Pubblichiamo il testo integrale della catechesi per l’Avvento tenuta da Flora Gualdani, fondatrice dell’opera “Casa Betlemme”, ad un gruppo di sposi guidati da Padre Maurizio Botta (parrocchia Santa Maria in Vallicella, Roma 4 dicembre 2016). Una lunga esperienza pastorale al femminile, dalle periferie esistenziali alle avanguardie della teologia. Riflessioni ostetriche a servizio della mariologia e del «nuovo femminismo» di cui parlava san Giovanni Paolo II.
Flora Gualdani
Buon pomeriggio a tutti. Grazie a Padre Maurizio per la sua amicizia e per avermi invitato qui in mezzo a voi. Lui è specializzato nel farvi fare i “Cinque passi al Mistero”. Trovandoci nell’Avvento, io oggi cercherò di farvi fare tre passi verso il Natale. Il primo passo sarà dentro l’esperienza di Casa Betlemme, il secondo passo incontro alla Madonna (e a suo Figlio), il terzo passo incontro alla donna e alla sua grandezza. Alla fine di ogni passo, concluderà Davide Zanelli riassumendo con una delle sue canzoni.
PRIMA PARTE.
L’ESPERIENZA DI CASA BETLEMME
Come nacque il piccolo “ospedale da campo”, ai tempi del Concilio Vaticano II
Inizio parlandovi del mio “ospedale da campo”, cioè di Casa Betlemme, aiutandomi con un pò di immagini d’archivio. E’ un’opera che viene da lontano
ed è nata dalla mia professione ostetrica: ho lavorato quarant’anni in ospedale. Ma è nata anche dal coraggio e la forza di due famiglie salde. Oggi qualcuno le definirebbe famiglie “tradizionali”, sorpassate. In realtà sono state due famiglie per me esemplari, che mi aiutarono ad avviare quest’opera un pò folle. Una era la mia famiglia, dove ho respirato la fede a contatto con la saggezza della natura. I genitori contadini mi hanno educato al valore del sacrificio, testimoniandomi la fedeltà del loro amore. Sono stati capaci di volersi bene tutta la vita. In punto di morte, mio padre disse alla mia mamma: «Angiolina io parto, ma ti aspetto lassù!». Insieme per sempre.
Il mio babbo, nella prima Guerra mondiale, era sopravvissuto alla prigionia in Germania grazie ad un sogno. Un sogno che lo reggeva in piedi: avere un giorno una famiglia, e una bambina con gli occhi neri. Quella bambina sono io. In mezzo alla fame e agli stenti, la forza di questo sogno gli dette la motivazione per non abbandonarsi alla morte, come invece facevano altri prigionieri.
Tornato a casa dopo tre anni, c’era la povertà e lui voleva fare il contadino ma da uomo libero. Così emigrò, analfabeta autodidatta, dieci anni in America per riuscire poi a comprarsi due ettari di terra ad Arezzo, da coltivare in libertà. I primi risparmi che si guadagnò in America, li spedì per comprare subito ai suoi genitori un podere. Alla fine della seconda Guerra Mondiale, poiché lui conosceva bene l’inglese e poteva fare da interprete, gli alleati offrirono a questo contadino ricche prospettive di lavoro a Firenze. Ma lui preferì rimanere insieme alla sua famiglia, che aveva sognato, in quel fazzoletto di campagna toscana, alle porte di Arezzo. Diceva sempre: «la famiglia al primo posto, non la malattia dei soldi!». In paese lo chiamavano “il filosofo”. E il professore che lo ebbe in cura durante il calvario della malattia, si rammaricava di non aver potuto conoscere prima un uomo così saggio, che trasmetteva pace.
L’altra famiglia speciale, cui accennavo prima, è quella di Lucia. La sua storia eroica ha dato il via a Casa Betlemme. Era il 1964 e, mentre qui a Roma c’era il Concilio, io mi trovavo in Terra Santa nella grotta di Betlemme dove mi aveva appena folgorato una forte intuizione sul futuro della procreatica. Compresi che questa sarebbe divenuta un giorno una questione epocale e drammatica. E che il terzo millennio sarebbe dovuto tornare ad inginocchiarsi davanti al Creatore. Rientrata in Italia trovai in reparto questa giovane gestante ventiquattrenne, sposata e povera. Era malata gravemente di cancro ma non intendeva abortire, nemmeno davanti al consulto dei tre specialisti. Le rimasi accanto, la bambina nacque, era sana e aveva due bellissimi occhi azzurri. Me la portai a casa, fu il mio primo amore. La tenni con me finché quella madre coraggiosa, lentamente, guarì. E oggi con suo marito fa la nonna. Perché Dio è regale, restituisce vita per vita a chi ha messo il rispetto della vita al primo posto.
Sul momento pensai che la cosa sarebbe finita lì, invece Dio aveva un progetto. Quel bambino accolto diventò il primo di una lunga serie. Il Signore, che è un Padre buono, i suoi progetti te li fa capire piano piano: perché sa che altrimenti ti spaventeresti e scapperesti via.
Potrei stare ore a raccontarvi tante storie dei bambini che sono passati dalla mia capanna di Betlemme. Venivano tutti dall’abbandono, dalla violenza, dalle peggiori tragedie delle periferie esistenziali. Vi racconto soltanto un episodio. Siamo all’inizio degli anni ’70. Una donna muore tragicamente durante il parto cesareo, il marito era povero e aveva a casa altri tre bambini. Così quella neonata, orfana nel bisogno, me la portai a casa. Doveva rimanere in affido con me per qualche tempo, invece la mia cara Boba è rimasta circa trent’anni, finché non si è sposata. Oggi io faccio da nonna a sua figlia. Un giorno, mentre avevo quella bambina orfana con me, la lasciai con i miei, presi l’aereo e feci uno dei miei tanti viaggi a Betlemme, a chiarirmi le idee con il “padrone di casa” (il Piccoletto). Quella volta però dentro la grotta non riuscivo più ad alzarmi dal dolore, dovetti trascinarmi fuori dalla grotta e mi resi conto che avevo una peritonite in atto. Mi ospitò qualche giorno una vecchietta poverissima di nome Afif. La febbre era molto alta e quella volta ero seriamente preoccupata di lasciarci le penne. Non mi fidavo di farmi operare in un ospedale palestinese e non mi piaceva affatto l’idea di essere seppellita sotto un mucchio di pietre, alla maniera di laggiù. Quella volta fui molto severa con Gesù e in preda alla febbre alta gli dissi: «Tu non ti sei mai privato della tua mamma: l’hai voluta con te anche per morire! E a questa bambina, dopo che gli hai tolto la sua mamma una prima volta, ora le vuoi togliere anche me!?». «Non ti chiedo la vita per me: fallo per lei!». La povera Afif aveva soltanto un orcio con dell’olio di oliva e ogni tanto me ne metteva qualche goccia sulle labbra che riuscì un po’ ad aiutarmi davanti al blocco intestinale. Alla fine riuscii ad arrivare in aeroporto e ad imbarcarmi, mascherando le mie condizioni sanitarie. Tornata a casa fui operata e rimasi quaranta giorni in ospedale.
Sempre negli anni ‘70, con l’arrivo della legge 194, iniziarono a bussare alla mia porta le “ragazze madri”, da ogni parte d’Italia e poi del mondo. Ad un certo punto la casa diventò stretta e io chiesi al mio babbo la mia parte di eredità. Usai quell’ettaro di terra per costruirci, con tanti sacrifici, alcune casette dove ospitare le maternità difficili. E’ il mio piccolo “ospedale da campo”: un mini-villaggio della solidarietà. In questo ospedale da campo ho accolto decine di storie di sofferenza. Storie indicibili di umana catarsi, dove ho visto rifiorire l’impensabile grazie a quella faticosa maternità. Qualche centinaio di bambini tolti dalla pena d’aborto, con altrettante donne che hanno scoperto la libertà di non abortire. E così, recuperata la loro dignità, sono tornate autonome in società. La maternità è stata la loro “terapia” adeguata. L’unica.
Non ho tenuto i conti, non avevo tempo e sono allergica alla burocrazia. L’unica cifra di cui sono sicura è che nessuna donna è mai tornata pentita di aver accolto la vita. Neppure la undicenne incinta, la prostituta o la donna vittima di violenza. Cioè i cosiddetti “casi limite”.
