Pubblichiamo la relazione dell’ostetrica aretina Flora Gualdani (fondatrice dell’opera Casa Betlemme), tenuta a Roma il 25 giugno 2016 al IV Incontro internazionale degli ex studenti della facoltà di bioetica, a margine del convegno “Bioetica, Miseria e Misericordia” presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
Buonasera a tutti,
ringrazio gli organizzatori per questo bel convegno e di avermi dato l’opportunità di presentare la mia esperienza. Saluto in particolare il professor Miranda di cui sono stata allieva nel lontano 2003.
E la professoressa Rodriguez che mi invitò tre anni fa a parlare in questo Ateneo. Vorrei ringraziare anche la professoressa Giorgia Brambilla: perché mia collega ostetrica, che stamani abbiamo ascoltato, ma soprattutto perché l’ho vista in felice terza attesa. Io dico sempre che di fronte ad una donna gravida dobbiamo genufletterci perché è tabernacolo della vita, che dà vita alla storia. Finché un pesce guizza, un filo d’erba spunta e un bambino nasce, c’è speranza per la barca della vita. Alleluja!
Un piccolo ospedale da campo nato ai tempi del Concilio Vaticano II.
Per spiegarvi cosa è “Casa Betlemme” vi darò alcune coordinate per inquadrarla, aiutandomi con immagini. E’ un’opera che viene da lontano ed è nata dalla mia professione ostetrica, tra una intuizione forte ricevuta in Terra Santa nell’agosto del 1964 (mi trovavo dentro la grotta di Betlemme) ed una maternità difficile che mi interpellò al ritorno in ospedale: dove trovai una donna malata di cancro che non intendeva abortire. Il coraggio eroico di quella giovane madre (ancora vivente) aprì la mia casa all’accoglienza. Pensavo che la cosa sarebbe finita lì, invece Dio aveva un progetto. Quella bambina accolta fu la prima di una lunga serie.
Negli anni ’70, con l’arrivo della legge 194 iniziarono a bussare alla mia porta le “ragazze madri”, da ogni parte d’Italia e poi del mondo. La mia abitazione divenne stretta. Così mi rivolsi a mio padre, un contadino sopravvissuto al lager della prima Guerra mondiale e poi emigrato dieci anni negli Stati Uniti per riuscire a comprarsi in Toscana due ettari di terra dove vivere con la sua famiglia. Gli chiesi la mia parte di eredità e usai quell’ettaro di terra per costruirci, con tanti sacrifici, alcune casette dove ospitare le maternità difficili.
E’ un ospedale da campo, per usare un termine oggi di moda, dove ho accolto decine di storie di sofferenza. Storie indicibili di umana catarsi, dove ho visto rifiorire l’impensabile grazie a quella faticosa maternità. Qualche centinaio di bambini tolti dalla pena d’aborto, con altrettante donne che hanno scoperto la libertà di non abortire. E così, recuperata la loro dignità, sono tornate autonome in società. La maternità è stata la loro vera “terapia” adeguata. L’unica.
Non ho tenuto i conti, non avevo tempo e sono allergica alla burocrazia. L’unica cifra di cui sono sicura è che nessuna donna è tornata pentita di aver accolto la vita. Neppure la undicenne incinta, la prostituta o la donna vittima di violenza, cioè i casi limite.
Un’altra cifra del mio piccolo ospedale da campo è la povertà, cioè la follia di uno stile francescano. Di solito gli ospedali vivono di convenzioni. Qui invece ho voluto affidarmi a forti convinzioni e alla totale gratuità. Perché io credo che il volontariato è: gratuità, competenza, scienza del puro amore. E ho capito che si sta in piedi soltanto se si rimane in ginocchio. La povertà è faticosa, ti fa esercitare la fede ma in cambio ti dà una libertà che è letizia.
Quando ho aperto Casa Betlemme erano gli anni ’60 e il mio vescovo, di ritorno dal Concilio Vaticano II, mi ordinò che finché fossi stata viva avrei dovuto avere con me l’Eucarestia. Così la stalla con la mangiatoia dove i miei genitori tenevano gli animali, diventò una cappella che è il cuore che sorregge tutta l’opera.
Come patroni ho scelto tre santi: Francesco di Assisi, Teresina di Lisieux e Caterina da Siena, nell’armonia di tre spiritualità in cui mi riconosco. Oltre Maria: la Madre, la Regina apostolorum che io definisco la Perfetta Regista della storia. E di ogni storia.
Nel frattempo, continuando a lavorare in ospedale, usavo le mie ferie per girare il mondo. Volevo conoscere e servire la vita nascente negli angoli più poveri della terra e in mezzo alle guerre: Bangladesh e India, Africa, Cambogia, Cina, la Bosnia Erzegovina. In quelle che chiamiamo “le periferie esistenziali”. Ma andavo anche nei paesi più ricchi per verificare e confrontare come là viene trattata la maternità: Svezia, Inghilterra, Stati Uniti. Con un po’ di spirito di avventura e d’incoscienza, cercavo di testimoniare “una Chiesa in uscita”, come direbbe Papa Francesco.
