La singolare “incoerenza cronologica” degli affreschi
Tra i mille notevoli aspetti della Cappella di Santa Maria della Neve, in Pisogne (BS), resa opera immortale e complessa dal Romanino, la nostra attenzione si porge alla Resurrezione e, nello zoccolo, alla sottostante Ultima Cena.
Giovanni Reale, filosofo, studioso delle connessioni dell’arte con la ricerca del vero, per primo ha saputo scoprire la segreta lettura di questi affreschi, che, a molti critici, erano parsi inspiegabilmente in disordine, privi di successione logica e cronologica, fino a ritenere che quelli del registro inferiore non fossero nemmeno della stessa mano.
Non solo questo Romanino, più studiato per l’iniziale classicismo veneto, assai godibile, si stacca dalla ascendenza classica, ma diviene così innovatore da trasformarsi in un espressionista danubiano[1], protagonista di un rinascimento ancora poco studiato perché eterodosso. Per anni, infatti, questo volto del Romanino fu trascurato a vantaggio dei canoni classici dell’arte del Rinascimento, incentrati su alcuni grandi pittori trionfanti, quelli che furono chiamati i pittori d’oro, i pittori delle metropoli, mentre gli altri venivano tenuti a distanza dagli storici dell’arte.
Lo studioso, che ha capovolto il paradigma predominante, fu Roberto Longhi, rivalutando i pittori bresciani in generale e il Romanino, in particolare[2], tanto che, in seguito, diversi hanno ritenuto il Romanino precursore del Caravaggio per il suo realismo.
Con una acuta e paziente analisi, Giovanni Reale spiega come vadano letti tali affreschi e, quindi, anche la nostra Resurrezione in connessione all’Ultima Cena.
Se si seguisse il criterio cronologico, si rimarrebbe al di fuori del progetto impresso all’opera dall’artista, uomo di fede, che legge la vicenda di salvezza con occhi spirituali e non della cronaca. Ciò contrasta con quanto nel 1965 affermava Vezzoli[3], secondo il quale Romanino avrebbe fatto confusioni, non sarebbe stato informato dai committenti, incompetenti; avrebbe rappresentato nelle parti basse cose che avrebbero dovuto essere rappresentate nelle parti alte e viceversa, al punto che il Vezzoli commenta gli affreschi riportandoli all’ordine cronologico. Ma per seguire l’ ordine voluto dal critico, si dovrebbe correre da un lato all’altro della Cappella. La Cappella va, invece, letta partendo dall’arco presbiterale, procedendo in senso antiorario, passando dalla controfacciata e tornando all’arco presbiterale, sempre in senso antiorario. Questa lettura consente di cogliere il senso teologico della disposizione delle cappelle voluta dal Romanino.
Questi cenni sull’ermeneutica della lettura erano necessari per comprendere la Cappella che ci interessa per scoprire i nessi tra l’Ultima Cena e la Resurrezione.
Il percorso meditativo della Passione
Romanino non ci offre una vita di Cristo in scene, ma un percorso meditativo della Passione e del Mistero della Salvezza scandito in cappelle. Si noti che quella della Resurrezione ed Ultima Cena è la sesta. In tutto le stazioni sono otto. Se prestiamo attenzione alla simbologia, la nostra è la sesta stazione, corrispondente al giorno della creazione dell’uomo ed al Venerdì Santo. Nel giorno della creazione dell’uomo, Gesù viene tradito, arrestato e crocifisso, ma qui abbiamo la Resurrezione. Sembrerebbe un’altra contraddizione. Ma questo è il punto profondamente teologico, che porta l’artista ad intuire ciò che nella Santa Messa anche oggi il popolo risponde al Mistero della Fede annunciato dal celebrante:
Ogni volta che mangiamo di questo pane
e beviamo a questo calice
annunziamo la tua morte, Signore,
nell’attesa della tua venuta.
Anticipazione e memoriale
Poiché colui che si attende è il Risorto, è evidente il nesso già intuito dal Romanino. Nella celebrazione eucaristica dell’Ultima Cena si implica il sacrificio, ma anche il ritorno del Risorto, che nel registro superiore viene immortalato. Ed in ciò siamo in buona compagnia con il Rizzi, che afferma che la cena è anticipazione e memoriale[4].
