L’unica speranza è il ritorno alla realtà

uomovitruviano (1)I tempi sono ormai quello che sono. L’impressione è che non ci sia altro da fare se non assistere inermi al degrado psico-sociale, alla fine dell’umanità come l’avevamo sempre intesa. In effetti, ci siamo svegliati tardi. Qualche sentinella aveva lanciato un profetico grido d’allarme, è  vero. Ma come spesso accade, avevamo tutti pensato all’esagerazione. Alla paranoia del singolo. Forse anche un fondo inconscio ed irrazionale di ottimismo a-priori, una specie di residuo hegeliano che ci perseguita di generazione in generazione, ha soffocato l’attenzione e ci ha portato a guardare altrove.

Bene: oggi non c’è più alcun altrove a cui guardare. È tutto compiuto, tutto qui. Sotto i nostri occhi increduli. Ci siamo come ripresi con un sussulto, risvegliati, tutti o quasi, da un lungo sonno con sogni pilotati: per precipitare però in una specie di incubo. Che accelera, sempre di più. Ogni giorno una nuova notizia, una nuova immagine, una sentenza, uno “studio americano” che ci conferma ciò che prima era sempre stato tenuto di là dalla coscienza, messo in sordina, silenziato. Perché no, non può essere così. Non può essere vero. E invece stava già e sta ancora accadendo: ed è sempre più chiaro che non è una novità: è così da anni. Un passo alla volta. Una notizia qua. Un festival di là. Poi cinema, moda, drammatizzazioni studiate a priori e riprese puntualmente a posteriori, sul piano delle cronache. E via, col tam-tam ipnotico delle fantomatiche “lotte per i diritti”.
Uomo e donna sono un’invenzione, ci dicono.

E di seguito, l’appello alla scienza ideologizzata (solo ora, con incredibile ritardo, sta venendo fuori quanto “sono attendibili i famosi “trent’anni di studi pro adozioni gay”). Ora è chiaro che tutto è stato pianificato, studiato a tavolino. Con meticolosa attenzione e ragione calcolante, per usare la bella espressione di Martin Heidegger. Ci hanno assuefatto, giorno per giorno. In una perfetta applicazione dello schema di Overton. Ci hanno ridotto a sintesi matematico-materialista. La rivincita del Positivismo.

Quanto vale l’uomo? La risposta sta nella misura che ormai solo la Scienza, anzi lo Scientismo, sanno dare. Questo a piccole dosi: accenni, articoli, commenti, gossip. Un lavoro incessante sul linguaggio e sul suo progressivo scollamento dalla realtà. È così che siamo decollati verso la psicosi collettiva, a suon avanguardie culturali e di rivoluzioni cartacee preparato in sordina da anni. In tempi non sospetti. Il tutto sembra ormai definitivamente fondato sulla novità, sullo stato dell’arte liquido: per ciò che riguarda l’antropologia, la filosofia, il diritto, la psicologia. Lo vedremo: è solo uno dei nuovi volti dell’antico Relativismo. Una delle sue tante maschere per nascondere il Nichilismo di cui è fatalmente portatore, come di un virus mortale. Chi non resiste alla tentazione di pensare che siamo noi, gli déi, siamo noi, i creatori? Lo aveva già detto Nietzsche, in forma di dura poesia filosofica (cap. Delle isole beate, Così parlò Zarathustra). Ma per creare bisogna prima fare spazio, annichilire l’uomo stesso, soprattutto se l’intenzione è di inventarne uno nuovo. Questo, non altro, nasconde la rivoluzione Relativista che ha portato l’APA a diventare quello che è, oggi. Sotto gli occhi di tutti. Una rivoluzione psicologica che è scudo e cavallo di Troia di quella psichica. E dovrebbe oggi essere più che altro oggetto di un’attenzione psichiatrica, al limite, data la natura psicotica del problema. E invece no: se ne discute a suon di articoli di propaganda e da lì si decide a quali indirizzi debbano attenersi gli specialisti del settore. Di ogni settore: pena l’inquisizione del Grande Fratello e l’immediata condanna sociale. Appena dopo, la rieducazione coatta.