Le opere di misericordia spirituale: “istruire gli ignoranti” nel Vangelo della vita.
In questo mio percorso personale, ho sempre cercato di rimanere attenta ai segni dei tempi e alle urgenze della storia. Così all’inizio degli anni ’80 compresi che la grande povertà che si stava affacciando da noi era la povertà culturale. Il vescovo di Bangkok voleva che rimanessi e aprissi una casa là. Ma io sentivo che la mia missione era qua nel nostro occidente gaudente e disperato. Vedevo crescere l’emergenza educativa, il degrado morale, dentro e fuori le sacrestie. Così, a fianco dell’accoglienza, decisi di aprire un altro reparto: quello della formazione quale chiave della prevenzione.
Volevo dare una risposta completa. Perché la Chiesa, come sappiamo, è chiamata oltre che alle opere di misericordia corporale anche a quelle di misericordia spirituale, tra cui c’è il compito di istruire gli ignoranti. Madre Teresa di Calcutta diceva: «ho bisogno di coprirmi, non soltanto di vestiti ma della meravigliosa dignità del corpo dell’uomo e della donna».
Per prepararmi frequentai gli ambienti universitari romani dove ho incontrato i miei maestri, i giganti della fede e della scienza: Jérôme Lejeune, Wanda Półtawska, Anna Cappella, i coniugi Billings, i cardinali Carlo Caffarra ed Elio Sgreccia, e Padre Gonzalo Miranda. Ma sopra tutti Giovanni Paolo II, che insieme a Paolo VI mi ha insegnato il coraggio di testimoniare, senza paure, il Vangelo della vita e lo splendore della verità.
I loro insegnamenti li ho riportati a Casa Betlemme, che è diventata così una scuola di vita dove si formano formatori e famiglie cristiane. Perciò, più che ospedale da campo, io definisco questa opera una piccola “Università dell’amore” con Facoltà della vita. Da questa scuola di vita sono passati in molti: vergini e prostitute, analfabeti e professori, piccoli e anziani, artisti e giornalisti, vescovi e sbandati, famiglie ferite. E tante coppie di innamorati.
Portiamo tra la gente la teologia del corpo, i metodi naturali per la regolazione della fertilità e l’alfabetizzazione bioetica, usando anche il linguaggio artistico. Alfabetizzare significa per noi portare la bioetica dalle accademie ai marciapiedi. Funziona ed è utile per tutti: sani e feriti di vario genere. Perché la bioetica parte dalla “bio-testa”, quindi serve a rinnovare la persona e a incarnare la morale. Insomma, curiamo i grandi “decapitati” del nostro tempo cioè il primo e sesto Comandamento: fede e purezza. Decapitati i quali, gli altri precipitano. “Castità” è oggi parola profetica in una società fatta di melma e di sangue. E’ virtù non banale ma basilare per ogni vocazione. E da lì passa il bene sociale prima che quello eterno.
Il trauma post-aborto e il balsamo della misericordia.
Ma torniamo al tema della misericordia. In questa piccola “Università dell’amore” mi sono specializzata nel prendermi cura non soltanto delle maternità più difficili ma anche delle maternità negate. Di quelle donne cioè, che hanno fatto una scelta diversa e sono tornate, magari a distanza di decenni con i capelli imbiancati, a portarmi il loro tormento che riemerge e non passa. Il trauma post aborto.
Le aiuto usando il balsamo della misericordia che riscatta, dà speranza e libertà. E con lo sguardo della trascendenza. Perché è Gesù l’unico farmaco capace di guarire quella ferita. Lui ama. E’ misericordioso, cioè scende con il cuore sopra le nostre miserie.
Ci vuole un lungo cammino di recupero, paziente e personalizzato tra spiritualità e psicologia. Ho accompagnato in questo cammino tante donne, di ogni livello culturale, fino alla guarigione. E spesso con una riscoperta della fede.
A queste donne, ferite dall’aborto, spiego anzitutto che generare è più grande che distruggere. Chi genera, genera per l’eternità. Dico loro: «tu hai generato per l’eternità. Se hai ucciso, hai ucciso un corpo: non hai distrutto la persona: che è proprietà di Dio. Devi capire che anche se hai troncato il futuro alla tua creatura, non hai fatto che restituirla al Mittente. E Lui la porterà comunque a compimento, là dove un giorno o mille anni sono la stessa cosa. Lui è il Dio dell’amore, che ha vinto la morte e non lascia incompiute le sue opere: prima o poi avverrà un incontro, l’abbraccio. Ma la riconciliazione con quel figlio devi cominciarla adesso: sentilo vivo, dagli un nome, sappi che ti sta aspettando e sta pregando per te. Ti ama. Resti sua madre».