In questo ospedale da campo mi sono specializzata nel prendermi cura, con premura, non soltanto delle maternità più difficili ma anche delle maternità negate. Di quelle donne, cioè, ferite dal tormento dell’aborto. Le aiuto usando il balsamo della misericordia (che riscatta, dà speranza e libertà) e con lo sguardo della trascendenza. Gesù ama ed è misericordioso, cioè scende con il suo cuore sopra la nostra miseria. Di questa particolare esperienza accanto al dolore delle donne, ne ho parlato lo scorso giugno all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum nell’ambito del convegno “Bioetica, Miseria e Misericordia” (https://www.libertaepersona.org/wordpress/2016/07/bioetica-miseria-e-misericordia-lopera-di-casa-betlemme/).
Servizio alla “maternità senza frontiere”: una chiesa in uscita, incontro alle periferie esistenziali.
Nel frattempo, continuando a lavorare in ospedale, usavo le mie ferie per girare il mondo. Volevo conoscere e servire la vita nascente negli angoli più poveri della terra e ai bordi delle strade, in un personale “servizio alla maternità senza frontiere”. Partivo per andare in mezzo alle guerre, ai terremoti e ai disastri umanitari. Sono uscita cioè da quell’ettaro di campo per andare in quelle che oggi chiamiamo le “periferie esistenziali”: India e Bangladesh, Africa, Messico, l’Irpinia terremotata, la Bosnia dello stupro etnico. Ho fatto dei servizi sanitari come volontaria cercando di amare Gesù nei bambini e nelle donne. Dentro l’inferno della Cambogia, in mezzo a mille donne gestanti, fuggite dalla foresta in un campo profughi dove partorivano scheletrini. Lì, dove mancava tutto, ho visto un vecchio prete parigino passare le giornate sotto il sole, a lavare gli stracci pieni di feci e di insetti dei profughi che non si reggevano in piedi. E con lui ho visto un medico ateo curare lebbra, malaria, tubercolosi, ferite da guerra. Eravamo uniti nel servizio all’uomo, in un grande amore alla vita. Questa è stata la mia esperienza di “Chiesa in uscita”.
Ma facevo quei viaggi anche per fare confronti. Volevo osservare e studiare come viene trattata la maternità in altre culture e contesti geografici, anche nei paesi ricchi: Stati Uniti e Svezia, Inghilterra. Andavo nelle missioni ma anche dentro le cliniche universitarie. All’ospedale di Pechino, per esempio, nel 1979 il primario ginecologo era una donna che aveva studiato a Parigi: mi spiegava in francese che la ventosa loro l’avevano già messa in bacheca, mentre da noi andava di gran moda. Su questo particolare ostetrico, ho notato che i cinesi sono più rispettosi delle leggi di natura e meno frettolosi.
Tra gli anni sessanta e settanta pensai che, per rispondere meglio a quelle catastrofi umanitarie in cui m’immergevo, nonostante fossi ostetrica avevo bisogno di altre quattro cose: conoscere una lingua, diventare ginecologa, possedere un ambulatorio con le ruote (cioè un’ambulanza) e saper pilotare un elicottero. Così, con quella dose d’incoscienza e spirito di avventura che mi hanno sempre aiutato, presi un diploma da interprete, riuscii a frequentare per quattro anni la facoltà di medicina e acquistai i primi strumenti per attrezzare l’ambulanza. Nel frattempo superai i test per il brevetto da elicotterista. Ad un certo punto però dovetti fare delle scelte. Ogni esercitazione di volo mi portava via mezzo stipendio.
Le opere di misericordia spirituale: “istruire gli ignoranti” nel Vangelo della vita.
In questo cammino personale, ho cercato di rimanere attenta ai segni dei tempi. All’inizio degli anni ’80 compresi che la povertà che si stava affacciando da noi in Italia era quella culturale. Il vescovo di Bangkok voleva che rimanessi e aprissi una casa là. Ma io sentivo che la mia missione era qua nel nostro occidente gaudente e disperato. Vedevo crescere l’emergenza educativa, il degrado morale, dentro e fuori le sacrestie. Così, a fianco dell’accoglienza, decisi di aprire un altro reparto: quello della formazione. Volevo dare una risposta completa, perché la Chiesa è chiamata alle opere di misericordia corporale e a quelle di misericordia spirituale, tra cui c’è l’istruzione degli ignoranti. Nella mia esperienza infatti ho incontrato purtroppo tanta disinformazione anche tra le coppie cattoliche, tra i sacerdoti e gli intellettuali, su cosa realmente propone la Chiesa in questa delicata materia. Ho toccato con mano i danni gravi di questa ignoranza. E questo mi ha spinto ad abbandonare in anticipo la mia amata professione ospedaliera all’inizio degli anni’90, per dedicarmi totalmente ad aiutare la pastorale della Chiesa, mettendo a disposizione questo reparto formativo del mio piccolo “ospedale da campo”. Da anni dico che, se sopra la disinformazione ci seminiamo la confusione, alla fine raccoglieremo devastazione.
Per prepararmi frequentai gli ambienti universitari romani dove ho incontrato i miei maestri, giganti della fede e della scienza: i genetisti Jérôme Lejeune e Padre Serra, la psichiatra Wanda Półtawska e la ginecologa Anna Cappella, i medici australiani coniugi Billings, gli attuali cardinali Caffarra e Sgreccia. Ma sopra tutti ho potuto incontrare san Giovanni Paolo II, che insieme al beato Paolo VI mi ha insegnato il coraggio di annunciare senza paure il Vangelo della vita e lo splendore della verità tutta intera. I loro insegnamenti li ho riportati a Casa Betlemme, che è diventata così una scuola di vita dove si formano formatori e famiglie cristiane. Perciò, più che ospedale da campo, io la definisco una piccola “Università dell’amore” con Facoltà della vita. Una piccola università di cui devo l’ispirazione a Santa Teresina di Gesù Bambino. Da questa scuola sono passati in molti: vergini e prostitute, analfabeti e professori, piccoli e anziani, artisti e giornalisti, vescovi e sbandati, famiglie ferite. E tante coppie di innamorati. Alcune di queste giovani coppie si sono così affascinate dell’opera che hanno deciso di dedicarci la loro vita per trasmettere ad altri quello che hanno imparato. Il numero dei collaboratori cresce, e la fraternità dei betlemiti si sta allargando. Ci sono voluti quarant’anni anni per avere la prima approvazione ufficiale di quest’opera. (cfr. Dall’utero a Lutero, Libertà e Persona 18 dicembre 2016, https://www.libertaepersona.org/wordpress/2016/12/dallutero-a-lutero/).
Ad un certo punto, a fine anni ’90, arrivò un vescovo che osservò i frutti e capì l’urgenza della nostra opera. Era Mons. Gualtiero Bassetti e la volle riconoscere ufficialmente come opera della Chiesa, dall’apostolato moderno e itinerante. Portiamo in giro la formazione su tre materie specifiche: teologia del corpo, alfabetizzazione bioetica e regolazione naturale della fertilità. Con uno stile fatto di armonia, che aiuta la gente a riconciliare la fede con la scienza, in una morale incarnata.
La follia nello stile della povertà.
Un’altra cifra del mio piccolo ospedale da campo è la povertà, cioè la follia di uno stile francescano. Di solito gli ospedali vivono di convenzioni. Qui invece ho voluto affidarmi a forti convinzioni e alla totale gratuità. Perché io credo che il volontariato è gratuità, competenza e scienza del puro amore. E ho capito che si sta in piedi soltanto se si rimane in ginocchio. Perché se il latore non è un povero, il Mandante non è il protagonista. La povertà è parecchio faticosa, ti fa esercitare la fede ma in cambio ti dà una libertà che è letizia. C’è stato un periodo in cui avevo più debiti che capelli. Quando non hai i soldi nemmeno per comprarti le calze, ti metti i pantaloni. E vai!
Quando ho aperto Casa Betlemme erano gli anni ’60 e il mio vescovo, di ritorno dal Concilio Vaticano II, mi ordinò che finché fossi stata viva avrei dovuto avere con me l’Eucarestia. Così la stalla con la mangiatoia, dove i miei genitori tenevano gli animali, diventò una cappella che è il cuore che sorregge tutta l’opera. Non ho mai voluto l’appoggio dei politici o dei potenti. Come patroni mi sono scelta tre santi: Francesco d’Assisi, Teresina di Gesù Bambino e Caterina da Siena, nell’armonia di tre spiritualità in cui mi riconosco.
