo. È come se si manifestasse, di fronte alla battuta di spirito, un problema di tipo cognitivo, ragione per cui la battuta viene considerata un attacco alla propria dignità”. Quindi, citando S. Rendina (“Ignazio di Loyola e lo Humor”), aggiunge: “Per questo parliamo di calore dell’umorismo in opposizione alla freddezza e all’acredine dell’ironia, del cinismo, del sarcasmo. Vi è invece mancanza di umorismo là dove l’uomo prende troppo sul serio le debolezze e le miserie della realtà, soprattutto quelle del prossimo […]. Chi sa sorridere senza prendersela troppo per qualche contrarietà o qualche occasione di disappunto, non rimane prigioniero di eventuali tensioni: se le risparmia o in ogni caso sa scaricarle innocentemente prima che si accumulino”.
Senza contare poi che un sano umorismo ha effetti benefici, non solo nei rapporti con gli altri, ma anche sulla propria salute mentale e fisica: “Il senso dell’umorismo contribuisce in modo importante anche all’equilibrio psichico della persona e giova alla salute fisica – scrive Cucci -. Di fatto il sorriso scaccia l’ansia e comporta precise reazioni somatiche nell’organismo, come l’aumento di dilatazione dei vasi sanguigni, con effetti sulla circolazione, sull’umore di fondo, sulla qualità delle relazioni, sulla vitalità in genere e perfino sulle malattie; l’ansia porta invece a reazioni esattamente opposte. Emerge di nuovo la medesima polarità: senso dell’umorismo ed elasticità da una parte, e serietà estrema, aggressività e rigidità dall’altra”. Essere provvisti di umorismo denota elasticità mentale e quindi anche capacità di mettersi in discussione e di cambiare, al contrario la persona priva di senso dell’umorismo, poco elastica, estremamente seria e rigida “vede le cose solo in una cornice di riferimento molto ristretta, e perciò non è capace di cambiare (G. Bateson ‘L’umorismo nella comunicazione umana’)”.
L’umorismo è inoltre strettamente collegato alla virtù dell’umiltà: “Dal punto di vista spirituale – continua Cucci -, diventa espressione basilare di umiltà, una maniera cioè di non prendersi troppo sul serio, di saper ridere di se stessi e dei propri difetti, scherzandoci sopra, imparando a sdrammatizzare, sempre a ragion veduta (qui sta l’intelligenza dell’umorismo, esso non è negazione o svalutazione a buon mercato), ciò che sta capitando”. Da questo punto di vista “l’umorismo costituisce un fondamentale atto di verità, perché osserva con simpatia situazioni e cose, ne evidenzia i limiti e le fragilità ma senza con questo toglierne la stima di fondo”. Ma se l’essere provvisti di senso dell’umorismo è indice di umiltà, non averne e prendere tutto sul serio denota valutazione eccessiva delle proprie qualità e capacità, comportamento altezzoso e sprezzante, cioè superbia: il primo dei sette peccati capitali. Nel suo “L’umorismo nella Bibbia” R. Poudier scrive: “Chi si prende sul serio fa di sé un assoluto e fatica a tollerare l’humor che minaccia la sua corazza, il colpo di spillo che sgonfia il suo ‘pallone’”.
Umorismo è anche accoglienza dell’altro, comunione. A tale proposito Cucci scrive: “L’umorismo accolto, nel senso letterale di ‘stare al gioco’, è un segno di libertà, di capacità di uscire dai propri schemi ed entrare in relazione con l’altro, mentre una serietà ostentata può diventare freddezza ostile e rigidità. In questo senso si può capire il rimprovero che Gesù rivolge a ‘questa generazione’ perché incapace di giocare, di arrendersi, di entrare in un’altra prospettiva e di coinvolgersi di fronte alla proposta”. In Mt 11,16-17 Gesù racconta appunto la mini-parabola dei ragazzi che si sono rifiutati di partecipare al gioco: “Ma a chi paragonerò io questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: ‘Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto’”. Cucci spiega che qui “Gesù ricorre proprio all’immagine del gioco per dipingere la situazione di chi trascorre la giornata, la vita intera semplicemente restando a guardare ai margini, senza occupare il proprio posto, e per di più mettendosi a criticare. Il gioco rivela qui la sua funzione terribilmente seria, smascherando la tristezza di chi non ha voluto rispondere all’invito ad entrare in comunione, a collaborare ad un comune progetto, rivelando una passività piena di altezzoso giudizio. Con il loro rifiuto quei bambini hanno tolto a tutti la possibilità di giocare, la loro apparente serietà, che in realtà nasconde pigrizia e ostilità, ha mandato all’aria il gioco dei propri compagni. È il rischio terribile ma tutt’altro che infrequente di trascorrere la vita come spettatori di fronte ad una partita che riguarda altri, limitandosi a sabotarla”. Ora, continua Cucci, “restare a guardare senza agire può certamente garantire da possibili rischi, ma dall’altro risulta fortemente frustrante e lascia un sentimento di inutilità nei confronti della propria vita, trascorsa come se non si fosse mai esistiti”. Contro questo “senso di inutilità dell’esistenza consumata, senza un significato in grado di riscattarla” viene in aiuto l’umorismo con “la sua preziosa lezione” che ci dice che “non si può vivere senza rischio, senza in qualche modo giocarsi, ma anche senza prendersi troppo sul serio, accettando di entrare in un mondo più grande di noi”.