Anticipazione, figura e tipo nell’Antico Testamento, realtà e antitipo nel Nuovo Testamento, nella verità mistica e del sacramento, assumono nuova accezione. Non si tratta di Giuseppe venduto come schiavo, che diventa figura del Cristo, venduto per trenta denari, o di Mosé, che attraversa le acque, come Gesù si immergerà nelle acque del battesimo, o, nel sangue della sua morte. Qui l’anticipazione è portare sulla scena dell’Ultima Cena Gesù che si immola nella separazione del corpo dal sangue e lo dona vivo, risorto. Sacrificio, Resurrezione e Comunione compresenti nella cena sacrificale di ogni Santa Messa. Profondità teologica nel simbolo e non successione nel tempo di realtà separate o separabili.
Cristo è al centro della tavola, come potrebbe averlo dipinto Leonardo. Il viso è incastonato in un’aureola, prima, di colore bianco e, poi, giallo oro. Mostra un’espressione di profondo dolore. Le mani si aprono nel significativo gesto, che sembra dire: «In verità vi dico, uno di voi mi tradirà» (Mt 26, 20).
Nella Resurrezione, la tomba è ormai vuota, al centro, a significare il dato certo: è vuota! Cristo è ascendente, e non è raffigurato nell’Orto degli Ulivi, come spesso avviene. È Colui che va al Padre e del quale attendiamo la venuta.
Un’umanità sorpresa
Attorno alla tomba, un gran numero di soldati, addetti alla guardia, ritratti con gli abbigliamenti di epoca rinascimentale; coloro con i quali la gente del popolo doveva costantemente misurarsi. Forte questa attenzione del Romanino alle condizioni del popolo, di quel popolo per il quale il Signore è morto.
Molti dei soldati dormono, però, tre di loro sono svegli. Uno, a destra, ha in mano una lancia e simboleggia l’aggressione d’Israele verso il Cristo; un altro, a sinistra, guarda in avanti con sguardo attonito, in attesa di qualcosa di sconosciuto. A destra, ancora, ed in primo piano, quindi con una rilevante importanza, un altro, quasi nudo, guarda in alto, simbolo di un’umanità, che attende di rinnovarsi, di rinascere dall’alto:
«In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». 4 Gli disse Nicodèmo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». 5 Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. 6 Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. 7 Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. (Gv 3, 3-7)
E Paolo fa eco:
«… cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; 2 pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. 3 Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! 4 Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria». (Col 3, 1-4).
L’umanità, nuda, come nudo entrò Gesù nelle acque del Giordano, nudo salì sulla croce e come nudo viene battezzato il cristiano. L’uomo dell’affresco si appresta a ri-nascere con il Risorto.
Il Cristo risorto
Come appare la figura di Cristo? Scomposta, rispetto alle regole classiche. Il viso sembra avere compassione dei soldati, custodi del sepolcro, di un luogo vuoto, ignari del mistero, che accade e di
quanto accadrà ancora. I Sommi Sacerdoti e i Farisei fecero mettere i sigilli, ma non giovarono a nulla. Ciò che paventavano come un’impostura peggiore della prima (Cf Mt 27, 62-66), stava accadendo. Ai sacerdoti ed agli anziani non rimane, allora, che tentare di corrompere con il denaro le guardie perché neghino la verità e propalino essi, sì, un’impostura (Cf Mt 28, 12-15).
Gli uni e gli altri non comprendevano la portata della risurrezione di Cristo.
La Sistina dei Poveri
“La Sistina dei Poveri”, uno dei patrimoni culturali del Rinascimento, così battezzata da Giovanni Testori, che spiegò in questi termini il senso di tale appellativo:
« Guardate quassù le sibille, se non sembrano donne, che tornino con le loro gerle dai boschi. […] Pisogne per forza poetica tiene alla Sistina; ne è come l’alterità, l’altro modo di vivere il cristianesimo, […] Qui c’è un modo di viverlo più umile, più da eroismo popolare e montagnardo, più dialettale. […] Romanino qui fa il controcanto della parola che si fa carne, infatti prende la carne di un popolo, di una valle e ne fa verbo figurativo».
Cristo è morto anche per questi umili ed anche loro hanno la loro cappella; da che erano all’ultimo posto, vengono invitati al primo!
—————-
[1] Cf. Elvira Cassa Salvi, Romanino, in Maestri del colore, Fratelli Fabbri Editore, Milano 1965.
[2] Giovanni Reale, Romanino e la “Sistina dei poveri” a Pisogne, Bompiani, Torino 2014, 24.
[3] G. Vezzoli, Gli affreschi del Romanino in Pisogne nella Chiesa di S. Maria della Neve, Morcelliana, Brescia 1965.
[4] M. Rizzi, I temi iconografici, in Gheroldi-Marazzani 2009, 36.
—————–