E adesso un breve intermezzo in cui Davide, artista betlemita, vi riassumerà questa prima parte con una sua canzone (segue la canzone “Gesù Amore”).
SECONDA PARTE
LA GRANDEZZA DELLA MADONNA: REGINA PERCHÉ MADRE
Dopo questa canzone, che è una dichiarazione d’amore al “più bello tra i figli degli uomini”, adesso avviciniamoci a sua Madre, Maria: la Regina-Madre.
Partiamo da una citazione. Un famoso ginecologo bioeticista, uno dei più grandi avversari del Magistero cattolico, qualche anno fa disse sul quotidiano Repubblica che «il Cristianesimo è una religione incomprensibilmente ostile alle donne». Leggendo il Vangelo, questa affermazione si sbriciola da sola. Il Salvatore, infatti, sia nel venire sulla terra sia nella sua partenza, ha scelto una donna. Gesù ha voluto farsi annunciare risorto da una donna: una donna che aveva già fatto esperienza di resurrezione nella sua carne ferita durante la propria vita. Lei era devastata dal peccato. Era arrivato Gesù e l’aveva rialzata in piedi.
Ma a quel ginecologo forse è sfuggita la cosa più importante: che la Salvezza dell’umanità è iniziata dall’utero di una donna. Per spiegare questo concetto mi piace usare un’opera stupenda di Andrea della Robbia, perché gli artisti ci aiutano molto ad avvicinarci alla verità, avendo loro in dono la capacità di cogliere un raggio della bellezza di Dio. Io dico sempre che in Paradiso, davanti al volto di Dio (in front of), ci sono tre file di posti riservati: le poltrone in prima fila sono riservate ai deficienti cioè a tutti quelli che sulla terra hanno avuto di meno e lassù riceveranno il centuplo, la seconda fila tocca agli artisti perché hanno avuto il merito di cogliere il bello cioè un riflesso di Dio. Ai santi spettano le poltrone di terza fila, dopo gli artisti, perché i santi sono sì un’incarnazione dell’amore divino ma per diventarlo hanno ricevuto, insieme a tante tribolazioni, anche grandi doni.
Il fiat di Maria fu un “consenso informato”. La bioetica scritta tra le righe del Vangelo di Luca, nel racconto dell’Incarnazione.
Tra le righe del Vangelo troviamo già scritta anche la bioetica. La cosa sarebbe lunga da spiegare. Un esempio: «Ecce concipies in utero» (Lc 1, 31-33): concepirai nel tuo utero, non in una provetta. Queste parole dell’evangelista Luca suonano, secondo me, come un richiamo preciso all’uomo di oggi che considera ormai normale la fecondazione extracorporea.
Nel vangelo di Luca, che era un medico mariano, scopriamo una serie di indicazioni ostetriche di un’esattezza sorprendente. Le esaminiamo ammirando la bellezza dell’Annunciazione di Andrea della Robbia, che si trova al santuario della Verna, in provincia di Arezzo.
Intanto osserviamo che l’Incarnazione è opera Trinitaria: vediamo il Padre con la mano che benedice la libera risposta di Maria. Lo Spirito Santo sotto forma di colomba, con le ali sollevate, sembra alzare le braccia di fronte alla volontà di Maria. E poi nel grembo di Maria, l’artista fa scorgere impercettibile un movimento dell’abito, come a suggerire un’accoglienza. L’angelo, dopo il “fiat”, si genuflette adorante davanti al Dio cellula appena incarnato. Che aveva lasciato il trono di gloria del Padre per farsi uno di noi, e stare con noi.
Rileggendo il dialogo tra Maria e l’angelo, scopriamo un dialogo tra fede & ragione. Come se qui fosse stata scritta l’enciclica Fides et ratio, direttamente dalle mani di Maria. Qui è stato ricucito il divorzio che separava l’umanità dalla divinità a causa del peccato. E’ in quell’utero che si è ricucito il dialogo tra cielo e terra.
Proviamo ad analizzare questa armonia tra fede e ragione.
Nel dialogo, Maria usa l’intelligenza e pone domande (Lc 1, 29-38): chiede come sia possibile, dicendo «non conosco uomo». L’angelo dà risposte. E lei, liberamente, fa l’atto di fede. Il “fiat” di Maria quindi possiamo definirlo un magnifico “consenso informato” all’evento dell’Incarnazione, perché lei domanda il senso e il modo. Non lo fa per poca fede ma perché la fede deve usare tutta la ragione e poi trascenderla. La Madonna non ha dubitato nella fede e, dopo quel consenso, la sua fede è cresciuta ancora di più. San Bernardo abate, descrivendo la trepidazione con cui tutto il genere umano, prostrato alla sue ginocchia, attende la risposta liberatoria di Maria, le rivolge questa supplica: «Apri, Vergine beata, il cuore alla fede, le labbra all’assenso, il grembo al Creatore» (Omelie sulla Madonna).
La Madonna diventa madre non per concepimento ma per transustanziazione della (sua) materia.
Ora usiamo lo sguardo della scienza: Gabriele (che potremmo definire il primo degli ecografisti e loro patrono), si presenta al momento propizio cioè il momento ovulatorio, necessario al concepimento. Con il concepimento, avviene la transustanziazione dell’ovulo di Maria nel corpo e sangue di Cristo. La materia umana si trasforma cioè in materia divina-umana, conservando le sue caratteristiche naturali: per opera dello Spirito Santo, l’ovulo di Maria diventa zigote e quella cellula microscopica di un millimetro e mezzo è da subito vero Dio e vero uomo. Lì Dio è venuto sulla terra. Ed è venuto di persona. Quindi la prima Messa e la prima Santa Comunione sono avvenute in quel tabernacolo, l’utero della Madonna: la quale, nel donare la propria carne, riceve in sé la carne e il sangue di Gesù.
Ma un paio di concetti vanno precisati. Primo: il Verbo si è incarnato per opera dello Spirito Santo nel grembo di Maria. Significa che ad incarnarsi non è stato lo Spirito Santo ma la seconda persona della Trinità. Secondo: Maria ha dato all’Incarnazione la sua materia umana, cioè offrendo il suo utero ma prima ancora l’ovulo: che è stato fecondato non da uno spermatozoo ma per opera dello Spirito Santo. Il concepimento di Gesù è avvenuto cioè senza concorso da parte di uomo, e questo resta un mistero della fede. Ma significa anche che Gesù, come vero uomo, ha DNA soltanto mariano. Ha il sangue di Maria. Ed è bello come la sua mamma che l’ha generato. La bellissima!
Torniamo ora al livello della fede. Maria è “l’Immacolata concezione” perché il purissimo Spirito del Verbo doveva fondersi con una materia purissima. Diversamente infatti, se Maria fosse stata come noi ferita dal peccato, non sarebbe potuta avvenire quella fusione che ha permesso l’unione ipostatica del Verbo, perché avrebbe trasmesso materia “malata”. Insomma, come dire che l’acciaio non potrebbe unirsi alla creta! Così dunque la Parola si fece carne.
San Leone Magno spiega che se Gesù «che è consostanziale con il Padre, non si fosse degnato di essere consostanziale anche con la Madre e se egli […] non avesse unito a sé la nostra natura umana, tutta quanta la natura umana sarebbe rimasta prigioniera sotto il giogo del diavolo e noi […] non avremmo potuto aver parte alla vittoria gloriosa di Lui, se la vittoria fosse stata riportata fuori dalla nostra natura».
Ancora lo sguardo della scienza: dopo il fiat lei parte «cum festinatione» (Lc 1, 39) cioè in fretta per andare dalla cugina. Perché, dice sant’Ambrogio, «la Grazia dello Spirito Santo non comporta lentezze» (Commento su san Luca). Percorre circa 150 chilometri con un somarello: possiamo quindi presumere che abbia impiegato 5-7 giorni. Dato che ogni 24 ore l’embrione compie un tragitto di circa un centimetro e mezzo dentro la tuba, questo significa che quando Maria si è presentata ad Elisabetta, Gesù era un embrione appena annidato o blastocisti in via di annidamento. Perché Gesù, come vero uomo, ha fatto tutto il percorso di noi uomini dall’inizio del concepimento.