Umorismo e unicità della persona umana
L’ultima caratteristica dell’umorismo evidenziata da Cucci appartiene all’ordine specificatamente antropologico. L’umorismo “a livello antropologico dice qualcosa di unico circa la specificità corporea e spirituale dell’essere umano. La stessa manifestazione del sorriso rivela qualcosa di speciale ed esclusivo della persona umana, che lo distingue da ogni altro essere vivente, perché egli è l’unico capace di sorridere. Ridere sembra essere un gesto banale, è questione di pochi centimetri della pelle, un semplice riflesso muscolare, eppure in esso si concentra l’intera persona in tutta la sua modalità unitaria di spirito e corpo, che interagisce con un significato cifrato”. Tra tutte le creature, l’uomo è l’unico “capace di riso, di sorriso” – ribadisce in altre parole lo scrittore –, perciò “l’elemento comico della vita, con i suoi imprevedibili risvolti, esprime in maniera efficace anche il mistero e l’unicità della persona umana”. Il sorriso fa perciò dell’uomo “un unicum che lo contrassegna tra gli altri esseri viventi presso i quali non è possibile trovare analogie”. Questo piccolo gesto, apparentemente insignificante, “suggerisce che lo sviluppo umano presenta fin dal suo primissimo sorgere una chiara connotazione cognitiva ed affettiva nel suo rapporto con l’ambiente: la stessa scimmia, il mammifero più vicino all’uomo sotto tanti aspetti, non conosce un’espressione tipicamente umana come il sorriso, essa al massimo può digrignare i denti, una ben grottesca imitazione rispetto al ridere”.
Quindi, dal punto di vista antropologico – conclude Cucci -, l’umorismo risulta essere l’elemento più efficace per confutare la visione dualista dell’uomo che sostiene la separazione tra corpo e mente (anima), infatti, proprio “il riso, come manifestazione somatica e spirituale insieme, riassume efficacemente le relazioni tra la mente ed il corpo e ne mostra la stretta unità”. Da questa prospettiva “la capacità di ridere di fronte ad una battuta diventa così anche la smentita più efficace della concezione antropologica dualista che l’epoca moderna ha assunto come verità indiscutibile da Cartesio in poi”.
Quindi, per riepilogare, l’umorismo è una virtù importante nella vita di una persona: è un segno di intelligenza, di sapienza, di creatività, di capacità relazionale, di umiltà, di conservazione della salute fisica e psichica di fronte ai problemi. Ora, benché non tutti possano essere campioni nel confezionare battute divertenti e ricche di sapienza, o dotati di quel particolare sguardo acuto e penetrante che riesce a cogliere e indicare qualcosa di nuovo e inaspettato, qualità proprie dell’artista che attengono ai talenti personali, ognuno può però imparare a non prendersi troppo sul serio, a sorridere dei propri limiti e miserie, a togliersi quell’espressione perennemente severa e accigliata dal volto come se le sorti del mondo fossero tutte sulle proprie spalle, a giocare e a mettersi in gioco non riducendosi a fare solo il sabotatore come i giovani della parabola di Gesù che hanno rovinato la giornata a tutti.
Imparare la virtù dell’umorismo ci permetterà di migliorare la nostra vita e quella di chi ci sta intorno, ma non solo, ne trarrà giovamento anche il nostro rapporto con Dio. “Questa fondamentale capacità di prendere le distanze e di padroneggiare un problema senza perdere il controllo di sé diventa anche un aiuto prezioso per la stessa relazione con Dio” osserva Cucci, mentre si appresta a sviluppare la profonda correlazione che intercorre tra umorismo e vita spirituale. A tale proposito egli osserva: “La persona che tende a drammatizzare tutto in fondo si crede il centro del mondo e ritiene che tutto sia affidato alle sue forze, e questo può avere conseguenze terribili, forse peggiori dei problemi che poi effettivamente capitano, perché toglie la speranza, che è il cuore ed il respiro della vita. Di fronte alle difficoltà è un atteggiamento saggio, invece di strapparsi le vesti, chiedere luce al Signore per imparare a vedere le cose come le vede Lui. Questo può essere l’aspetto educativo dell’umorismo di Dio”.
L’umorismo nella Bibbia
L’umorismo, quindi, “contrariamente ad una certa visione ‘seria e castigata’ della vita religiosa”, può costituire secondo Cucci “un elemento prezioso per una vita sana ed equilibrata anche dal punto di vista spirituale, perché ha molto a che fare con il gratuito, la creatività, l’intelligenza, tutte componenti indispensabili anche per il rapporto con Dio”. In questo senso “l’umorismo può diventare ingrediente prezioso per il cammino spirituale, aiutando ad operare cambiamenti, a migliorarsi, ad apprezzare maggiormente la propria vita”.
Non è infatti un caso che – nota Cucci – “nella Bibbia ci siano stretti collegamenti con l’umorismo: si pensi ai libri sapienziali, al racconto, al proverbio, alla creatività e all’intelligenza, al gusto e alla curiosità di sapere, tutte modalità volte a osservare il mondo con atteggiamento divertito, anche un po’ folle, e tuttavia estremamente sano dal punto di vista dell’equilibrio interiore e della capacità di vivere relazioni vere e profonde”.
Nella Bibbia l’umorismo “compare anzitutto in ‘negativo’, smontando la presunzione della sapienza umana, qualora voglia mettersi al posto di Dio, a livello politico, economico, sociale, tecnologico, e religioso. Tutte queste modalità sono una forma di idolatria che rinnega il Dio vivente e contro cui si scaglia il pungente sarcasmo dell’autore biblico che ride vedendo andare in frantumi questa sapienza illusoria”. Nel Vecchio e nel Nuovo Testamento “l’umorismo si incarica anzitutto di smontare i maestosi progetti dell’empio, la seria dialettica del superbo, la pomposa grandezza piena d’aria del fariseo”. Nell’Antico Testamento in particolare “Dio viene spesso ritratto nell’atto di divertirsi a smontare i piani seri dell’empio. Presso l’Onnipotente il riso diventa sede di giudizio della stoltezza di chi ha smarrito il timore di Dio e costruisce castelli in aria che crollano al primo soffio”. A riprova di questo, Cucci cita come esempi: il riso beffardo i Jahvè di fronte all’illusoria potenza del re di Assira, l’episodio di Nm 22,33 là dove Dio fa parlare l’asina di Balaam, il libro di Giona che può essere riletto tutto in chiave umoristica.
