Pubblichiamo questo lungo ma interessante articolo di padre Giovanni Cavalcoli.
Essenza del peccato
Il peccato, nel senso più cristiano del concetto, è un atto cosciente e volontario moralmente cattivo, col quale, disobbedendo alla legge divina, compiamo il male agli occhi di Dio, e perdiamo o diminuiamo il possesso della grazia, con l’effetto che la coscienza, se è sana, ci rimorde e resta nella nostra anima un turbamento o stato di colpa, ossia di avversione a Dio, che può essere sanato solo dal rinnovo o rafforzamento della grazia divina, che ci spinge al pentimento, per il quale la volontà, da cattiva, si converte, ossia torna ad essere buona.
Otteniamo allora dalla misericordia divina il perdono della colpa, che comporta la cancellazione, annullamento o remissione del peccato, ossia del debito della colpa, ovvero la purificazione o liberazione o assoluzione dalla colpa e riallacciamo la nostra amicizia con Dio e la coscienza torna nella pace.
La tempesta è sedata. L’anima riprende la giusta direzione. La mente torna a guardare al cielo. L’anima si rialza dalla caduta e riprende a camminare. Al posto della “puzza del peccato”, per usare un’espressione di S.Caterina da Siena, il “profumo di Cristo” (II Cor 2,15).
Il peccato, secondo la Bibbia, è un atto col quale ci procuriamo la morte. Si oppone alla giustizia, che è l’atto che ci procura la vita. Dio è il Dio dei viventi, che crea i viventi e vuole che vivano. Le leggi che dona a loro, sono leggi di vita. Il castigo del peccato non è una pena sopraggiunta e convenzionale, collegata accidentalmente ed arbitrariamente al peccato, così come nella società civile il legislatore associa una data multa o una data carcerazione a un dato delitto, riservandosi di mitigare o aumentare la pena o di depenalizzare il reato.
No, secondo gli ordinamenti divini, che si riflettono nelle leggi stesse della natura, la pena o castigo del peccato è conseguenza logica e necessaria del peccato stesso, così come a chi eccede nel vino viene la cirrosi epatica o a chi fuma troppo, viene il cancro ai polmoni.
Proprietà e metafore del peccato
A causa di questo legame con la vita, la salute e il benessere, il peccato nella Bibbia appare metaforicamente, ma a volte anche propriamente, come contravvenzione o trascuratezza delle norme dell’igiene e della pulizia. Appare quindi come impurità, macchia, immondizia, sporcizia. L’impurità è quasi sinonimo di “peccato” tout court (Rm 13,13; II Cor 12,21; Ef 4,19; Gc 1,21). Il demonio, istigatore al peccato, è lo “spirito immondo” (Mt 12,43; Mc 1,27; Lc 4,33).
Da qui, per converso, l’ideale biblico della purificazione come immagine della santificazione e liberazione dal peccato (Ger 33,8; Ez 36,25.33; 37,23; At 10,5; I Gv 1,9; Eb 1,3; 9,14;10,22; Gc 4,8). Dire che Dio purifica è come dire che santifica (Dt 32,43; Sal 51,9; Ez 24,13; 36,33; 37,23;; At 10,5; 11,9; I Gv 1,9). La purezza è qualità della sapienza (Gc 3,17). Si loda la purezza della coscienza (I Tm 3,9), e la purezza del cuore (Pr 22,11; Sal 51,12; Mt 5,8). L’opera di Cristo è la purificazione dai peccati” (Eb 1,3).
Le numerose pratiche di purificazione legale e tradizionale dell’Antico Testamento, oltre ad essere norme igieniche, intendevano in certi casi essere simboli della purificazione dai peccati, soprattutto in occasione dei riti liturgici. Così, il peccatore merita di essere gettato nel deposito di rifiuti: la gehenna, che per Cristo è il simbolo dell’inferno (Mt 5, 22.29; 10,28; 18,9, ecc.).
Da qui, restando nella metafora della macchia, l’idea del “lavare” come atto col quale Dio perdona o rimette il peccato. Questa idea del peccato come macchia o impurità, che occorre lavare, compare già nell’Antico Testamento (Sal 51,4.9; Pr 30,12; Is 1,16, ecc.). L’acqua del battesimo è chiaro segno della grazia, che lava i peccati (At 22,16).
Esser santificati corrisponde ad essere lavati (cf I Cor 6,11). I beati del cielo “hanno lavato le loro vesti col sangue dell’Agnello” (Ap 7,14). Il sacramento della confessione diventa una specie di igiene dell’anima, un lavaggio periodico dai peccati veniali, che continuamente ed inevitabilmente imbrattano l’anima, nonostante ogni buona volontà, come avviene nell’igiene fisico anche delle persone più pulite.