Elisabetta, esclamando «la madre del mio Signore!» (Lc 1, 43), fa catechismo alla cugina: riconosce infatti Maria come Madre di Dio, e riconosce Gesù come vero Dio e come vero uomo, nella sua divinità in pienezza e nella sua umanità in divenire. E’ a questo punto che è esplosa la lode dal cuore di Maria con il canto del Magnificat (Lc 1, 46-55).
E qui c’è un’altra riflessione che ci suggerisce la pagina di Vangelo. Queste due donne esultano di gioia. Ma si trovano di fronte semplicemente ad un embrione di pochi giorni. Ciò significa che la grandezza di Gesù parte da quella piccolezza. E così è per ogni uomo: il valore della persona è dato dalla dignità infusa con l’anima nella materia dallo Spirito Santo nel concepimento, dove inizia l’esistenza di un nuovo essere umano. L’anima infusa dà vita e dignità alla materia facendola diventare persona, cioè un nuovo essere umano. Fatto a immagine e somiglianza di Dio.
Ma abbiamo ancora un altro particolare scientifico scritto tra le righe: il piccolo Giovannino, racconta Elisabetta, sussulta di gioia adorante davanti all’embrione Gesù (Lc 1, 41). L’evangelista spiega che Giovanni era un bambino di sei mesi nel grembo di Elisabetta: questo dato è ostetricamente corretto perché è già da prima del quinto mese che una gestante avverte i movimenti del feto.
In conclusione, con l’Annunciazione, il consenso di Maria e l’opera dello Spirito Santo, si compie l’evento dell’Incarnazione dove lei diventa contemporaneamente Madre e Regina: Regina perché Madre. E Madre non per fecondazione, ma per transustanziazione della materia.
Tempo fa un ecclesiastico mi obiettava che la chiesa, tra le altre cose, dovrebbe rottamare anche il “Salve Regina, Madre di misericordia…”. Diceva che andrebbe cambiato, modernizzato. Io gli ho risposto: «Mi scusi, ma se alla Madonna le togliamo la sua Maternità e quindi la sua Regalità, mi spiega che cosa le rimane?».
Lei è la Regina perché è la Madre del Re e dell’umanità, e questo da subito (dall’istante dell’Incarnazione) e in eterno. Poichè l’Incarnazione è un Avvenimento eterno, un Mistero globale, una Realtà cosmica. Un evento talmente enorme di cui abbiamo smarrito lo stupore: «“Il Verbo si fece carne” è una di quelle verità a cui ci siamo così abituati che quasi non ci colpisce più la grandezza dell’evento che essa esprime». (Benedetto XVI, Udienza generale, 9 gennaio 2013). E’ l’Incarnazione infatti la causa prima, gigantesca e inaudita, da cui poi scaturiranno la Passione e la Resurrezione: i quali sono effetti che partono dall’Incarnazione. Edith Stein rifletteva in modo simile: «ho sempre pensato – e forse è un azzardo – che il mistero dell’Incarnazione sia più grande di quello della Resurrezione. Perché un Dio che si fa bambino, e poi ragazzo, … e poi uomo, quando muore non può che risorgere». E anche don Giussani affermava che la vera domanda attorno a cui ruota tutta la fede non è “se Dio esiste” ma “se davvero Dio si è incarnato”.
Se non si crede che Lui si sia incarnato, si scivola in vecchie eresie che negavano la vera umanità di Cristo, ritenendola una semplice apparenza. Il che significa negare conseguentemente la realtà della passione e della crocifissione, e quindi della Resurrezione. Invece l’Incarnazione è un Avvenimento eterno, provato dal fatto che Gesù, risorto, è tornato in mezzo ai suoi a farsi toccare nella carne e a mangiare con loro (Lc 24, 39-43; Gv 20, 27). E nel momento dell’ascensione, cioè al compimento della sua missione terrena, con la propria corporeità ha riconciliato a Dio la natura umana: riconsegnandola guarita nella sua completezza, corpo e anima, al Padre. San Leone Magno descrive mirabilmente questo momento in cui «la nostra povera natura è stata elevata in Cristo fino al trono di Dio Padre», quando gli apostoli stupefatti di gioia «contemplavano la natura umana mentre saliva ad una dignità superiore a quella delle creature celesti. Essa oltrepassava le gerarchie angeliche, per essere innalzata al di sopra della sublimità degli arcangeli, senza incontrare a nessun livello, per quanto alto, un limite alla sua ascesa» per essere infine associata all’eterno Padre «nel trono della gloria, mentre era unita alla sua natura nella Persona del Figlio» (Discorso sull’Ascensione). In questo discorso, san Leone Magno precisa un’altra cosa importante: i giorni trascorsi tra la risurrezione e l’ascensione sono serviti al Signore per una serie di interventi con cui volle rinfrancare e infiammare nella fede i discepoli che «avevano trepidato per la tragedia della croce ed erano dubbiosi nel credere alla resurrezione». Il suo scopo era «insinuare negli occhi e nei cuori dei suoi», attraverso «l’evidenza della verità», che il Signore Gesù Cristo «era veramente resuscitato, come realmente era nato, realmente aveva patito ed era realmente morto».
La Chiesa ci insegna, in definitiva, che Gesù è venuto a salvare non soltanto la nostra anima ma tutta la nostra persona. Ha preso la nostra carne per rigenerarla inchiodando sulla croce il nostro peccato e la morte. Mentre qualche eresia sosteneva, al contrario, che Gesù non avrebbe assunto la carne umana perché impura e quindi il corpo dell’uomo non sarebbe capace di risorgere. San Gregorio Nazianzeno parla di questo “meraviglioso scambio” spiegando che il Verbo di Dio «si fa uomo per amore dell’uomo. Assume un corpo per salvare il corpo e per amore della mia anima accetta di unirsi ad un’anima dotata di umana intelligenza. Così purifica colui al quale si è fatto simile» (Discorsi). Restituendo lo splendore originario alla alla nostra immagine, che è fatta a Sua immagine, incorruttibile.
Il Natale di Gesù è un passaggio “a porte chiuse”: come al cenacolo e nel sepolcro.
E’ significativo che la sapienza della Chiesa ha stabilito al 25 marzo la festa dell’Incarnazione e al 25 dicembre quella del Natale: cioè i nove mesi di distanza, scientificamente esatti tra il concepimento e la nascita di Gesù.
A proposito di date, la Chiesa celebra poi l’1 gennaio la solennità di Maria Santissima Madre di Dio, titolo riconosciutole come dogma dal Concilio di Efeso nel 431. Fu Paolo VI, con il nuovo calendario liturgico da lui promulgato nel 1969, a ripristinare quest’antica festa mariana riportandola dall’11 ottobre all’1 gennaio cioè l’ultimo giorno dell’Ottava di Natale, con il grado di solennità. Ciò evidentemente per sottolineare il ruolo di Maria nel grande mistero dell’Incarnazione e la portata salvifica della sua maternità.
Ai tempi del Concilio avevo scritto a Paolo VI una lettera di incoraggiamento proprio perché dedicasse una festa solenne alla maternità di Maria: mi ero permessa di far notare che anche dentro gli ospedali, subito dopo aver festeggiato il bambino neonato, si va sempre a rendere omaggio alla mamma (non a caso, infatti, nelle tradizioni rituali siriache e bizantina, la ricorrenza è celebrata il 26 dicembre). Con tutto il rispetto per Santo Stefano, certe lacune probabilmente sono frutto di una teologia fatta da uomini di Chiesa, cui talvolta manca purtroppo un’adeguata sensibilità verso l’universo femminile. Mi piace pensare che il Papa, di fronte alla resistenza che trovava in certi teologi, abbia riletto anche la lettera di quell’ostetrica aretina nel decidere di riportare la festa della Maternità di Maria dentro le celebrazioni del Natale.
Per parlare del Natale a me piace usare un’altra stupenda opera artistica, quella del fiammingo Gherardo delle Notti (Adorazione del Bambino, Galleria degli Uffizi) per farci sopra tre riflessioni.