Eppure bisogna dirlo: di psicosi si tratta, non di altro, ogni qual volta si nega l’evidenza e ci si affida a costrutti mentali, più o meno ben congegnati, reificandoli e attribuendo loro una qualifica ontologica addirittura superiore e preesistente agli enti reali, effettivamente esistenti. Si chiama psicosi, il cui motore è l’alienazione, l’uomo che diventa estraneo a se stesso, incapace di riconoscersi nel suo valore e nella sua inviolabile dignità. Una psicosi che io credo sia addirittura sociale, non solo individuale, e per di più ad alto tasso di contagio.

Ma tant’è: in una società che è appunto psicotica, alienata, allontanata e quindi distante dal Sé, l’ansia di guarigione dalle proprie paure passa necessariamente dalla negazione di ogni argine contenitivo. Non è quindi affatto un caso che sia proprio la complementarietà (limitante e perciò creativa) di maschile e femminile ad essere travolta dal gioco degli “stereotipi di genere”. E con essa, tutto ciò che la differenza sessuale comporta: a partire dalla prima struttura-strutturante che è la Famiglia.

Ma è chiaro, quale sarà mai la novità? Nessuna. È una storia vecchia, ma che non ha affatto perso la sua potenza venefica: non a caso, infatti, Benedetto XVI aveva tanto insistito sul tema del Relativismo.

Ecco: il Relativismo ed il Nichilismo, suo primogenito formalmente disconosciuto, ma di fatto allevato con attenzione, sono i nemici da prendere per le corna.
E dico corna non a caso.

In un mondo compiutamente relativista, il male non esiste più. Questo è il senso profondo della lotta alle differenze: l’abolizione universale del limite, del senso del confine-contenitivo.
Da qui, e non da altro, nasce l’esistenza stessa degli “studi di genere”. A che pro, invece di valorizzare ed arricchire la differenza tra maschile e femminile, per esempio tramite una reciproca educazione (etim.), passare invece ad una banale quanto irrealistica negazione dell’evidenza?

Da cosa deriva l’ipotesi stessa che un bambino possa essere deprivato della madre o del padre, per rendere astrattamente uguali le coppie same-sex rispetto alla naturale unione feconda di maschile e femminile?

Siamo di fronte ad un mostro ideologico, etico, sociale, psichico, di costume, etc. ma prima di tutto onto-logico.

Il Relativismo si gioca infatti (e si vince) prima di tutto sul piano della logica e dell’ontologia: ricordando che l’essere non è un niente, un nihil, che ogni forma di relativismo, di naturalismo, di psicologismo e di storicismo non sono altro che un errore della mente, un colossale inganno, in quanto affermano ciò che negano, in evidente cortocircuito logico: pretendono di essere veri negando al contempo che esistano verità.

Un’auto-fagia assolutista, che pretende di farci credere (in base all’assunto contraddittorio secondo il quale per l’appunto non esistono verità, e quindi limiti) che anche l’uomo è poco più di in concetto, un “concetto antropologico” appunto. Concetto, idea che in quanto tale è prodotto culturale e può dunque cambiare o eclissarsi. A piacere.

Tuttavia dobbiamo ammetterlo: in questa specie di eyes-wide-shut palentario, dopo la “morte di Dio” (per usare la bella espressione di Nietzsche), già possiamo scorgere la morte dell’uomo. Finito, defunto, dissolto, evaporato, incenerito, sta scomparendo.

O perlomeno sta tramontando, là dove non si sia già eclissata, l’immagine che ne abbiamo sempre avuto.

Ma come rianimare la fede nella sacralità dell’uomo, nella bellezza della complementarietà di maschile e femminile, come riacquistare la consapevolezza dell’inviolabile e precedente dignità dell’Altro, del “volto d’altri”, per usare l’espressione di Emmanuel Lévinas?

L’unica speranza è il ritorno alla realtà. Solo abbracciando l’evidenza possiamo guarire: accettando ciò che siamo, compreso il male di cui siamo segnati e di cui siamo portatori.

