Gloria Riva (Monza 1959) accanto alla sua passione per l’arte, coltiva lo studio della Sacra Scrittura, della Patristica e della spiritualità di Madre Maria Maddalena dell’Incarnazione. Ha pubblicato con la casa editrice san Paolo: Nell’arte lo stupore di una Presenza, Frammenti di Bellezza, Testimoni del Mistero. Quadri sul Vangelo di Luca; con Fabio Cavallari, Volti e Stupore, uomini feriti dalla bellezza. Dal febbraio del 2007 si è trasferita nella Diocesi di San Marino-Montefeltro dove ha fondato una comunità Monastica.
Gloria Riva, lei ha avuto una esperienza di pre morte. Ce la può descrivere?
A ventun anni ero fidanzata e stavo muovendo timidi passi verso la fede (abbandonata da qualche anno, in seguito a varie vicissitudini). Dopo un viaggio a Lourdes, dove ero rimasta colpita dal clima di preghiera, uscii un sabato sera con il mio fidanzato, diretta in discoteca.
Giunti a un semaforo, disposto al verde, attraversammo l’incrocio e dall’altra parte della carreggiata vidi arrivare una vettura a velocità elevatissima.
Ci fu lo schianto e poi, per me, il silenzio e il buio. Ebbi la percezione netta di essere alla fine della mia vita e mi abbandonai totalmente a questa drammatica eventualità. Immediatamente percepii, dentro quell’oscurità, una grande pace e una grande serenità. Si aprì allora al mio sguardo una piccola luce bianchissima che mi veniva incontro dilatandosi. La pulsione beatifica di quella luce era come un richiamo. Ebbi la certezza che Dio era là e che Dio era amore. Desiderai con tutte le forze raggiungere quella luce ma vidi scorrere la mia vita davanti a me come in un film, ed ebbi la totale chiarezza di giudizio su di essa. Quella luce era amore, gratuito e quella gratuità nella mia vita non c’era. Mi avvolsero, così, due sentimenti contrastanti. Da un lato un dolore grande: l’eternità mi si offriva in tutta la sua bellezza e io non la potevo raggiungere; Dio non mi giudicava, semplicemente si mostrava a me con la sua verità, ero io a giudicarmi e a comprendere tutta la dissomiglianza. D’altro lato però provai una gioia indicibile: ero pensata, amata, voluta per questo tempo, per questa storia. Non siamo un gioco a dadi, un caso in balia di un destino capriccioso.
Quando mi rianimarono provai la sensazione del rifiuto della vita: avevo sette fratture, trauma cranico, emorragia interna. Ero una specie di puzzle da ricomporre. Immobile. Il ricordo di quella luce però fu come la cartina di tornasole e avrei desiderato fin da subito gridare a tutti che non si muore.
Mi sono ritrovata spesso a riflettere su ciò che mi era accaduto durante il mio stato di incoscienza. Mi sorpresi nel ricordare alcuni particolari che non riuscirei a ricollocare in ordine temporale, rispetto alla visione della luce. Dopo che mi liberarono dalle ferraglie dell’autovettura, vidi, riconobbi e salutai un caro amico che, in servizio alla croce rossa, era giunto a soccorrermi. Lui mi disse, in seguito, di avermi trovata immobile, apparentemente morta. Vidi il mio corpo come dall’alto e inorridii nel vedere una gamba completamente rovesciata rispetto alla direzione naturale, e tutta la gente sopra il mio corpo. Vidi infine il mio ragazzo sul ciglio della strada, con le mani strette ai fianchi, mentre ansimava pesantemente e provai dolore per il suo stato, mentre per il mio non provai nulla. Non sentii invece molte cose che infastidirono alquanto il mio fidanzato, come ad esempio lo strillare delle sirene dei carabinieri, dell’ambulanza e dei vigili del fuoco.
Sono giunta alla conclusione che i miei sensi erano sollecitati solo da relazioni affettive (l’amico, me stessa, il mio ragazzo).
Spesso si legge che chi ha vissuto una simile esperienza, poi ha cambiato stile di vita. Cosa è successo nel suo caso?