Prima riflessione. Il Figlio di Dio, come vero uomo, ha fatto tutto il nostro percorso ma, così come il suo concepimento è avvenuto in modo tutto speciale, così anche la sua nascita non è stata proprio come la nostra. Maria cioè non ha partorito previo travaglio come tutte le donne. Lo vedremo più avanti. Il suo travaglio è stato un altro: «lei che, preservata dal dolore quando lo diede alla luce, fu trapassata dalla spada del dolore quando lo vide morire» (san Giovanni Damasceno). Il fatto è che Maria è rimasta vergine: prima, durante e dopo. Questo significa che Gesù è passato a porte chiuse, perché Lui era Dio e poteva farlo: autore e Sovrano della materia. Come è passato a porte chiuse nel cenacolo, così è passato a porte chiuse, all’entrata e all’uscita, dal grembo della Madonna. Questo è un concetto semplicemente fondamentale, perché negare la verginità (totale) della Madonna è il primo passo per negare la divinità di Cristo: se non crediamo che Lui può passare a porte chiuse, vuol dire che noi dubitiamo che Lui sia Dio! Ed è l’anticamera di vecchie eresie. Sant’Agostino, come altri Padri della Chiesa, spiega che Maria è rimasta «Vergine nel concepimento del Figlio suo, Vergine nel parto, Vergine incinta, Vergine madre, Vergine perpetua» (Sermo 186, 1: PL 38,999).
La verginità di Maria risale alla profezia di Isaia che descrive così, 700 anni prima dell’evento, il segno che il Signore darà all’umanità: «Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele» (Is 7, 14). Dietro queste parole secondo me viene prefigurata la verginità della Madonna sia al momento dell’Incarnazione sia al momento del parto. Sant’Ireneo riflette su questo “segno” spiegando che l’uomo non avrebbe mai immaginato «che una vergine potesse diventare madre, partorendo un figlio pur restando vergine» (Contro le eresie). Nella solenne festa dell’1 gennaio, la Chiesa ci fa lodare con questa frase la figura di Maria: «Come il roveto, che Mosè vide ardere intatto, integra è la tua verginità, Madre di Dio» (Liturgia delle Ore, III antifona).
Una volta un famoso vescovo mi voleva convincere che la Madonna, secondo lui, avrebbe partorito aprendosi e chiudendosi un po’ come una conchiglia. Ma quella è un’immagine che descrive nient’altro che la dilatazione, ciò che avviene nelle donne per ogni parto naturale. Il fatto è che forse troppe volte, come dicevo, la teologia è stata scritta dagli uomini, che non hanno l’utero. Come quando i testi liturgici dicono che Maria “portò” Gesù (“Colui che i cieli non possono contenere, tu lo hai portato in grembo”), come se l’utero di Maria fosse un sacro contenitore. Ma la maternità non è questo, la maternità è un legame viscerale. E’ carne e sangue, pur senza fusione di materia. Lo spiega bene il vescovo sant’Atanasio, osservando che l’angelo non disse a Maria: colui che nascerà «in te», perché «non si pensasse a un corpo estraneo a lei», ma le disse «da te», perché «si sapesse che colui che ella dava al mondo aveva origine proprio da lei» (Ad Epittèto 5-9). Così che non se ne può negare la vera umanità.
Finiamo la riflessione. Non solo nella grotta e al cenacolo, ma anche nel sepolcro – al momento della Resurrezione – Gesù è passato a porte chiuse, manifestando di nuovo la sua potenza divina sopra le leggi della fisica. E questo lo affermano gli scienziati che, studiando la Sindone, osservano come se nel sepolcro quel telo si fosse improvvisamente afflosciato e il corpo che ci stava dentro lo avesse attraversato, lasciandovi impressa la propria immagine con un lampo enorme di luce e di energia.
Seconda riflessione. Gherardo, l’artista fiammingo, ci fa notare mirabilmente che più ci si avvicina a quel Bambino, e più si riceve in volto la Sua luce, che ci trasmette forza. E Maria, tra tutti, è la figura più vicina a Gesù. E’ sempre lei la più luminosa.
Terza riflessione. Noi siamo abituati a separare, a fare divorzi. Anche il Natale siamo abituati a tenerlo separato dalla Pasqua: tiriamo fuori il Bambinello per qualche settimana e poi lo rimettiamo nella polvere per un anno. Ma non abbiamo capito che «la nascita di Cristo è già Salvezza», spiega sant’Agostino, perché «a causa della salvezza che il Natale porta nel mondo si trovano così inscindibilmente congiunte Incarnazione e soteriologia». E lo ripete anche sant’Ambrogio: «è Maria che ha generato la Redenzione». Il beato Paolo VI proclamava al mondo che l’unica ragione della nostra felicità sta nella venuta di Cristo, che il Natale è la vera felicità della storia: «Noi rivendichiamo al Natale di Cristo la ragione ed il merito di fare il mondo felice […] proclamiamo che l’avvento di Cristo fra noi è la nostra fortuna, è la nostra felicità» (Messaggio urbi et orbi, 25 dicembre 1967).
Maria, la Grande Madre, sempre vergine: riferiti a lei, immune dal peccato, vanno ripensati i concetti di “concepimento”, “parto” e “morte”.
In definitiva, i tre concetti “concepimento”, “parto” e “morte” non si possono riferire alla figura della Madonna così come noi li intendiamo comunemente. Perché questi tre eventi sono in lei, ciascuno a suo modo, manifestazione di un’azione divina, cioè sono avvenuti ad opera dello Spirito Santo. Quindi secondo me andrebbe ripensato anche il termine per esprimerli in un modo più adeguato: in lei il concepimento è una “transustanziazione”, il parto è un “passaggio”, la morte è una “traslazione”.
Per quanto riguarda il concepimento di Gesù, essendo avvenuto nel corpo di una donna senza concorso di uomo, mentre in biologia dovremmo parlare di “partenogenesi”, in teologia io preferirei usare questa espressione: l’Incarnazione è avvenuta mediante transustanziazione della materia (ovulo di Maria), come abbiamo visto in precedenza.
Per quanto riguarda il parto, la nascita da parto vergine di Cristo è l’unico modo che rispetta le due nature del Verbo Incarnato: generato dal Padre quale Dio, generato da Maria quale uomo. Quindi, come abbiamo detto, non credere al parto verginale significa non credere che quel Bambino è Dio.
La nascita da parto verginale è, in se stessa, espressione di un’azione divina. Per rispettare la verginità totale di Maria, come profetizzato da Isaia. All’obiezione «Io non conosco uomo», è come se il Padre le avesse risposto: «Ma io sono Dio e ti rispetto nella tua libertà». E quindi in lei il parto è un passaggio che non infrange.
Maria, non avendo in sé il peccato originale, non poteva subirne gli effetti: tra cui il “partorirai con dolore” (Gn 3, 16).
Sulla questione del parto della Madonna, io personalmente concordo con la visione della mistica Maria Valtorta, datata 1943. Lei riferisce di aver veduto in questi termini la nascita di Gesù: «la luce si sprigiona sempre di più dal corpo di Maria» che ormai è «la Depositaria della Luce che lei deve dare al mondo». Nella grotta, prosegue la Valtorta, «la luce cresce sempre di più» divenendo «insostenibile all’occhio»: in essa la Madonna «scompare come assorbita» e poi «quando la luce torna ad essere sostenibile», ne emerge «la Madre vergine». E la Valtorta vede «Maria col Figlio neonato sulle braccia».
La descrizione richiama secondo me in modo impressionante ciò che gli scienziati affermano della Sindone, cioè il passaggio di un corpo “a porte chiuse” attraverso la materia, in un bagliore enorme di luce e di energia. E’ come se la Madonna, ad un certo punto, si fosse ritrovata Gesù Bambino tra le braccia. Questo concetto me l’ha trasmesso don Guido Orlandini, sacerdote straordinario che guidava l’Azione cattolica diocesana tra gli anni ’50 e ’60.
Il popolo cristiano, nella notte di Natale, esulta cantando: «la luce del mondo brilla in una grotta». Ugualmente durante la veglia pasquale, nella liturgia della luce, noi adoriamo Cristo «Luce del mondo». E’ Gesù stesso ad aver dato questa definizione di sé: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12).
Sant’Ignazio di Antiochia dice che la verginità intra parto di Maria non è un semplice fatto trascurabile ma è un evento che coinvolge la fede. Non è la verginità di Maria oggetto della nostra fede ma il concepimento verginale del Verbo, senza concorso di uomo. E anche la nascita verginale appartiene al mistero dell’Incarnazione. Potremmo affermare, cioè, che la verginità di Maria è un mezzo per affermare la divinità di suo Figlio.
