Russell Stannard è un fisico americano che indaga il rapporto tra scienza e fede. In Italia è stato pubblicato un suo testo, La scienza e i miracoli, in cui vengono intervistati molti scienziati, sui temi più scottanti. Alcuni di essi, dopo essere stati genetisti, fisici, astronomi, hanno deciso di diventare anche teologi. Perchè la loro scienza non
gli bastava.
Il libro inizia con una descrizione: quella di un gruppetto di scolari di 9 anni presso un Osservatorio astronomico. Ad alcune domande sull’origine del cosmo, delle stelle, degli alberi, racconta Stannard, tutti tirano in ballo Dio. Per i bambini Dio è una realtà vera e presente. Vi sono studi che sostengono che l’idea di Dio sia innata negli uomini, e particolarmente efficace proprio nei bambini. Come fossimo “programmati” per credere. Ma la certezza dell’esistenza di Dio, continua Stannard, naufraga clamorosamente quando, invece che bambini, si interrogano giovani universitari o adulti.
Allora Dio diventa… una favola per bambini.
Trovo questo fatto interessante. E ammetto subito di simpatizzare per i bambini, il cui innato senso religioso rende conto di un fatto: checché se ne dica spesso, da secoli, la fede non nasce affatto dalla paura, o da chissà quale desiderio da sublimare, ma dallo stupore originario con cui guardiamo il mondo. Stupore originario di chi, oltre all’evidenza, non ha eredità di ragionamenti, nè di scelte morali passate, attraverso cui filtrare la realtà così com’è…
Credo che se si facesse uno studio, si scoprirebbe che la maggior parte delle persone perdono la fede in età adolescenziale, o all’inizio dell’età adulta. Sì, proprio nell’età in cui, se non guidati e sorretti, facilmente si trasforma la brama di esistere e di essere riconosciuti, in ribellione: contro i genitori, la scuola, la realtà, il proprio aspetto fisico… In quest’ansia di agire, di essere, di crescere, di contare… Dio sembra, talora, solo un limite, come i genitori, come molte altre cose… e viene piano piano accantonato.
Poi si cresce e un po’ di studio, magari un pezzo di carta chiamato laurea, convince tanti di aver capito tutto: “Dio non serve: è dei bambini e dei vecchi…“. Così i giovani universitari sentiti da Stannard: “O credi nella scienza o credi nella Creazione“.
Eppure i più grandi scienziati (scienziati-bambini?) erano spiriti profondamente contemplativi e religiosi. Personaggi che maneggiavano una lucertola con rispetto, come scrive Chargaff; che guardavano il mondo con stupore e senso del sacro, come scriveva Russell; che cercavano Dio nei cieli e nelle foglioline; che, come Newton, si paragonavano, guarda un po’, ad un bambino che camminando sulla spiaggia osserva sassolini e conchiglie, mentre ha davanti a sé un “oceano di mistero” che gli sorride e lo affascina. Poi, dopo l’età infantile, l’età adolescenziale e l’età adulta: il secolo dei lumi. Con le sue certezze: “Sappiamo tutto; tutto ci è chiaro, ormai“. E’ l’epoca dei filosofi atei, di alcuni scienziati, spesso di mediocre livello, che hanno chiaro che Dio è dei bambini e dei vecchi. Una superstizione che passerà. E invece… oggi abbiamo mille conoscenze in più che in passato. Il cittadino medio sa più cose di Newton e di tutti i filosofi materialisti del Settecento e dell’Ottocento… Eppure, accanto a scienziati atei, vi sono ancora campioni della scienza, premi Nobel ecc che si dichiarano credenti. Che smentirebbero volentieri, se interrogati, la visione dei giovani universitari: “O credi nella scienza o credi nella Creazione”. Quantomeno dichiarando ridicolo l’aut aut.
Ma torniamo al passaggio da bambini ad adulti. Cosa fa il bambino? Sapendo poco, osserva tanto. E così facendo, impara. E l’adulto? Spesso crede di aver osservato abbastanza, e di non averne più bisogno: ha capito. Quanto più si crede di sapere, però, tanto più ci si chiude alla conoscenza vera, profonda, della multiforme e variopinta grandezza della realtà. Sfuggono i colori, le sfumature, ciò che è più profondo, meno evidente, ma non meno reale. La chiusura a priori è un atteggiamento mentale diffuso. E’ proprio di tanti adulti che si ritengono “colti”, arrivati, perché hanno magari una laurea e leggono libri alla moda.
I più ignoranti sono sempre coloro che credono di aver già capito tutto. Ma chi crede di aver capito tutto? Chi ha capito, un po’, un qualchecosa di qualcosa. Così certi scienziati: conoscono benissimo il funzionamento di una reazione chimica, o di una proteina, e, mentre si innamorano dei dettagli, dimenticano che le cause seconde non sono la prima, che il dettaglio non è l’insieme, precludendosi la possibilità di vedere tutto il quadro…
Il meccanismo è quello descritto da Pasteur, e, prima, da Bacone e Boyle: “poca scienza allontana da Dio, molta vi riconduce”. Poca scienza rende, spesso, superbi, tanta umili.
Ecco perchè, a mio avviso, la fede è, spesso, dei bambini e degli adulti più maturi, dei vecchi.
Nei bambini c’è un’umile apertura alla realtà (senza paura); in tanti adulti, invece, si mescolano orgoglio, presunzione di sapere e cinismo; il passare degli anni permette a molti di incontrare di nuovo la realtà, non con l’umiltà originaria e meravigliata dei bimbi, ma con quella più sofferta, insegnata dall’esperienza e dalla vita stessa.
Il Foglio, 10/9/2014