Il percorso di guarigione è fatto di varie tappe. A queste donne propongo un cammino che comincia con il dare un nome al loro figlio che vive in cielo. Occorre molto ascolto, dialogo e tanta tenerezza, a cui affianco un percorso di preghiera e catechesi sul battesimo. Data l’importanza dei segni, per l’autorità del sacerdozio battesimale conferitomi dalla Chiesa, concludiamo il percorso con un “battesimo di desiderio” fatto con acqua, sotto condizione. E’ il battesimo di quel piccolo martire dell’innocenza. A volte c’è stato il seppellimento segreto dell’embrione o del feto. Alla fine di questo percorso alcune donne me le sono viste arrivare nella cappella di Casa Betlemme con un cesto pieno di bomboniere: con il desiderio straripante di festeggiare la loro rinascita come madri e la loro riconciliazione con il figlio. Donne che ti dicono: «Flora, tu non puoi capire cosa mi hai regalato con quel battesimo: mi hai ricongiunto al mio bambino. Ora so che vive, e lo vedrò! Così per me l’oggi è già eternità. Perché parlo con il mio bambino e lo chiamo per nome».
Alla conclusione del percorso, devono prendersi un impegno di “riparazione”: cioè un po’ del tempo che avrebbero dovuto impegnare per il loro bambino, lo dedicheranno in un servizio alla vita. Potrei raccontarvi tante storie, tutte drammatiche ma tutte finite con la rinascita della donna.
E’ un cammino di riconciliazione in cui le donne credenti di solito giungono alla confessione, il sacramento che le riconcilia con Dio (cfr. Evangelium vitae n. 99). Ma è essenziale anche questo secondo passaggio di cui parlavo: la riconciliazione con il loro figlio. L’opera del confessionale va completata con questo accompagnamento psicologico e pratico. Perché il Sangue di Cristo cancella il peccato ma non cancella quel figlio, che esisterà per sempre.
Purtroppo infatti a volte capita che il confessore dica alla donna: «Vai in pace, il Signore ha cancellato il tuo peccato: non c’è più niente. Stai tranquilla, non ci pensare più». Ma è sbagliato dire alla donna «non c’è più niente». Perché non è vero. Ora il peccato non c’è più. Ma il bambino non è finito in un buco nero: se le dite questo, non le basterà neanche l’assoluzione per trovare pace! Perché l’aborto, indipendentemente da religioni o ideologie, ha ferito la sua natura femminile, visceralmente materna. Il nostro compito è ridare speranza alle donne, e questo si fa aiutandole a ricongiungersi con il loro bambino, che è vivo e reale. Il cielo è popolato da milioni e milioni di questi bambini, che non sono “angeli”. Sono bambini che cantano in eterno l’alleluja!
La discesa della misericordia chiede il riconoscimento del peccato e il pentimento.
Permettetemi un’ultima riflessione sulla misericordia nel Vangelo della vita. La misericordia davanti all’aborto chiede: pentimento con confessione (se credente), speranza nella Resurrezione, ricongiunzione con il bambino (insieme ad un impegno pratico di riparazione). Il primo grande dono della misericordia è il pentimento, cioè il riconoscimento del peccato, in modo che il Cuore sanguinante di Cristo possa cancellare quella miseria. Ma insieme al pentimento occorre la volontà di cambiare: solo allora la potenza del sacramento della confessione cancella il peccato. E una volta cancellato, non vanno più ascoltati i sensi di colpa che il demonio fa riemergere.
Ma se manca la coscienza del peccato, cioè il pentimento – che è un atto d’amore – manca la base dove far “atterrare” la misericordia di Dio. Se non chiamo per nome il peccato, con lo sforzo di un impegno a cambiare vita, non sono perdonato. Il peccato è principalmente: un’offesa diretta a Dio, un male trasmesso alla società e quindi un danno personale.
Mi permetto di osservare un pericoloso rischio dei nostri tempi: somministrare con un certo buonismo una versione un po’ accomodante di “misericordia” che dimentica il fulcro cioè la gravità del peccato. Il peccato è una realtà tanto grave che soltanto Colui che è offeso (cioè Dio) può cancellarlo. E, per ripararlo, è dovuto venire Lui personalmente e farsi inchiodare. Questo significa che il sacerdote amministra un bene di Dio, cioè la misericordia: che è divina bontà, non umano buonismo.
In conclusione io credo che, nel Vangelo della vita, uno dei compiti più importanti che ci è richiesto è quello di portare la gente a sperimentare la misericordia infinita di Dio, ma dopo aver spiegato – con la nostra voce e la nostra vita – tutte le ragioni per cui comportamenti come adulterio, aborto, contraccezione, fecondazione in vitro, saranno sempre un peccato agli occhi del Creatore. Sono atti “intrinsecamente cattivi”. Nessuna moda, né maggioranze o trascorrere del tempo, li potrà mai configurare diversamente. Cosa diversa, invece, è il grado di colpevolezza personale, che solo Dio vede.
Giovanni Paolo II, da uomo intelligente e grande santo, aveva già previsto questo pericoloso scivolamento e vi ha dedicato un’intera enciclica:
«Nessuna assoluzione, offerta da compiacenti dottrine anche filosofiche o teologiche, può rendere l’uomo veramente felice: solo la Croce e la gloria di Cristo risorto possono donare pace alla sua coscienza e salvezza alla sua vita».
San Giovanni Paolo II
Veritatis splendor n. 120
Ringrazio tutti per l’ascolto.