I Padri della Chiesa spiegano che questo mistero della nostra salvezza era sconosciuto al demonio. La carne di Cristo doveva sconfiggerlo. Gesù, infatti, «volendo riconciliare con il suo Creatore la natura umana, l’assunse lui stesso in modo che il diavolo, apportatore della morte, fosse vinto da quella stessa natura che prima lui aveva reso schiava» (san Leone Magno, Discorsi). San Massimo il Confessore dirà: «Dio si fa perfetto uomo, non cambiando nulla di quanto è proprio della natura umana, […] Si fa uomo per provocare il dragone infernale avido e impaziente di divorare la sua preda, cioè l’umanità del Cristo. Cristo, in effetti, gli dà in pasto la sua carne» che però «doveva tramutarsi per il diavolo in veleno. La carne abbatteva totalmente il mostro con la potenza della divinità che in essa si celava». Per San Massimo tuttavia il grande mistero dell’incarnazione divina «rimane pur sempre un mistero» (“500 Capitoli”). Santa Teresa d’Avila è una delle figure che più a fondo hanno contemplato quanto la nostra salvezza passi dall’umanità di Cristo.
Io dico che di fronte al Presepe non ci sono trattati per capire. Bisogna solo genuflettersi in povertà, per contemplare e adorare, con tutta la nostra miseria. Ecco allora i pastori, i bambini, i re. Ma prima di tutti il somaro: che resta in ginocchio davanti ad un gran mistero di cui capisce poco ma che lo rende felice. Questa è la nostra collocazione nel Presepe.
In conclusione, tra Gesù e Maria c’è un legame inscindibile, grandioso, eterno. Splendido! Come a Betlemme in quella grotta, anche sotto la croce troviamo un Figlio e sua Madre. Così pure in Paradiso, con il loro corpo trasfigurato ad attenderci, ci sono loro due: gli inseparabili.
Il rapporto inscindibile tra Gesù e Maria.
Nel mio cammino mi sono lasciata tenere per mano essenzialmente da questa donna stupenda: «umile e alta più che creatura», dice Dante. E’ lei la Signora Provvidenza. E’ lei la Perfetta regista della storia, di ogni storia. E anche della storia di Casa Betlemme. Per questo la ringrazio molto.
La missione di Casa Betlemme è contemplare il mistero dell’Incarnazione esaltando la Maternità di Maria (art. 1 dello Statuto), nel suo ruolo speciale di collaboratrice del Redentore, cioè di Corredentrice. Questa esaltazione oggi mi pare urgente perché c’è una forte corrente teologica che vorrebbe, per ragioni diplomatiche, minimizzare il ruolo della Madonna, relegarla al devozionismo da vecchiette. Ne parlavo tempo fa con Caffarra e gli dicevo: «scusi Eminenza, ma secondo lei, agli occhi del Figlio di Dio sarà più importante non disturbare i protestanti o non offendere la Sua Mamma?». Il cardinale sorrise e mi dava ragione.
Non esiste donna più autorevole e più grande della Madonna: donna del servizio, del dolore e dell’umiltà. Perciò è lei la donna che ha più autorità in cielo e in terra. Tanto da permettersi di dare ordini a Dio. A Cana, con la sua presenza regale e silenziosa, riesce ad “estorcere” al Figlio di Dio il primo miracolo. Appena saputo di essere incinta, era andata in fretta a prestare servizio ad un’altra donna gravida: è la Madre di Dio che si abbassa a servire nel ruolo di ostetrica. Scusate il campanilismo ostetrico, ma ho amato troppo la mia professione e non posso tacere.
Nessuna donna come Maria ha provato le profondità del dolore: capace prima di espropriarsi del suo Bambino neonato per deporlo nella mangiatoia, quale pasto a nutrimento dell’umanità intera. E, dopo, rimanere in piedi sotto la croce per sostenere quel Figlio nell’obbedienza totale. Poi, al momento della croce, è Lui che si espropria della madre: poteva portarla con sé subito, invece la lascia a noi. Corredentrice dell’opera Sua: ci lascia una Madre speciale con il compito di guidarci a Lui, di proteggerci e di prepararci al ritorno del Figlio e al Suo abbraccio.
C’è un’altra corrispondenza tra il Figlio di Dio e sua Madre: deposto dalla croce, lei lo ha raccolto tra le sue braccia, come fa anche con noi. Lei infatti viene ad accogliere tra le sue braccia ogni persona al momento della morte, per presentarla – quale avvocata – davanti al trono di suo Figlio. Si arriva per mezzo di una madre e si parte tra le braccia della Grande Madre.
Io credo che Gesù abbia ricambiato il gesto di Maria, venendo con i suoi angeli a raccoglierla dalla terra nel momento esatto della dormitio: quando Lui l’ha assunta con sé in cielo, come lei lo aveva assunto in sé al concepimento. La Madonna infatti non è morta perché lei non poteva morire. Se infatti il dolore e la morte sono entrati nel mondo a causa del peccato (Gn 3; Rm 5, 12; Rm 8,22), lei che era senza peccato non poteva essere soggetta alla morte, come la intendiamo noi, perché ne mancava la causa. Lo stesso discorso, come abbiamo visto, vale per il concetto del parto, cioè il dolore del travaglio (Gn 3, 16). San Giovani Damasceno conferma: «Colei che nel parto aveva conservato illesa la sua verginità, doveva anche conservare senza alcuna corruzione il suo corpo dopo la morte»
E ora ascoltiamo da Davide un altro canto di cielo (segue canzone “Sua Madre”).
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TERZA PARTE
LA GRANDEZZA DELLA DONNA: FEMMINA, SPOSA E MADRE
E arriviamo al terzo passaggio: dalla Madonna alla donna, nella realtà dei nostri giorni. Anche qui partiamo da una citazione illustre che voglio smontare. Un famoso teologo cattolico oggi di moda, sul quotidiano Repubblica affermava l’anno scorso che la figura di Maria, come vergine e madre, non può essere un modello per le donne: «Nella Chiesa c’è una buona volontà ma poi della donna si hanno immagini irreali: il modello di Maria, vergine e madre, che non può essere il riferimento per una promozione della donna nella Chiesa […]». Io penso esattamente l’opposto, cioè che nella grandezza della maternità della Madonna si ricapitola ogni maternità. Di solito riassumo il concetto tramite una mia equazione con cui possiamo definire il «nuovo femminismo» (Evangelium vitae n. 99): la vita umana sta al genio femminile come la Salvezza sta al genio di Maria, fratto Incarnazione. Tradotto: Dio umanato, e uomo divinizzato: grazie alla donna.
Adesso vi voglio parlare di alcune cose che ho capito in questi cinquant’anni di movimentato servizio, un po’ vulcanico. Nonostante alcune intellettuali pensino il contrario e vedano i figli come un ingombro, io sostengo che la maternità è l’elemento costitutivo della nostra natura femminile. E’ nella maternità che la donna si realizza pienamente. Ma non c’è solo la maternità fisica: c’è quella adottiva e quella spirituale. Perché per ognuno Dio, che è Padre buono, ha un progetto d’amore personalizzato. Lui ci ha impastati e conosce i nostri bisogni. Come ho scritto tanti anni fa in qualche poesia, posso dire per esperienza: «Cecio, Pulcino giallo, Lalli, Coccolino, Boba, e tutti gli altri…/ Di voi posso dirmi mamma./ Il mio utero non vi ha generati / ma non per questo vi ho meno amati. […]». «Bambino, venuto a me / per altra via: affido e adozione./ Per te io vivo / un immenso gaudio./ Mi hai resa madre,/ donna feconda,/ felice di questo cammino./ Grazie, tesoro». (F. Gualdani, Betlemme Betlemme, speranza futura. Canto alla vita. Scritti spirituali e poetici, 1958-1998, ed. Letizia, Arezzo 2013).
Ogni donna deve sentire di appartenere a qualcuno: ad un marito o a Cristo. E ogni donna deve gioire di sentirsi femmina, madre e sposa: tre dimensioni che devono andare in armonia. Questo vale anche per la suora, per essere capace di tenerezza nella sua gioiosa scelta di oblazione.