Ma nella Bibbia – aggiunge Cucci – si trova anche un altro tipo di umorismo: “L’umorismo affabile e intelligente, che sa trovarsi a casa propria anche nei confronti di Dio. Questo sguardo di simpatia sul mondo nasce dalla consapevolezza riconosciuta della contingenza delle cose, portando allo stupore, cioè a non dare per scontata l’esistenza propria e degli altri esseri. E a sua volta lo stupore costituisce un sentimento fondamentale che si trova alla base dell’umorismo, ma anche della sapienza, della filosofia e della religione; infatti è proprio perché non siamo Dio che possiamo guardare al mondo con bonarietà e riconoscere una intelligenza più grande della nostra”. Per spiegare meglio questa sorta di umorismo affabile e intelligente, Cucci cita il seguente pensiero di L. Boros, (“Il Dio vicino”): “L’umorismo nasce dalla rassegnata consapevolezza che ogni realtà terrena è imperfetta. Ma tale rassegnazione sfocia a sua volta nella certezza che il finito è immerso nella grazia di Dio. Perciò l’umorismo si rivela come pietà e amore verso il mondo proprio là dove più chiaramente appare la sua insufficienza e stoltezza. Colui che ne è veramente dotato ama il mondo nonostante la sua imperfezione, anzi proprio in essa. L’amore che l’umorista ha per il mondo è gioia di esistere, riconoscenza a Dio per poter vivere in questo mondo imperfetto”.
Prendere atto della propria reale limitatezza e insufficienza, riconoscere che non è possibile fare affidamento solo sulle proprie forze e quindi capire di aver bisogno di Altro, può aprire le porte della fede. Cucci scrive: “La contingenza manifestata dall’umorismo, che evidenzia misteri ed enigmi, può così offrire una apertura alla fede, mettendo in ridicolo l’assurdità di una sapienza soltanto umana”.
Umorismo e vita spirituale
Quello che abbiamo visto fin qui ci spiega perché l’umorismo risulti prezioso anche per la vita spirituale e il rapporto con Dio. A livello spirituale – spiega Cucci – l’umorismo “diventa un invito alla penitenza, guardandosi anzitutto dal rischio, sempre tragico, di considerarsi indispensabili e troppo importanti per poter sorridere di ciò che capita nella vita: i dittatori mancano di senso dell’umorismo, con conseguenze disastrose, perché troppo pieni di se stessi. In secondo luogo insegna a non dimenticarsi di Dio, e a lasciarlo agire nella propria vita. Spesso l’uomo si erge a giudice dell’universo e vorrebbe insegnare a Dio come dovrebbe fare il suo lavoro, e in questo modo si dimentica di fare il proprio: quando si vuole mettere a posto l’universo non ci si accorge più del vicino che ha bisogno di noi. Dio è capace di fare il proprio lavoro e non ha bisogno che glielo spieghi l’uomo”.
Riconoscere i propri limiti e difetti, prenderne atto con ironica comprensione è il primo passo per migliorarsi, per cambiare in meglio, infatti, “vivere la realtà con umorismo non è un modo di ignorare i problemi e le difficoltà, significa invece imparare a sdrammatizzarli, e questa è una condizione essenziale per affrontarli e superarli. Il riconoscimento dei propri limiti, quando è fatto con bonaria ironia, costituisce il primo passo fondamentale per accettarli e vivere diversamente… Una visione scanzonata di sé non porta necessariamente al lassismo, anzi è una maniera, come ricordava Molière, di notare il lato ridicolo dei propri vizi e dunque una spinta a correggersi”.
Dal punto di vista spirituale, inoltre, l’umorismo “favorisce l’umiltà che è la caratteristica propria dell’intelligente, di colui cioè che conosce i propri limiti (chi ha studiato è sempre più consapevole della propria ignoranza!) e ha imparato a non gonfiarsi inutilmente, contro la pretesa stolta di avere capito tutto della vita. L’umiltà intesa come verità di sé diventa invito a ritrovare il proprio posto nel mondo, evitando la tentazione tragica di mettersi al posto di Dio”.
Umorismo, intelligenza ed umiltà – prosegue Cucci – “sono fra loro strettamente legati: non è un caso che il superbo, il narcisista, chi è pieno di sé, sia solitamente privo di senso dell’umorismo: tutto appare troppo serio per poterne sorridere. La figura-simbolo che il Vangelo pone continuamente sotto gli occhi è quella del fariseo, solitamente cupo, molto attento ad osservare la legge ma che non sa più godere della sua vita, smarrendo in questo modo anche il senso della stessa legge; la fatica che tutto questo gli costa lo lascia pieno di risentimento e di disprezzo per gli altri”. “La Bibbia – aggiunge Cucci – invita il credente ad imparare a ridere di se stesso, perché non deve avere paura delle proprie debolezze e miserie, egli è libero dalla preoccupazione di nasconderle, di apparire migliore di quello che è, libero dunque dal giudizio degli altri, dal vano orgoglio che tanto fa soffrire e impedisce di sorridere delle proprie piccinerie, mettendosi un vestito troppo stretto che non consente di respirare. L’umorismo è un segno di libertà e di verità verso se stessi, perché si è consapevoli che la propria stima viene da un Altro”.
L’umorismo, infine – conclude Cucci -, è “un ingrediente importante anche per l’equilibrio e l’efficacia apostolica: come potrebbe la gente credere alla buona notizia che è il Vangelo, quando coloro che lo proclamano mostrano sempre un volto triste e oppresso dai problemi? Coglie qui nel segno il sarcasmo pungente di Nietzsche, il quale, in ‘Così parlò Zarathustra’ critica i cristiani come nemici della vita e in fondo ipocriti, perché il loro volto triste mostra che in realtà essi non conoscono la gioia di cui parlano: ‘Bisognerebbe che essi mi cantassero dei canti migliori, perché io imparassi a credere nel loro Salvatore! Bisognerebbe che i suoi discepoli avessero più aria da gente salvata!’. La mancanza di umorismo e di gaiezza può diventare per il credente una controtestimonianza”. E noi, che testimonianza stiamo dando della nostra fede? Quella cupa e piena di sé del fariseo o quella gioiosa di salvati tipica dei santi?