Il peccato, come attentato alla vita, è una ferita inferta, non una ferita subìta. Subiamo una ferita, quando altri peccano contro di noi. Feriamo, quando siamo noi a peccare contro gli altri. Se vogliamo, il peccato è un ferirci con le nostre stesse mani.
“Ferisce più la lingua che la spada”, dice un proverbio. Ed è vero. Si può uccidere un uomo con la calunnia o con la diffamazione. Diffondere eresie reca più danno che adulterare gli alimenti o falsificare la moneta. “Una lingua malevola è una ferita al cuore” (Pro 13,4). “Qualunque ferita, ma non la ferita del cuore” (Sir 25,12).
Queste sono le ferite più gravi da sanare. Correggere gli eretici, illuminare coloro che sono vittime delle loro imposture è più importante che dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati, benchè occorra fare anche questo. “Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare” (Rm12,20).
Il peccato è una malattia che ci procuriamo da soli: una malattia volontaria, tanta è la nostra stoltezza. Si suppone che le malattie fisiche si contraggano senza volere. Invece le malattie dello spirito, ce le andiamo a cercare. Per questo, curare queste malattie è difficile, perchè qui i malati non riconoscono di essere malati. Meriterebbero compassione, ma questa compassione non la vogliono.
Chi è attaccato al peccato, si vanta del peccato e, benchè oggettivamente sia un bisognoso e un miserabile (cf Ap 3,17), non vuol affatto essere commiserato, così come chi crede di far bene, non desidera o non gradisce di essere corretto. Non ha bisogno né di misericordia, nè di perdono. Qui, come vediamo nell’esempio stesso di Cristo e dei santi, l’azione misericordiosa non ha nulla da fare, ma vale solo l’avvertimento severo e, al limite, il castigo.
Il peccato, nella Bibbia, è rappresentato anche sotto l’immagine del debito (Mt 6,12; Rm 13,8; Lc 7,42). Un debito con Dio, che l’uomo da sé non può pagare. Da qui l’opera della Redenzione, per cui Cristo in nostra vece[1] compensa o dà soddisfazione al Padre per il debito contratto dall’uomo col peccato.
Ecco perché il Nuovo Testamento parla di “remissione (àfesis) dei peccati” (Mt 16,28; Lc 1,77; At 2,38, 10,43; 13,38; 26,18; Ef 1,7; Col 1,14). In quest’opera di giustizia, compiuta da Cristo sulla croce, Egli è la “vittima di espiazione (ilasmòs) per i nostri peccati” (Rm 3,25; I Gv 2,2; 4,10).
Benchè dunque la remissione dei peccati sia dono gratuito della divina misericordia, sia frutto della Croce di Cristo, siamo tuttavia esortati da S.Paolo ad “offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il nostro culto spirituale” (cf Rm 12,1). Ma è appunto per questa misericordia che noi, in Cristo, per Cristo e con Cristo, possiamo soddisfare al Padre.
Il peccato, secondo la Bibbia, è un torto fatto a Dio. Lo abbiamo offeso, anche se questa certamente è una metafora, giacchè, propriamente, non possiamo privare Dio di nulla. Invece il torto può essere fatto effettivamente al prossimo. Il prossimo possiamo derubarlo, ferirlo, opprimerlo, ucciderlo. Tuttavia è una metafora efficace, presa dai nostri rapporti col prossimo. In ogni caso, Dio esige che l’offesa sia riparata. Ecco la Croce di Cristo e il senso delle nostre croci quotidiane.
Effetto del peccato è la schiavitù allo stesso peccato: “Chi commette il peccato, è schiavo del peccato” (Gv 3,34). Non riesce a liberarsi dal peccato, se non con l’aiuto della grazia e ponendo un atto di buona volontà
Cancellazione della colpa, guarigione dalle ferite
La remissione o cancellazione (cf Sal 51,3 At 3,19) del peccato per opera della grazia avviene in un istante, intervenga o non intervenga l’assoluzione sacramentale. La coscienza di essere stati perdonati da Dio, avendo fatto tutto ciò che è in noi per ottenere il perdono, è fonte di pace.
La coscienza di aver peccato e di essere in colpa genera nell’anima onesta turbamento e confusione. Ma è in nostro potere, sotto l’influsso della grazia, ritrovare la pace chiedendo perdono a Dio, riparando e facendo penitenza. Resta, certo, l’inclinazione a peccare, per la quale peccheremo ancora e sempre, almeno venialmente.