La donna è visceralmente madre: nella mente, nel cuore e nel corpo. Non esiste contestazione capace di negare questo. Perché la maternità è realtà ontologica, cioè sostanza profonda della natura femminile. Lo dimostra il fatto che la donna resta madre anche quando il figlio non è più. Il sangue è indelebile, perché la vita che lei dona è eterna. Come dice la Bibbia, un giorno o mille anni sono la stessa cosa.
Il valore della maternità: come le facce di un diamante.
Il problema è che la donna occidentale moderna ha da recuperare molto del valore bello della maternità. Un valore enorme con più facce, come un diamante risplendente. Vediamone alcune.
La maternità come splendore della donna, perché quando diventa madre, per lei è come una rinascita, dove raggiunge il suo massimo splendore. Così è per ogni donna: prostituta, drogata, agnostica. Sempre donna è. E con la maternità diventa donna trasformata, trasfigurata. Anche la donna vittima di violenza. Ho visto con i miei occhi come il bambino sia amore nuovo, diverso. E’ altro dal male subìto. Lui porta speranza e rinnova la vita. La ferita di quella violenza viene superata dalla potenza dell’amore materno. Che è invincibile. Una madre, per difendere il figlio, è più forte di una leonessa.
La maternità come capitale, cioè bene economico. I figli sono il capitale umano, quindi la forza e il futuro della società. Una società di vecchi non ha futuro. Anche gli economisti si stanno rendendo conto che la crisi dell’economia occidentale è molto legata al crollo della natalità. E’ l’utero gravido che dà vita alla storia. «Finché un pesce guizza,/ il filo d’erba spunta,/ e un bimbo nasce./ C’è speranza / per la barca della vita./ Grazie a chi ama la vita».
Poi la maternità come bene dell’ecologia umana. Cioè garanzia di equilibrio tra i popoli: un popolo che non genera, oltre danneggiare se stesso, danneggia l’armonia della Creazione che invece ha previsto la varietà della popolazione. Come in un bel giardino di primavera, dai vari colori. Così è l’armonia dei diversi colori della pelle. Se noi cristiani europei continuiamo a chiuderci alla vita, saremo lentamente (e pacificamente) sopraffatti dai popoli migranti che invece arrivano da noi con donne giovani che generano molti figli. Lo dicono i demografi.
E poi la maternità come ecumenismo, che supera confini ideologici o religiosi. Racconto spesso un episodio illuminante che mi è capitato qualche anno fa. Si presentò a Natale una coppia musulmana con il bambino in braccio. Erano stati accolti a Casa Betlemme nel periodo difficile della gravidanza: per ringraziare mi vollero regalare, pur essendo indigenti, un piccolo crocifisso d’oro come segno del rispetto che avevano sperimentato. Mi dissero: «sappiamo che questo giorno [Natale] e questo simbolo [Crocifisso] per te sono importanti». Rimasi colpita, anzi stordita. Quell’episodio mi fece capire che la maternità è la religione sopra le religioni e le unisce tutte, perché è la religione dell’amore uguale per tutti: l’amore materno, che tutti ci ha generati. E’ questo l’ecumenismo vincente: la maternità quale abbraccio di fraternità universale. Perché è unico il cuore di madre.
Le ricette della nonna: per la felicità e per la bellezza della donna.
Per concludere, vi lascio alcune ricette per custodire la vostra felicità di coppia e la vostra bellezza. Data la mia età, prendetele come la ricetta di una nonna che vi vuole bene. Si tratta di alcune convinzioni che mi sono fatta in mezzo secolo di ambulatorio ostetrico, che è un confessionale molto speciale.
Se volete trovare la vera felicità, imparate anzitutto a rispettare la vostra natura come Dio l’ha creata, ad amarla nella sua meravigliosa fisiologia femminile, che è sacra nella sua sapienza perfetta, anche dalla cintola in giù. L’ha scritto Paolo VI nell’enciclica Humanae vitae. Sia agli sposi che ai consacrati spiego che Dio non ci ha fatto con le ali ma con i genitali. Non bisogna cioè cadere nell’angelismo e nemmeno nel relativismo morale, quello che va di moda e dice: “Credo in Dio ma la morale a modo mio”. Dovete approfondire e capire come il Creatore ha progettato la nostra fisiologia riproduttiva, piena di segni e significati. Lui ha dato alla donna le chiavi della vita, nella ciclicità della fertilità. Ha scelto la donna come regina della vita. La vita umana è sacra, ma è sacro anche quel gesto con cui voi sposi avete il potere di trasmetterla. E’ un gesto santo e santificante. Giovanni Paolo II diceva che è un atto di adorazione, se compiuto come Dio l’ha pensato nel suo bel progetto.
Due sono i tabernacoli della terra: l’uno dove abita l’Autore della vita. L’altro: il grembo di una donna dove germoglia la vita. Due sono gli altari: quello dove il sacerdote è ministro della Vita, e il letto nuziale dove gli sposi amministrano la trasmissione della vita.
La donna invece è stata lentamente espropriata della sua potenza riproduttiva. L’uomo sta accellerando il suo più grave divorzio da Dio, dall’ordine della Creazione, da quando ha messo le mani sull’albero della vita, cioè con la tecnologia riproduttiva. Tutto è cominciato con la contraccezione. Da lì la creatura si è impegnata a correggere il Creatore, facendosi del male. E’ il peccato più vecchio del mondo. Benedetto XVI ha detto che la nostra «è l’epoca del peccato contro il Creatore». Non ho tempo di spiegarvi i danni della contraccezione e della fecondazione artificiale, oppure il confine sempre più sottile tra aborto e contraccezione (cioè gli effetti microabortivi di tutta la contraccezione farmacologica).
Il cerchio della vita: la scienza che torna a riconoscere la sapienza del Creatore.
Quello che voglio dirvi è che il mondo scientifico, osservando i danni di questo divorzio da Dio, ha iniziato a ripensare e sta lentamente rivalutando la sapienza del Creatore, cioè i benefici del rispetto della fisiologia. Io lo definisco “il cerchio della vita”. Il pensiero medico cioè, passo dopo passo, sta ritornando verso la natura. Prima ha capito che dobbiamo de-medicalizzare la gravidanza. Cioè che la gestazione non è una malattia. Anche se continuiamo con l’accanimento di diagnosi, che dà solo stress alla donna, e il bambino ne risente. E’ frutto della nostra “cultura dello scarto”, con fini eugenetici.
Poi ha capito che dobbiamo de-medicalizzare il parto. E avete visto fiorire le “case del parto”, parto naturale, in acqua, il ritorno del parto a domicilio e altro. Perché è molto bello nascere in famiglia, nel lettone dell’amore e della vita. Poi si è capito quanto è importante l’allattamento naturale, al seno: con i suoi molti vantaggi, non ultimo quello economico. Ma io mi permetto di darvi un suggerimento in più: allattamento al seno senza veleno, cioè senza nicotina e senza “pillolina”. Dopo il parto vi consigliano infatti di non mettere nel vostro latte materno la nicotina. Però vi consigliano di assumere ormoni di sintesi (la cosiddetta minipillola) e io questa la considero una grave contraddizione: chi vi dice che quegli ormoni sono completamente innocui per la salute del vostro bambino? Il discorso sarebbe lungo. Ad oggi nessuno ve lo può ancora dimostrare. Dovremmo riparlarne tra qualche generazione.
L’ultima tappa, che chiude il cerchio della vita, sarà la de-medicalizzazione nella gestione della fertilità. C’è chi ancora si ostina a fare resistenza, per una serie di motivi. Ma il futuro è dei metodi naturali. Lo ripeto: il futuro è dei metodi naturali. Ne va della qualità della generazione e della qualità dell’amore, cioè della famiglia. La contraccezione è una proposta vecchia. E la provetta non ha futuro. Perché la natura non tollera a lungo la violenza: cioè la riproduzione artificiale che è una “rapina” all’Autore della vita mediante alterazione degli eventi naturali.
Qui c’è un concetto importante da chiarire: i metodi naturali non sono una “tecnica cattolica per non fare figli” ma uno stile di vita fatto di conoscenza di sé ed esercizio della virtù per amore, nella reciproca fedeltà in una ragionevole apertura alla vita.
Esercizio della virtù significa imparare la disciplina della castità. Parola profetica nella nostra società decadente fatta di melma e sangue. E’ virtù non banale ma basilare per ogni vocazione: per la salute dei giovani, per l’equilibrio di una vita consacrata, per la fedeltà e la felicità degli sposi. Imparando questa virtù, con i metodi naturali, vedrete crescere il vostro amore nel rispetto e nello spessore. Alla gioia del gesto sessuale nulla sarà tolto, gli verrà restituita pienezza e bellezza.