FOLLIA
Trascendenza e fede
Vediamo ora in che senso la follia possa essere considerata una virtù. Cucci scrive: “Berger ipotizza un possibile legame tra umorismo e religiosità a proposito della tematica della follia e dell’assurdo: essi mostrerebbero non l’assenza di senso o di motivazioni, ma un altro mondo, dove le leggi dei seri vengono ridicolizzate, ma non per questo è venuta meno la vita, lo spirito, il rapporto con Dio, anzi esso sembra costituire il suo luogo più adatto; l’assurdo sarebbe in altre parole la rappresentazione artistica più adeguata della trascendenza”, cioè di ciò che supera i limiti dell’esperienza sensibile, che si pone al di fuori della realtà oggettiva, che va “oltre”, va “al di là”.
Se da una parte “l’assurdità sembra essere il luogo di negazione della logica della ragionevolezza del senso, e dunque un ritorno al caos che nega l’armonia della creazione”, dall’altro lato essa “può invece costituire una finestra che guarda ad un mondo differente, un mondo che, come nelle geometrie non euclidee o nello spazio a quattro dimensioni conosce altre leggi, che non si possono tra loro comparare; esse infatti mostrano un mondo che ‘funziona’ in un’altra maniera, con modalità tutte proprie ed espresse ad esempio, dalle pagine e dai gesti paradossali dei poeti, degli artisti, dei mistici, dei folli, dei santi”. Quindi, l’assurdo, “inteso come sordità della ragione, può certamente togliere possibilità alla vita di fede, può scandalizzare”, ma “se si ha il coraggio di entrare nel suo bizzarro universo” esso “può anche comportare un suo più profondo rimando” e indicare “un mondo ‘altro’, altro da quello della logica ferrea e seria del chiaro e distinto”.
Se prendiamo, per esempio, le verità rivelate della fede cattolica come la maternità verginale di Maria, Dio che si incarna, il mistero della Santissima Trinità, la resurrezione dei corpi, la vita dopo la morte e i suoi novissimi (inferno, purgatorio, paradiso), la follia della Croce, il valore salvifico della sofferenza, il dolore innocente, il mistero dell’Eucaristia … vediamo che per essere comprese l’intelletto non basta, la logica e il mero ragionamento sono insufficienti per afferrarle. Chi tra i credenti non ha sperimentato sulla propria pelle, almeno una volta nella vita, risa e derisione per questi “misteri” del cristianesimo, da parte di chi non riesce e non vuole vedere oltre il proprio naso, non vuole prendere in considerazione la possibile esistenza di un orizzonte Altro, da chi pensa che la fede sia una cosa totalmente irrazionale, buona solo per gli sciocchi e i creduloni? Ma la fede, l’abbandono fiducioso a Dio, la sequela di Cristo, non negano affatto la ragione. Queste peculiarità del cristianesimo possono sì sembrare una pazzia da parte di chi la fede non ce l’ha, ma non sono irrazionali. La fede è assenso dell’intelletto alle verità rivelate, è una follia ragionevole. “Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani – scrive san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi -; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini”.
L’abbandono fiducioso è l’atteggiamento tipico dei bambini: il bambino si fida totalmente dei suoi genitori, vive di fede e di fiducia in loro, si abbandona a coloro che lo guidano e lo amano. Così, osserva Cucci, “rinunciare alla serietà della logica come unico criterio della vita può essere una maniera di ritornare bambini ai quali, come dice il Vangelo, appartiene il Regno di Dio”. E può condurre ad aprire la porta della fede: “Si crede proprio perché il mondo non basta, perché le ragioni che troviamo in esso non ci convincono, anzi deludono; per vivere bisogna per forza raggiungere qualcos’altro rispetto a ciò che si vede e si sente”. È perciò in vista della trascendenza e della fede che la follia può essere considerata una virtù.
A proposito della follia di Dio che si fa uomo per finire ucciso sulla croce e di tutti i pazzi della storia che si sono messi alla sua sequela, Olivier Clément, scrittore e teologo ortodosso, nell’introduzione a: Irina Goraïnoff, I Pazzi in Cristo nella tradizione Ortodossa (Ancora, Milano), scrive:
Il tema dell’amore “folle” di Dio affiora dovunque nel Nuovo Testamento. Se la creazione rivela la sapienza di Dio, l’incarnazione per la nostra salvezza rivela il suo amore pazzo per noi. Il Crocifisso per amore è il segreto di ogni follia. Il Dio incarnato discende nella morte per prendere tutti gli uomini nella follia del suo amore. Con gli occhi bendati, schiaffeggiato, schernito, coperto di sputi, rivestito di una porpora da beffa, coronato di spine, re per burla, ecce homo, ecce deus: un pazzo in verità!
Il “pazzo in Cristo” è l’uomo che risponde con tutto il suo essere alla follia di Dio, che entra anche lui nella «stoltezza della croce», che diventa pazzo per amore di Cristo. «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1, 23). «Ciò che nel mondo è stolto, Dio l’ha scelto per confondere i sapienti» (1 Cor 1, 27). «Noi siamo stolti a causa di Cristo» (1 Cor 4, 10). Per questo «insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti» (1 Cor 4, 12-13).
Il pazzo in Cristo s’identifica con Cristo oltraggiato, crocifisso, eppure risorto: egli vive già nel Regno e denuncia l’orgoglio, l’odio e la menzogna di “questo mondo”. Prende alla lettera le Beatitudini e il Discorso della montagna, tutta quella insopportabile follia: la terra donata ai miti, la gioia ai perseguitati e I’ offrire la guancia sinistra quando siamo colpiti sulla destra, in tre parole: amare i nemici. Il pazzo in Cristo rivela possibile l’impossibilità del cristianesimo.
[…] il pazzo è il Cristo oltraggiato e, simultaneamente, il Risorto, libero da ogni compromesso col mondo, e «completa nella (sua) carne quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24).
