di Giacomo Gubert.
Il disegno di legge (DDL S. 17) in discussione in queste settimane in Senato, volto a introdurre in Italia una forma temperata dello ius soli, suscita numerose perplessità dal punto di vista del bene comune ed in specifico da quello del pensiero sociale cristiano. Ci stupiamo profondamente che persone che hanno a cuore i principi della Dottrina sociale cristiana possano appoggiare, persino pubblicamente, un simile disegno di legge
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Il disegno di legge (DDL S. 17) in discussione in queste settimane in Senato, volto a modificare la vigente legge 91/1992, introducendo in Italia una forma temperata dello ius soli (diritto del suolo) in sostituzione dello ius sanguinis (diritto del sangue) vigente, oltre ad nuovo diritto (detto ius culturae <sic>) che riguarderebbe il diritto di cittadinanza per tutti coloro che frequentano in Italia un intero ciclo scolastico, suscita numerose perplessità dal punto di vista del bene comune ed in specifico da quello del pensiero sociale cristiano.
Lo Stato e le famiglie straniere
In questa sede ci limitiamo ad analizzare una sola ragione di forte perplessità che concerne il rapporto tra Stato e famiglie straniere, residenti in Italia. Il disegno di legge prevede un intervento automatico e obbligatorio dello Stato volto a conferire la cittadinanza italiana a tutti i minori stranieri che nascono all’interno dei confini del nostro Paese o che frequentano almeno cinque anni scolastici. Questo modo di procedere, che già esiste nel nostro ordinamento, è tuttavia giustificato solo nei casi d’emergenza in cui lo straniero, per le circostanze particolari della sua nascita o del suo arrivo in Italia, rischi concretamente di rimanere senza alcuna cittadinanza cadendo nello stato di apolidia. Lo Stato dunque si sente legittimato ad attribuire d’imperio una cittadinanza ad una persona minore per scongiurare questo evento che ha conseguenze dannose, facilmente immaginabili, per la stessa persona e per il bene comune.
Nei casi che prevede il nuovo disegno di legge tuttavia i minori stranieri che nasceranno in Italia, o quelli che concluderanno un ciclo scolastico, possiedono già una cittadinanza e precisamente quella dei loro genitori (o almeno di uno di essi, nel caso di genitori di diversa cittadinanza). Sono dunque già organicamente inseriti, come famiglia, in una comunità nazionale e nella sua storia, pur vivendo per varie ragioni e in vari modi, in un paese straniero. Avendo io vissuto all’estero circa sei anni della mia vita, posso testimoniare che una tale esperienza suscita una forte interrogazione sulla propria appartenenza nazionale, che sarebbe ingiustamente risolta con l’attribuzione automatica di una nuova cittadinanza.
E’ preferibile rimandare la scelta per la cittadinanza alla maggiore età
In questi casi dunque lo Stato interverrebbe all’interno della comunità famigliare sostituendo automaticamente e obbligatoriamente una cittadinanza con la propria, quasi ci fosse stato di emergenza e necessità, come nel rischio di apolidia. Ciò avverrebbe senza consultare la volontà dei genitori del minore (né il minore stesso, ammesso che sia sensato farlo in questa fase della sua esistenza), visto che la nascita in un paese o la frequenza scolastica non possono essere considerate rivelative di una chiara volontà rispetto alla cittadinanza. L’unica ragione che lo Stato adduce per agire in questo modo sarebbe la volontà di meglio integrare questi minori. Ragione che difficilmente potrà essere giudicata sufficiente per due motivi: il legame tra mezzo e fine è tutt’altro che immediato e tutt’altro che evidente nell’esperienza internazionale.
Già in generale un tale intervento dello Stato nella vita della comunità famigliare deve essere giudicato come gravemente lesivo della dignità della stessa. Nel caso particolare della cittadinanza, il giudizio non può che aggravarsi visto che questo specifico intervento non è solo lesivo della dignità della famiglia ma è anche foriero di effetti negativi sulla stessa. La comunità familiare si trova infatti, volente o nolente, divisa, a tutto sfavore dei genitori, tra diverse comunità statali proprio negli anni in cui essi si assumono l’importantissimo compito dell’educazione della prole.
Lo Stato agirebbe, se la legge fosse approvata, in maniera nettamente individualistica e astratta, disconoscendo la realtà della famiglia e obbligando a preferire una cittadinanza solo ipoteticamente vissuta dal minore a quella propria della comunità familiare in cui esso vive.
Sembra dunque preferibile rimandare la scelta della cittadinanza per le persone straniere nate e formate in Italia, all’età adulta, quando si potrà instaurare un libero e responsabile dialogo tra queste persone, che potrebbero voler diventare cittadini italiani, e lo Stato, in rappresentanza della comunità nazionale e del suo bene comune.
Riteniamo questa sola ragione sufficiente a motivare una forte opposizione a questo disegno di legge e ci stupiamo profondamente che persone che hanno a cuore i principi della Dottrina sociale cristiana possano appoggiare, persino pubblicamente, un simile disegno di legge.