E dal quale non ci libereremo da soli.

Da che cosa è ostacolato il ritorno al reale?

Non sobbalzi il lettore, ma per chiarirsi le idee sarà sufficiente rifarsi al vecchio Marx. Sembra paradossale, ma proprio a lui dobbiamo una delle più fulminanti e ben riuscite denunce dell’ideologia e del suo abuso logico, concettuale, morale, etico, umano e perfino, direi, estetico. Si tratta di un breve passo tratto (coincidenza! ) da “La sacra famiglia” (siamo nell’attualissimo 1844, anno assai fecondo per Marx). Il passo è quello, piuttosto famoso, della “dialettica del frutto”:

“Se io, dalle mele, pere, fragole, mandorle – reali – mi formo la rappresentazione generale «frutto», se vado oltre e immagino che il «frutto» – la mia rappresentazione astratta, ricavata dalle frutta reali – sia un’essenza esistente fuori di me, sia anzi l’essenza vera della pera, della mela, ecc., io dichiaro – con espressione speculativa – che «il frutto» è la «sostanza» della pera, della mela, della mandorla ecc. Io dico quindi che per la pera non è essenziale essere pera, che per la mela non è essenziale essere mela. L’essenziale, in queste cose, non sarebbe la loro esistenza reale, sensibilmente intuibile, ma l’essenza che io ho astratto da esse e ad esse ho attribuito. […] (L’hegeliano) vede nella mela la stessa cosa che nella pera, e nella pera la stessa cosa che nella mandorla, cioè «il frutto». Le particolari frutta reali non valgono più che come frutta parventi, la cui vera essenza è «la sostanza». […] Questo avviene, risponde il filosofo speculativo, perché «il frutto» non è un’essenza morta, indistinta, immobile, ma un’essenza vivente, auto-distinguentesi, in moto […] Le diverse frutta profane sono estrinsecazioni vitali diverse dell’«unico frutto», sono cristallizzazioni che «il frutto» stesso forma. Il filosofo… ha compiuto un miracolo, ha prodotto dall’essere intellettuale irreale «il frutto», gli esseri naturali reali, la mela, la pera, ecc.; cioè, dal suo proprio intelletto astratto – che egli si rappresenta come un soggetto assoluto esistente fuori di sé – […] ha creato queste frutta… […]”.

Intesi?

Questo è quello che avviene in ogni forma di Relativismo e correlato Nichilismo: la fede nella fantasia supera quella riposta nella realtà. Siamo nel cuore dell’ideologia. Facciamo un esempio, per rendere il passaggio ancora più chiaro. Pensiamo alla “genitorialità”, ormai oggi completamente slegata, a quanto sembra, dall’essere genitori. Com’è facile notare, siamo di fronte – come appunto Marx denunciava, nel caso della speculazione hegeliana – dell’inversione del rapporto tra soggetto e predicato. Si considerano come dire: “realmente-reali” non gli enti “realmente-esistenti”, ma le “idee”, i “concetti”. Poi ci si trastulla con quelli, fino a creare qualsiasi mostruosità possibile e immaginabile. E’ così che la “genitorialità” può esserci “senza genitori”, proprio come per qualcuno “il frutto” può esserci senza mele, pere, mandorle, e così via. L’essenza della genitorialità oggi s’aggira per conto suo, indipendente e slegata dal piano della realtà, e acchiappa chiunque: due uomini possono essere genitori, così come tre donne, così come un uomo e una donna. E via.

Che male c’è? E’ la Tecnica che lo consente. Dunque è lecito. E pian piano, perfino credibile.

Siamo oltre, molto oltre i limiti della follia sociale.

Rotti questi argini di aggancio alla realtà, di “fedeltà alla terra” (usando al contrario una bella espressione di Nietzsche) non ci resta che assistere inermi all’ennesimo passaggio consequenziale che già molte volte abbiamo visto nella Storia: l’avvicinarsi dell’era dei mostri.

Una sola è la possibilità di guarigione da questa follia collettiva: l’unica speranza è il ritorno alla realtà.

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