Il folle “comandamento nuovo” di Gesù
Dopo il “comandamento nuovo” di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35), la follia è entrata a pieno titolo nella rosa delle virtù da perseguire. Cerchiamo di capire perché.
“L’amore per essere equilibrato ha bisogno di un pizzico di follia”, scrive Alessandro Pronzato, nel suo “Alla ricerca delle virtù perdute”. Sembra proprio un bel paradosso: come può una cosa squilibrata dare equilibrio a qualcos’altro? L’amore, scrive Pronzato, “si apparenta alla follia. Per amare veramente occorre uscir fuori di sé, rinunciare ad amministrare giudiziosamente la propria vita, smetterla di fare calcoli prudenti, e seguire una logica che non è quella del senso comune. Dice Michel Quoist: ‘L’amore è una strada a senso unico: parte sempre da te per andare verso gli altri. Ogni volta che prendi qualcosa o qualcuno per te, smetti di amare, perché smetti di dare. Cammini contromano’”.
Il contrario dell’amore, della carità, è l’egoismo: “L’egoista è precisamente uno che cammina contromano. Parte dagli altri per arrivare inevitabilmente e ostinatamente a sé. Gli altri non sono che un pretesto, un’occasione, un mezzo per amare se stesso. Sono in funzione del proprio io. Anche quando dichiara di fare del bene, l’egoista pensa a se stesso, intende fare del bene a se stesso. È totalmente occupato con se stesso”. L’egoista – continua Pronzato – “si rivela incapace di abbandonarsi, consegnarsi all’altro. L’egoista, perfino nell’amore, continua a ragionare in termini di interesse, vantaggi e piacere individuali. In altre parole: può essere disposto a tutto, meno che alla follia, meno che a perdere la testa, o la faccia”. Caratteristiche queste ultime che sono peculiari “nell’amore autentico” che, al contrario, comporta sempre “una componente di rischio, eccesso, esagerazione. L’egoista si protegge. Mentre l’amore comporta un ‘esporsi’ senza difese”. E ancora: “L’egoista si rivela costituzionalmente inadatto ad amare, anche allorché sembra travolto da una passione irrefrenabile, perché non è disposto a uscir fuori da sé (le sue ‘uscite’ sono programmate in modo da rientrare al più presto, e assicurarsi che i conti tornino, magari in termini di successo, popolarità), non accetta di perdere il controllo della situazione, non ha il coraggio di buttar via il registro della contabilità personale”.
L’egoista è un ragioniere pignolo che tiene in maniera meticolosa il registro della partita doppia. Il “dare” e l’“avere” sono puntualmente annotati nelle rispettive colonne e il suo bilancio si chiude sempre in attivo… ma solo su questa terra! Chi ama veramente è invece un pessimo contabile che “spende e spande” senza pensare al tornaconto personale e ai benefici. Il suo bilancio si chiude sempre in perdita… ma solo su questa terra!
È perciò nell’ottica dell’esagerazione, dell’eccesso, del “non abbastanza” che va interpretato il comandamento dell’amore di Gesù: “Il Signore – scrive Pronzato – esige dai suoi un amore ‘come’ il suo: eccessivo, prodigale, folle”. Quel “…Come io vi ho amato” significa che “io non posso amare ‘a modo mio’”, ma che “devo amare ‘al modo di Dio’. In una prospettiva specificamente cristiana, non basta amare l’altro come se stessi. Occorre amare come Cristo ha amato”. Significa cioè che “il nostro amore dev’essere come il suo: incandescente, bruciante. E universale, senza esclusioni né discriminazioni. Che abbracci anche quelli che non se lo meritano. Un amore non dipendente da gradimento o ripugnanze, e neppure condizionato dalla bontà o dalla cattiveria, dalla bellezza o dalla bruttezza, da simpatia o antipatia”.
Il “come” imposto da Cristo – spiega Pronzato -, è anch’esso una misura, la misura di una dismisura, una misura infinita: “Quel comparativo ci colloca in una vertiginosa ‘dismisura’. Ci troviamo confrontati con qualcosa che non ha misura. Per cui si tratta di adeguare le nostre misure, forzatamente ridotte, a una misura… infinita. La nostra misura sarà di non averne! In fatto di amore, il cristiano è nel giusto solo quando esagera, si mostra eccessivo”.
E, sempre a proposito del comandamento della carità, Pronzato prosegue: “Col ‘comandamento’, Gesù vuole qualcos’altro, che non può essere contenuto in una norma circonstanziata. Il comandamento dell’amore impone non il minimo, ma il massimo. Non fissa limiti, ma costituisce un invito a superare ogni misura, ad andare oltre. Si tratta di un atteggiamento di fondo, più che di comportamenti stabiliti una volta per sempre. Non qualcosa di previsto, programmato, scontato, ma qualcosa di inedito, sorprendente, stupefacente”. Per questo motivo, il cristiano “non potrà mai dire ‘sono a posto’, ‘mi sento soddisfatto’, ‘più di così non sono obbligato’…”, perché con il comandamento dell’amore “il Signore non stabilisce il minimo indispensabile per sentirsi a posto (non vuole che ci sentiamo a posto), ma un superamento continuo… Cristo e l’altro, è sempre in diritto di esigere ‘di più’, ‘ancora’, ‘meglio’. Non esiste un calmiere per l’amore”.
L’amore come follia, non va quindi inteso nel senso di quegli innamorati non corrisposti che arrivano al punto di perdere la testa, la ragione e il controllo delle proprie azioni. Come per esempio l’Orlando innamorato del noto poema cavalleresco, che diventa furioso e impazzisce, iniziando a distruggere tutto quello che lo circonda, quando scopre che la donna amata è scappata con un altro uomo. L’amore come follia non vuol dire furia, insania, paranoia o fuga dal mondo, ma “fuoco che scotta. E chi è investito da quel fuoco non riesce assolutamente a stare al proprio posto, per difendere le proprie comodità e i propri privilegi. L’equilibrio, per chi ama, non si colloca nel giusto mezzo, ma a un estremo. Occorre essere degli squilibrati. Squilibrati dalla parte dell’amore. Per amare, bisogna ‘uscire’ da una logica prudenziale, utilitaristica, ed entrare nel territorio della pazzia, nel campo della gratuità. Non il calcolo, ma lo spreco (proprio come la donna del profumo, biasimata dalla gente ‘equilibrata’, ma difesa e apprezzata, da Gesù). Solo chi è disposto a ‘sprecare’ l’amore, lo mette in salvo”.