I metodi naturali sono il modo per costruire famiglie solide in un’epoca dove si parla di “amore liquido”. Essendo una pratica della virtù, sono una prevenzione dell’adulterio. E la contraccezione è la prima forma di divorzio: significa infatti dire che l’uomo accetta tutto della donna tranne che la sua potenza riproduttiva, e quindi va a dividere la sessualità dalla fecondità per cercare di rendere sterile quel gesto. Non si può dire “Padre Nostro…Creatore” e poi usare la contraccezione, perché quella contraccettiva è una mentalità che, in definitiva, non considera Dio il Padre Creatore ma un patrigno, che ha fatto bene tutto tranne che dalla cintola in giù.
Paolo VI diceva che «il peccato nel matrimonio è il cancro della società». Oggi purtroppo c’è una corrente teologica e pastorale che, pur di andare a braccetto con il mondo, finisce per benedire questo tipo di peccato, mentre sapete che Giovanni Battista e Tommaso Moro si fecero tagliare la testa pur di ribadire la verità sul matrimonio, la morale coniugale. Noi vogliamo testimoniare che la Chiesa è profetica e portatrice di un vangelo della sessualità. La forza di questo vangelo l’hanno riconosciuta anche i poveri dell’India, grazie a Madre Teresa. O nella Cina comunista. Invece da noi in occidente si continua a rifiutarlo proprio perché c’è di mezzo questa parolina “castità” che a molti rimane indigesta.
Sappiamo di non essere naturalmente casti perché la nostra natura umana, ferita dal peccato, tende alla concupiscenza. Servono quindi la disciplina e la Grazia: la castità è una virtù che si conquista soltanto mediante la volontà e la preghiera. La castità ci matura come persone e ci educa all’umiltà poiché ti mette in ginocchio e ti fa riconoscere la tua fragilità. Eppure non si sente mai parlare della grande ricchezza della verginità. Oggi non si crede più al suo valore, si considera una cosa inutile e disumana, una cosa sorpassata che non serve più.
Se ci pensate bene, anche tutto il dibattito infuocato dei recenti Sinodi si ricapitola in fondo sulla grande questione della castità. E’ sempre quello il nodo che viene al pettine: sulla comunione ai divorziati si discute sul vivere “come fratello e sorella”. E non si propone la fedeltà al sacramento dopo il tradimento. Idem sulla contraccezione: si vuole aprire alla contraccezione perché si pensa che i coniugi non siano capaci di astinenza periodica cioè di vivere la virtù con i metodi naturali. E lo stesso per il celibato dei sacerdoti: la questione parte dal rifiuto della castità. E i danni si allargano a macchia d’olio nella società. E’ sufficiente leggere la cronaca.
Gli ultimi due consigli sono questi. La migliore cura per la vostra bellezza non passa per l’estetista ma dal confessionale. Perché la confessione non è un trucco, non mette toppe, ma rifà nuova la coscienza, la libera dalle incrostazioni e fa brillare la bellezza che c’è in ognuno.
E infine, imparate ad essere ostetrici l’uno dell’altro, cioè a portare alla luce la bellezza del vostro sposo o della vostra sposa. E’ così che avrete il biglietto d’ingresso lassù, alla discussione della vostra “tesi finale”.
Il matrimonio sacramento è un’Incarnazione dell’Amore, per camminare insieme verso la gioia del Cielo. E’ sentirsi l’uno responsabile della santità dell’altro. Lui-lei devono generarsi a vicenda nell’amore totale. «Ti abbraccio mia bella/o e in te abbraccio anche la mia croce. Benedetta croce!».
Siamo costituzionalmente poveri, mancanti. Ma tu sei, in Cristo, corresponsabile della santità del tuo sposo, cioè della sua felicità per sempre. E’ questo il Sacramento che rende felici, tra le tribolazioni.
Aiutalo/a a costruirsi. Generalo/a, dallo/a alla luce. Partoriscilo per il cielo!
Elimina le competizioni, le provocazioni, che portano ai rinfacci umilianti. Pratica la cultura del “secondo posto”. Cedi. Non volere vincere sempre. Un pò di umiltà è vittoria. Allora lo/a ami secondo Cristo che ama la persona così com’è, mirando sempre a farla crescere. Gesù non ama i nostri peccati, ma ci ama peccatori quali siamo.
Non devi amarlo/a nonostante i difetti, ma amalo/a perché ha quei difetti, che ti fanno esercitare le virtù che a te mancano: pazienza, umiltà, servizio, silenzio, iniziativa nel perdono. Quindi è la donna giusta per te, compresi i suoi difetti. Ringraziala/o anche per questo.
Grazie, Alleluja! Adesso Davide chiuderà, da sposo, con l’ultima canzone (segue canzone “Davanti a Dio”. La prospettiva eterna di un amore).
L’incontro si conclude con la consegna della seguente meditazione di lode, composta da Flora l’8 marzo 2010, per la festa della donna.
Dall’amore umano all’amore divino
Esaltazione della maternità:
in Maria, nella Chiesa, nella donna, in noi stessi
Iniziamo con un grazie alla nostra carissima Madre celeste.
E’ lei che ha permesso il nostro esserci, ciascuno con una missione particolare.
Ma, insieme a lei, dobbiamo dire grazie anche alla mamma che ci ha generato.
Viva o morta che sia, diciamole un’Ave di gratitudine, forse di pace. Ave…
- Ringraziamola per il travaglio di parto e di vita, sofferto a nostro favore.
Veniamo da molto lontano, ma è il suo grande amore che ha permesso il realizzarsi di un sogno di Dio: la nascita del bambino che fummo.
Tutti siamo figli, non tutti generiamo, ma tutti siamo stati generati.
E rimaniamo figli per sempre, con il dovere di gratitudine anche quando la madre non c’è più.
- E ad ogni madre dobbiamo un grazie grande. Dovremmo sempre inchinarci di fronte ad una gestante: in lei palpita la storia umana, che prosegue di secolo in secolo.
Ogni maternità, come un “raggio di luce”, tende a tornare alla sua fonte, a Maria, la tenerezza personificata. Immacolata e luminosa trasparenza della Trinità.
E’ Maria la vera madre del Verbo Incarnato e la madre nostra.
- E’ nel travaglio del calvario che ci ha partoriti. Per sempre.
«Donna, ecco tuo figlio!…Ecco tua madre» (Gv. 19, 26-27).
Attraverso una mamma siamo arrivati, e tra le braccia di una Mamma ripartiremo.
Lei è presente ad ogni Golgota, dove abbraccia ogni suo figlio.
Per questo è obbligo l’Esaltazione della Maternità di Maria.
La celebrazione del primo gennaio, della Mater Ecclesiae, è una festa eterna.
«Beato il ventre che ti ha portato. Beato il seno che ti ha allattato!» (Lc. 11,27).
Il sangue di Gesù è di origine mariana. Dio ha DNA mariano.
E’ la madre la prima nostra maestra, e i suoi insegnamenti sono indelebili, perché è il suo grande amore che ce li trasmette.
«E’ contemplando la maternità di Maria che la Chiesa scopre il senso della propria maternità
e il modo con cui è chiamata ad esprimerla» (Evangelium vitae n. 102)
- La Chiesa è la nostra Madre: per questo è la maestra della nostra vita,
è lei che ci genera nella Grazia e ci guida nel cammino.
Non rispettarla nel suo Magistero o annacquarla nei suoi insegnamenti è da figli ingrati e degeneri.
Si vive e si cresce appoggiati al seno di una Madre che ci nutre: la Chiesa,
cara, buona, sicura e sapiente maestra nostra. Le siamo riconoscenti.
- Dio è Padre e Madre,
come ha detto Giovanni Paolo I. A Sua immagine e somiglianza ognuno è Padre e Madre.
Dimenticarlo è non rispettare la nostra natura umana, quindi è non essere in pace con noi stessi.
Per natura siamo esseri amanti e generanti. Generanti perché amanti: amore fraterno di tenerezza, amore paterno e materno di dono e sacrificio, tanto fisico quanto spirituale. Dono che dà senso e gioia alla nostra storia.