2241 Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto naturale, che pone l’ospite sotto la protezione
di coloro che lo accolgono.
Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del paese che li accoglie. L’immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri” ( Catechismo della Chiesa cattolica, http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p3s2c2a4_it.htm)
Benedetto XVI:
“[…] Certo, ogni Stato ha il diritto di regolare i flussi migratori e di attuare politiche dettate dalle esigenze generali del bene comune, ma sempre assicurando il rispetto della dignità di ogni persona umana. Il diritto della persona ad emigrare – come ricorda la Costituzione conciliare Gaudium et spes al n. 65 – è iscritto tra i diritti umani fondamentali, con facoltà per ciascuno di stabilirsi dove crede più opportuno per una migliore realizzazione delle sue capacità e aspirazioni e dei suoi progetti. Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con il Beato Giovanni Paolo II che «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione» (Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni, 1998). Oggi, infatti, vediamo che molte migrazioni sono conseguenza di precarietà economica, di mancanza dei beni essenziali, di calamità naturali, di guerre e disordini sociali. Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa allora un «calvario» per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria. Così, mentre vi sono migranti che raggiungono una buona posizione e vivono dignitosamente, con giusta integrazione nell’ambiente d’accoglienza, ve ne sono molti che vivono in condizioni di marginalità e, talvolta, di sfruttamento e di privazione dei fondamentali diritti umani, oppure che adottano comportamenti dannosi per la società in cui vivono. Il cammino di integrazione comprende diritti e doveri, attenzione e cura verso i migranti perché abbiano una vita decorosa, ma anche attenzione da parte dei migranti verso i valori che offre la società in cui si inseriscono. A tale proposito, non possiamo dimenticare la questione dell’immigrazione irregolare, tema tanto più scottante nei casi in cui essa si configura come traffico e sfruttamento di persone, con maggior rischio per donne e bambini. Tali misfatti vanno decisamente condannati e puniti, mentre una gestione regolata dei flussi migratori, che non si riduca alla chiusura ermetica delle frontiere, all’inasprimento delle sanzioni contro gli irregolari e all’adozione di misure che dovrebbero scoraggiare nuovi ingressi, potrebbe almeno limitare per molti migranti i pericoli di cadere vittime dei citati traffici. Sono, infatti, quanto mai opportuni interventi organici e multilaterali per lo sviluppo dei Paesi di partenza, contromisure efficaci per debellare il traffico di persone, programmi organici dei flussi di ingresso legale, maggiore disponibilità a considerare i singoli casi che richiedono interventi di protezione umanitaria oltre che di asilo politico…” https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/messages/migration/documents/hf_ben-xvi_mes_20121012_world-migrants-day.html
I vescovi africani, oggi, ai giovani:
C’è una prospettiva che di solito manca nella riflessione sugli attuali flussi migratori dall’Africa. Cresce la preoccupazione di come fare a mantenere centinaia di migliaia di persone che vanno nutrite, alloggiate, vestite da capo a piedi, se necessario curate; e che, per di più, si aspettano e reclamano televisori, reti wifi, mezzi di trasporto, sistemazione in centri urbani e, qualcuno, una occupazione all’altezza del proprio titolo di studio: perché molti vantano diplomi di scuola secondaria e persino universitari.
Qualcuno incomincia anche a domandarsi se sarà possibile assimilare una simile massa di persone culturalmente così diverse da noi e tra di loro. Ma nel complesso prevale l’idea che sia un dovere morale accoglierli nel presupposto che si tratti sempre di persone salvate da morte certa per fame e violenza e che ospitarli sia indiscutibilmente bene per loro, utile, positivo: anche se sarebbe meglio “aiutarli a casa loro”, cosa che peraltro molti intendono solo nel senso che costerebbe di meno e semplificherebbe le cose.