Per una persona, la forma estrema di innamoramento, è rappresentata dalla santità, scrive Pronzato. La forma estrema di innamoramento è la sequela di Cristo, è amare i propri nemici, è lasciare tutto per seguirlo. È, come si vede, un messaggio radicale, folle per chi contempla solo logica e razionalità e non riesce a vedere le cose alla luce della fede. Come già osservato, la fede e il comandamento dell’amore sono infatti follie ragionevoli, desiderabili, a cui mirare, perché la ricompensa è grande, anzi immensa: la vita eterna!
FANTASIA
La fantasia rinvigorisce l’amore, la fedeltà e la carità
Al pari della follia, anche la fantasia è una virtù che si ricollega all’amore. Quando in amore e nel matrimonio si spegne la fantasia – scrive Pronzato – “quello è il segnale allarmante che si sta spegnendo anche l’amore. Quando, nel matrimonio, viene meno la capacità e la volontà di ‘sorprendere’ l’altro, di produrre l’inatteso, ma tutto è risaputo, previsto, scandito da gesti abitudinari, allora vuol dire che si sono celebrati i funerali dell’amore”. “Venendo meno la fantasia – continua lo scrittore -, ci si rifugia nel rimpianto lamentoso del passato, nelle recriminazioni. I sospiri lacrimevoli spuntano quando muoiono gli ‘oh!’ di meraviglia…”.
La fantasia nutre, rafforza e rinvigorisce anche la fedeltà che, senza di essa, rischia di ridursi “a stanca replica, copione obbligato, rigidezza, catena inesorabile. L’amore, senza immaginazione, diventa irriconoscibile nella sua opacità”. Con la fantasia, l’amore torna vivace e luminoso e la fedeltà diventa “creatività, freschezza, spontaneità, libertà”.
In altre parole – spiega Pronzato – “grazie alla fantasia, l’amore non si riduce a ripetere gesti meccanici, prestazioni in serie, ma inventa sempre qualcosa di stupefacente, di unico, di esclusivo. L’amore si conserva – e si rafforza e cresce – unicamente quando viene ‘creato’ giorno per giorno, allorché diventa, quotidianamente, ‘una cosa nuova’, mai vista, mai sperimentata prima”.
Dobbiamo prendere esempio da Dio che – osserva lo scrittore – “non sopporta le ripetizioni”. “Dio è amore (1 Gv 4,8) – scrive Pronzato -. E, perciò, Dio è anche fantasia, creatività, inventività. La fantasia, infatti, è il genio dell’amore. Dio è ‘nuovo’. E ama fare cose nuove. ‘Ecco faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?’ (Is 43,19). Nel suo amore, Lui non è mai ripetitivo, scontato, ma sorprendente, inedito, originale:
‘Ora ti faccio udire cose nuove
E segrete che tu nemmeno sospetti.
Ora sono create e non da tempo:
prima di oggi tu non le avevi udite
perché tu non dicessi: ‘Già lo sapevo’” (Is 48,6-7).
Per coloro che ama, Dio crea ‘nuovi cieli e nuova terra’ (Is 65,17)”.
Basta dare un semplice sguardo alla natura, all’infinita varietà di specie vegetali e animali, per rendersi conto della straordinaria e smisurata fantasia di Dio. Una caratteristica questa che appartiene anche all’uomo essendo stato creato a Sua immagine e somiglianza. Anche noi siamo perciò dotati di un pizzico dell’inventiva e della creatività di Dio, quanto basta per rendere più bello il mondo che ci circonda e più vitali e luminosi i rapporti con le persone care. E allora non sprechiamo queste capacità lasciandole sepolte e dimenticate, ma alleniamoci a esercitarle e ricordiamoci di impiegarle nella quotidianità.
Lo stesso fenomeno di “spegnimento” e “decomposizione” dell’amore si verifica anche per la virtù della carità se viene praticata senza il profumo e l’inventiva della fantasia: “La fantasia deve mettersi anche al servizio della carità, per evitarle il pericolo di inaridire, ammuffire e inacidire. La carità, senza il profumo della creatività, diventa una virtù che puzza”.
Usare la fantasia non significa, ovviamente, sognare a occhi aperti e perdere il rapporto con la realtà, la fantasia, infatti, “non fa mai perdere il contatto con la ragione e coi fatti concreti. Tuttavia non esita a spingersi ‘oltre’. Impedisce, così, alla carità di essere semplicemente una noiosa, pedante sgobbona, e perfino una insopportabile bisbetica virtuosa (o presunta tale)”.
La fantasia fa della carità una cosa bella oltre che buona
La fantasia ha la capacità di far sì che la carità non sia solo una cosa buona, ma anche una cosa bella: “Con la fantasia, la carità non è soltanto pesante dovere da compiere, ma capacità e gioia di sorprendere l’altro, indovinarne le esigenze (anche quelle che lui non riesce ad esprimere o addirittura di cui non è neppure cosciente), anticiparne i desideri, e offrirgli fragranti novità che lo aiutino a vivere e a sperare. C’è da aver paura non soltanto dell’indifferenza e dell’egoismo, ma anche di una carità sciatta, burocratica, impersonale, ciabattona, lagnosa, cupa, infastidita, che si accontenta di fornire – senza slancio – lo stretto necessario o, peggio, stilare ‘la diagnosi corretta della situazione’. La carità non può rassegnarsi ad essere soltanto ‘una cosa buona’. Deve diventare ‘una cosa bella’”.