Rimasi in ospedale(tra uscite e rientri) sei mesi. Quei mesi cambiarono la mia vita. Come scrisse un giorno Andrè Frossard: Dio era dietro di me; a volte anche davanti a me. Che la vita fosse un dono da non sprecare mi apparve chiarissimo e senza retorica. Non fui più la stessa e scoprii pian piano che il matrimonio non mi sarebbe bastato, sentivo l’urgenza di testimoniare a tutti quello che mi era accaduto. Vedevo con occhi nuovi cose e ambienti cui prima ero avvezza, misurandone tutta la grettezza. Tornai a Lourdes per avere chiarezza sulla vocazione. Ci tornai con il mio fidanzato. Un giorno sfumò un appuntamento che avevamo alla grotta della Vergine (io ero dama, lui barelliere. Avevamo turni diversi e, quindi, pochi momenti di incontro). Presi a camminare e mi ritrovai davanti alla cripta. Non lo sapevo ancora, ma lì si faceva, allora, l’adorazione perpetua. Entrai e percorsi un lungo corridoio con cappelle laterali. Mi ritrovai poi in una cappella circolare bianchissima e nella penombra. Due suore vestite di bianco facevano adorazione davanti a un ostensorio che aveva la forma di un ramo di spine. Immediatamente avvertii una presenza forte e vidi che l’Eucaristia era illuminata da dietro, la distinsi chiaramente come una piccola luce nel buio. Eccola, pensai, la luce che ho incontrato sulla strada. Non c’è bisogno di morire per vederla. La chiesa la nasconde nel segreto dell’altare ogni giorno, là dove si celebra, là dove si adora.
Decisi, in quel giorno, che non mi sarei più separata dall’eucaristia. Entrai perciò tra le monache dell’adorazione perpetua di Monza, ove rimasi ventitré anni. In Monastero maturai gradatamente la consapevolezza che il tesoro dell’Eucaristia era calpestato dagli stessi cattolici. Che c’era una bellezza a tutti incomprensibile e che bisognava aumentare la forza del richiamo. Seguendo dei laici, per incarico dei superiori, mi accorsi che era scomparsa dalla nostra vita quotidiana la forza unificante del simbolo e iniziai così a spiegare la Scrittura e la fede attraverso l’arte. Questo si rivelò pian piano un carisma, perciò giunsi alla determinazione di fondare un Monastero che accanto all’adorazione eucaristica (e quindi, fermo restando la vita di preghiera e contemplazione), avesse una particolare attenzione alla bellezza in tutte le sue forme. Specie quelle legate alla liturgia. Cosa che ho realizzato nel 2007 nella diocesi di San Marino Montefeltro.
Lei si occupa molto di arte e in passato, raccontando in tv la sua esperienza, ha fatto cenno ai dipinti di Bosch. Può spiegare perché?
Spiegare una esperienza di pre morte come la mia è rischioso. Puoi essere compresa, ma puoi cadere nel banale, nell’occulto, nel new age. Ne ho fatto più volte esperienza. Dopo l’incidente mi imbattei, per caso, nel polittico di Bosch dal titolo Visione dell’Aldilà. Lo avevo già incontrato tra i banchi di scuola, senza che mi facesse alcun effetto. Rivedere il pannello, chiamato dai critici empireo, suscitò in me una grande impressione. Compresi che soltanto chi aveva fatto una esperienza simile alla mia poteva dipingere in modo così puntuale ciò che avevo visto. Nel pannello di Bosch una luce bianca circolare (simile a un’ostia) irrompe nel buio, pulsando. Ci sono anime che desiderano raggiungerla, ma alcune ne sono impedite dalla loro oscurità. Nella parte più bassa del pannello, angeli con ali nere frenano queste anime le quali hanno le mani in alto come inabilitate a muoversi. Il volto però è costantemente rivolto alla luce e questa tensione le purifica. Infatti un poco più in alto (più verso la luce) angeli dalle ali rosse (il fuoco purificatore) trattengono anime che ancora guardano la luce, ma che tengono le mani in preghiera. Il loro desiderio di Dio li purifica e così si elevano. Alla fine, in alto, proprio all’inizio del cono di luce bianchissima, ci sono anime accompagnate da angeli con ali bianche e con le mani tese verso l’abbraccio.
Ho trovato questo dipinto perfettamente corrispondente a ciò che ho vissuto e mi ha confortato vedere come un autore del 1500, che certo non poteva conoscere terapie intensive e accanimenti terapeutici, abbia dipinto qualcosa di molto vicino a quello che raccontano coloro i quali, per così dire, sono tornati indietro forse per avvertire il nostro mondo materialista che il paradiso c’è.
da: Francesco Agnoli, Sorella morte corporale, La fontana di Siloe