Non si pensa innanzi tutto che il traffico di emigranti è un commercio fiorente, miliardario, anche perché, come per tutte le attività economiche, chi ci lavora non si limita ad aspettare che arrivino i clienti, ma li va a cercare, li alletta, crea nella gente lo stimolo e il desiderio di partire. Come? Prospettando e promettendo meraviglie. A chi? Soprattutto ai giovani: in maggioranza maschi, ma non solo, per lo più scolarizzati e residenti in centri urbani dove loro o i loro genitori sono emigrati lasciandosi alle spalle campi, pascoli, villaggi e miseria.
Ma l’esodo di centinaia di migliaia di giovani – ed ecco la prospettiva che manca – produce danni economici, sociali, culturali enormi, irreparabili ai paesi di origine, privandoli di parte della più importante risorsa di ogni comunità e di ogni nazione: il suo capitale umano. Peggio ancora se quei giovani vengono convinti a emigrare in un paese in difficoltà come l’Italia dove quasi il 6% delle famiglie vive in condizioni di povertà assoluta, per un totale di oltre quattro milioni di persone, dove il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 12,7%, il 44,2% quella giovanile, dove sono ormai oltre 100.000 i cittadini che ogni anno emigrano (quasi metà di età compresa tra i 20 e i 40 anni): e dove quindi il destino di molti giovani immigrati è di essere sì provvisti di tutto, ma restando inattivi, assistiti in permanenza da cooperative, Ong e altri enti. Può apparire una discreta opzione, almeno nei primi tempi, quella di vivere senza lavorare e chissà che effetto fanno agli amici e ai parenti rimasti in patria i selfie che li mostrano con sneakers di marca, berretti con visiera, felpe con logo, smartphone e bicicletta.
Neanche l’eventualità che riescano a mandare del denaro a casa va considerata un successo. Si stimano in quasi 40 miliardi di dollari le rimesse degli africani all’estero. Ma in gran parte vanno a integrare i redditi dei parenti rimasti a casa: e sono spese in acquisti, in consumi, creando altre situazioni di dipendenza.
Si può immaginare il rammarico di chi lucidamente guarda al futuro di quei giovani e dei loro paesi. «Voi siete il tesoro dell’Africa. La Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi», ha detto rivolgendosi ai giovani Monsignor Nicolas Djomo, Presidente della Conferenza episcopale della Repubblica Democratica del Congo, nel discorso di apertura dell’Incontro della Gioventù cattolica panafricana che dal 21 al 25 agosto ha riunito a Kinshasa 120 delegati provenienti da 11 stati africani. «Non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i vostri paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America – ha proseguito – guardatevi dagli inganni delle nuove forme di distruzione della cultura di vita, dei valori morali e spirituali. Utilizzate i vostri talenti e le altre risorse a vostra disposizione per rinnovare e trasformare il nostro continente e per la promozione di giustizia, pace e riconciliazione durature in Africa».
L’incontro è stato organizzato dal Simposio delle Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar. In un messaggio a nome del Segretario Generale dell’organismo, Padre Joseph Komakoma ha illustrato le prossime attività in cui le Chiese africane si propongono di coinvolgere i giovani. Tra le altre, le celebrazioni dell’Anno Africano della Riconciliazione, iniziato il 29 luglio 2015; la creazione di un’organo continentale dei movimenti d’azione cattolica dei giovani e dei bambini; forse anche organizzazione di una Giornata Mondiale della Gioventù Africana.
Ribadendo le parole di Monsignor Djomo, padre Komakoma ha ricordato a sua volta che «i giovani sono la parte più importante della popolazione sulla quale la Chiesa conta in modo prioritario per l’evangelizzazione e la promozione della pace, della giustizia, della riconciliazione e dello sviluppo del continente».
Emigrare non sempre è indice di intraprendenza e determinazione. Può invece equivalere a una resa. Più coraggioso e giusto può essere provare a costruire una società migliore, invece di cercare soluzioni individuali ai propri problemi lontano da casa. http://www.lanuovabq.it/it/articoli-i-vescovi-africani-ai-giovani-non-emigrate-13636.htm
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