E per rendere l’amore e la carità più belle, l’utile da solo non basta, ci occorre anche il superfluo: “In questa prospettiva, salta l’opposizione fasulla tra superfluo e necessario. Anche il superfluo, in certe circostanze, può risultare indispensabile… Il dono dell’essenziale, perché non abbia a umiliare, va accompagnato dal superfluo. La carità deve celebrare i propri riti in un clima di festa, non nella tetraggine e nello squallore del dovere compiuto”. Ci sono circostanze in cui – spiega Pronzato – “un fiore può essere indispensabile più del pane, la musica più della minestra, il profumo più del vestito, una fotografia più dell’immaginetta devota. Un povero, talvolta, può aver bisogno di un sorriso più che dell’elemosina (e, comunque, meglio ci siano tutti e due), di un po’ del nostro tempo e della nostra attenzione partecipe, più che dei nostri soldi. Il povero, il sofferente, richiede dignità, prima ancora che compassione…”.
Quindi, per spiegare meglio questo concetto, Pronzato riporta due esempi di cui è stato testimone. Il primo ha per protagonista “un’anziana signora, ospite di una Casa di riposo, modernamente attrezzata” che con lui così si è confidata: “Qui tutto funziona alla perfezione. C’è una organizzazione e un ordine che sono quanto di meglio uno possa desiderare. Qui c’è tutto, lo devo riconoscere, eppure… ma manca ‘l püsé’”. Mi manca il di più, confessava l’anziana allo scrittore, il quale a questo proposito osserva: “Sta alla fantasia intuire questa carenza, anche quando c’è tutto, e assicurare ‘il di più’”.
Il secondo esempio riguarda una coppia di immigrati turchi: due giovani sposi con una bambina di pochi mesi, mancante di tutto, che ottiene una sistemazione in una città della Svizzera italiana. Il marito riesce a trovare un lavoro, ma dopo poche settimane subisce un infortunio (senza copertura assicurativa) che lascia i tre senza alcuna risorsa. Pronzato racconta:
Il “caso pietoso” viene segnalato a una donna sensibile, abituata a interpretare il cristianesimo in chiave di “darsi da fare” per gli altri. Lei si reca in quell’abitazione, e le bastano cinque minuti per fotografare la situazione. Non è che manchi qualcosa, manca proprio tutto. Le condizioni della bimba, in modo particolare, appaiono preoccupanti. Bisogna procurare, d’urgenza, cibo e medicine, vestiti e letto, coperte e un po’ di soldi. Vengono coinvolte nell’operazione di salvataggio anche altre persone, di sicuro affidamento. La fase di emergenza, ben presto, grazie all’intraprendenza e ai sacrifici di quegli individui di buona volontà (tutta gente di condizione sociale modesta), può considerarsi superata.
Un giorno, dopo aver riempito la borsa della spesa, colei che assicura i collegamenti e i… rifornimenti, passando accanto a una fioraia, non sa resistere alla tentazione di “sprecare denaro” per l’acquisto di uno squillane mazzo di rose rosse.
Allorché la giovane sposa turca si vede consegnare, insieme al pane e agli omogeneizzati, quel fascio di fiori, dapprima non sembra credere ai propri occhi, quindi scoppia a piangere. E continua a farfugliare, strabiliata: “Non è possibile… Non posso crederci… Ma sono davvero per me?… Nella mia vita, finora, non ho mai ricevuto un fiore”.
Mi assicurava la protagonista dell’episodio: “In quel momento, grazie a un mazzo di rose rosse, quell’abitazione e quelle persone sembravano trasformate”. Era arrivato finalmente l’amore, debitamente scortato dalla fantasia: profumo e colori. E la vita diventa “un’altra cosa”. E perfino il pane ha un altro sapore…
Questi esempi per spiegare che “Il nostro amore, nella cornice della quotidianità, deve indossare l’abito della festa. Senza, per questo, smettere quello della fatica”. Dobbiamo perciò “convincerci che non è possibile amare senza un pizzico di fantasia… Il compito più urgente può essere quello di ‘sorprendere’, ossia di produrre l’inatteso, l’imprevedibile…”. Dobbiamo “convincerci che tutto è possibile per chi ama. Perfino non ripetersi, pur compiendo le stesse cose, e dedicandosi alle stesse persone e alle stesse occupazioni di sempre. Dobbiamo renderci coscienti che un fiore può rendere la nostra terra più abitabile e più umana”, conclude Pronzato.
L’ESEMPIO DEI SANTI
I santi sono coloro i quali più di tutti sono stati capaci di esercitare le tre particolari virtù appena considerate, costituendo per questo dei modelli per comprenderle e a cui ispirarsi. Se prendiamo in considerazione la fantasia, scopriamo che – scrive Pronzato – “i santi sono stati ineguagliabili campioni di fantasia. E in modo specialissimo lo sono stati i cosiddetti ‘santi della carità’. Doppiamente. Prima di tutto perché non è possibile essere santi senza essere inventivi… E poi perché, nel campo della carità, non si sono limitati a imitare gli altri, a ripetere ciò che era già stato fatto, a continuare l’esistente, ma hanno inventato qualcosa di nuovo, di sorprendente, di inatteso. E non soltanto nella programmazione delle loro grandi opere, ma anche nei minuscoli gesti quotidiani”. Pensiamo, per intenderci, alla vita e alle opere di Madre Teresa di Calcutta, Giovanni Bosco, Massimiliano Kolbe, Giuseppe Cottolengo, Vincenzo de’ Paoli, Camillo de Lellis, Luigi Orione, Francesco d’Assisi, ecc.
Ma, peculiarità della santità sono anche l’umorismo e la follia, come osserva Cucci: “Profondità spirituale, bizzarria, follia costituiscono differenti ‘ingredienti’ della santità, sono un frammento della complessità del mondo di Dio, e del modo con cui Dio vede le cose… L’uomo di Dio, il santo, viene spesso riconosciuto per la sua visione sorprendente delle persone, degli avvenimenti, delle difficoltà della vita; i santi hanno spesso avuto una vita difficile, tribolata con una conclusione tragica, eppure tutto ciò sembra trasfigurarsi e trovare una diversa collocazione, evidenziando ciò che nessuno noterebbe. Non per nulla l’umorismo caratterizza spesso la vita dei santi, ci sono famosi esempi in proposito, come S. Filippo Neri e S. Tommaso Moro”.
A livello spirituale – aggiunge Cucci – umorismo e follia trovano “una ulteriore attuazione nella grande tradizione orientale dei ‘Folli in Cristo’, dove compaiono persone per lo più semplici, umili, con un basso livello di istruzione, ma che avevano raggiunto vette altissime nella spiritualità e nella mistica, conducendo uno stile di vita molto austero insieme ad una notevole bizzarria nel comportamento, al punto da essere visti con sospetto come squilibrati. Alcuni racconti popolari, oltre a fare giustizia sulla reputazione di queste persone, rivolgevano una sottile critica ai dotti e alle autorità spirituali del tempo, riconoscendo che l’incontro con il Signore non disdegna la semplicità, l’austerità e anche l’umiliazione. In questi racconti, narrando le stranezze di questi asceti, viene in realtà bonariamente ridicolizzata proprio l’autorità religiosa seria ed erudita. Questi poveri folli, nella loro ingenuità, avevano capito qualcosa dei misteri del Regno inaccessibili ai grandi”.
Lo psicoterapeuta statunitense Robert H. Hopcke nel suo “La saggezza dei Santi” scrive:
“La tradizione del ‘santo folle’ trova una sua collocazione autentica nel cristianesimo a partire dalle parole che si leggono nella Prima lettera ai Corinzi di Paolo: ‘… noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. Considerate infatti la vostra vocazione, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti, secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto: ‘Chi si vanta si vanti nel Signore’ (1Cor 1,23-31)”.
Una follia che – come abbiamo visto – ha a che fare con la trascendenza, ma – come nel caso dell’umorismo – anche con l’umiltà: “La trascendenza di sé, come realtà psico-spirituale – spiega Hopcke -, richiede necessariamente il superamento delle norme sociali, a volte fino a travalicare i limiti di ciò che convenzionalmente s’intende per ‘sanità di mente’. Comportarsi ‘da stolti’ pare essere la norma per questi santi, un atteggiamento che talora è connesso in modo specifico con la virtù dell’umiltà, come nei Padri del deserto o in Francesco [d’Assisi]”.
Gli stessi discepoli scelti da Gesù, “quei discepoli che sarebbero diventati apostoli e quindi i primi santi della tradizione cristiana”, per le loro caratteristiche e qualità – nota Hopcke -, “sono esempi perfetti della tradizione del ‘santo folle’”. Infatti, costoro “sono spesso presentati sotto la luce peggiore: timorosi, ignoranti, incapaci di vedere oltre la lettera delle parole, superficiali, competitivi, increduli e vili”. Quindi non persone colte o straordinarie, o munite di doti fuori dal comune o di particolare intelligenza, ma “individui semplici, umili e goffi, che però rivelano, nella dinamica della loro conversione e illuminazione, l’azione trasformatrice del contatto con Gesù”, caratteristiche che accomunano tutti i cosiddetti “folli in Cristo”.
I santi sono coloro che hanno tradotto in gesti concreti la parola “servizio” secondo il programma di Gesù che dice di essere venuto “non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” invitando i suoi a fare altrettanto: “colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostri schiavo” (Mt 20, 26-28). Francesco Lambiasi commenta: “Non esiste una decisione più rivoluzionaria e più folle. Essere servi di qualcuno è un programma di vita irrazionale, inaccettabile… Eppure non pochi hanno accolto e accolgono l’invito di Colui che, pur avendo pieno titolo per essere servito, si è fatto servo e ha dato la sua vita in riscatto per molti”.
Si tratta dei santi, ma non solo: “Un elenco di folli non è solo quello dei santi sui calendari. Innumerevoli uomini e donne sulle strade del mondo continuano a fare di quell’invito il loro stile di vita. Mettono in campo una fantasia che rivela un amore che non ha confini”. Lambiasi aggiunge: “Essere servi di qualcuno per questi folli è una scelta consapevole, libera, responsabile. Conoscono motivi, significati, obiettivi del programma a cui aderiscono. Hanno incontrato Colui che ha lavato i piedi agli altri. Sono rimasti segnati dal gesto di questo Ribelle per amore. Ed ecco che proprio in questa ribellione alla logica del calcolo, del tornaconto del perbenismo, la figura di chi serve per amore assume i tratti della dignità e della fierezza. Mai figure dimesse, trasandate. Guardando i loro volti scopriamo i tratti di una bellezza e di una nobiltà che erano e sono nel volto del Signore. Del Servitore”.
Quel “servire” di Gesù, come sappiamo, è una proposta totale, radicale che arriva fino a sacrificare la propria vita per la salvezza di qualcun altro. “Non ci sono sconti – osserva in proposito Lambiasi -. Nessuna scorciatoia verso il Calvario e oltre il Calvario. Perché? Non ci saranno mai risposte decifrabili dalla sola ragione. Ma la vita di tanti folli, cioè di tanti santi, continua a far nascere domande. Forse più in chi non crede che in chi crede. A dire ancora una volta che Qualcuno è venuto a servire i malati e non i sani. Siamo alla soglia del mistero dell’Amore. Si tratta di decidere se varcarla o fare un passo indietro. Oltre quella soglia c’è una certezza: Dio è amore. E sono i folli a fare il passo avanti, nella luce”.
Bibliografia
Giovanni Cucci, La forza della debolezza, Edizioni AdP, Roma, luglio 2007, pp. 238, 243-246, 248-256, 258, 262, 263, 265, 267-270, 273, 274, 276, 277.
Alessandro Pronzato, Alla ricerca delle Virtù perdute, Gribaudi, settembre 2000, pp. 192-203.
Robert H. Hopcke, La saggezza dei Santi, Mondadori, 2010, pp. 25-27, 106-108.
Francesco Lambiasi, Una Parola al giorno, Editrice Ave, Roma, 2006, pp. 394, 395.
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