Bisogna distinguere allora la condizione di peccatore dal peccato. Essa comporta un’ineliminabile tendenza a peccare, che prima o poi si attua inevitabilmente almeno col peccato veniale. Invece il peccato è un atto intermittente della volontà, col quale essa devia dal retto cammino, ed è in grado, sotto l’influsso della grazia, di tornarvi con un atto successivo, che corregga la direzione del precedente, similmente a un automobilista, che, accortosi di andare fuori strada, giri il volante, così da rientrare un carreggiata.
Il confessore deve distinguere l’assoluzione del penitente dalla correzione del peccatore. In un attimo il penitente è liberato o lavato dalla colpa. Invece l’opera della correzione del peccatore, specie se è prigioniero di qualche vizio radicato, può essere lunga, impegnativa, laboriosa e difficile. Qui entra in funzione la direzione spirituale, oltre al ministero della confessione.
I moti della volontà sono in nostro potere, come il volante di un’auto, sicchè possiamo dirigerli verso il bene come verso il male, come vogliamo. Quella volontà, che, abbandonando il retto sentiero, esce di strada, è quella stessa volontà, che con un moto contrario, sotto l’impulso della grazia, è capace di prendere la giusta direzione.
Questa inclinazione al peccato, presente anche nei santi, escluso Cristo e la Madonna, indubbiamente dispiace e deve dispiacere, ma, se siamo innocenti dal peccato e respingiamo le tentazioni, la sopportiamo nella pace e ci sforziamo continuamente di vincerla, benché sappiamo in partenza che non ci riusciremo mai del tutto.
Non è vero, come credeva Lutero, che il peccato mortale sia inevitabile, per cui incombe sempre su di noi l’ira divina, e che l’unico rimedio per sottrarci ad essa, sia credere che, grazie a Cristo, siamo perdonati anche se non siamo pentiti. E’ vero invece che è possibile e doveroso il pentimento, condizione necessaria per essere perdonati, e che il pensiero dell’ira divina deve infondere in noi un salutare timor di Dio, che ci porta ad evitare il peccato o a chiedere perdono.
Vera e falsa colpa
L’importante è non essere recidivi e non prenderla sottogamba con la scusa che Dio perdona. Dio perdona, certo; ma noi dobbiamo fare sempre tutto ciò che è in noi, senza approfittare della sua bontà. Non possiamo essere certi del perdono divino se non siamo certi di aver fatto ciò che è in noi. Per questo, Papa Leone X condannò giustamente Lutero quando egli disse che l’uomo, nel fare ciò che è in lui, pecca mortalmente[2].
Non bisogna pertanto confondere il dolore per il peccato commesso, col dispiacere per le nostre cattive inclinazioni. Il primo dolore si può togliere con la confessione del peccato e torna la pace; il secondo invece va coltivato per tutta la vita, perché ci tiene lontano dal peccato. Ma questo è solo un male di pena, che non toglie la pace intima del cuore, che viene dalla coscienza di aver agito bene e di essere in pace con Dio e col prossimo. Invece, il male di colpa, il peccato, può e deve essere sempre ogni volta cancellato, ogni volta che pecchiamo.
Dobbiamo cacciare i sensi di colpa, che possono sorgere senza fondamento riguardo a peccati già perdonati. Può esser bene farne penitenza e riparare, ma sentire come colpa una colpa che è stata tolta dalla misericordia divina, vuol dire mancare di fiducia nella potenza purificatrice della medesima misericordia.
Vera colpa esiste quando abbiamo fatto del male intenzionalmente, sapendo di far male. Dobbiamo avere l’onestà e l’umiltà di riconoscere che ogni tanto questo ci capita, senza volerci scusare per forza ogni volta. Ma se ci capita di far del male o del danno a noi stessi o agli altri senza volere o senza sapere, benchè certo dispiaccia, non abbiamo nulla di cui pentirci, e dobbiamo quindi cacciare con forza eventuali sensi di colpa. E magari, se è possibile, riparare il male che abbiamo causato.
Il peccato è un compiere ciò che è male, anche se il peccatore lo considera bene. Si può essere coscienti di peccare, per cui il peccato può essere volontario; oppure è possibile far del male senza saperlo o senza accorgersene o anche perchè vinti da forze esterne alla volontà ed irresistibili, come, per esempio, minacce, paure, passioni o demenza. E’ chiaro che colpa e responsabilità esistono solo nel primo caso.
Mentre Dio vuole il bene, il peccatore vuole il male. Dio distrugge le opere del peccatore e il peccatore distrugge le opere di Dio. Tuttavia, come si sa, nel corso della storia, Dio lascia che a volte i buoni siano oppressi dai malvagi e che questi distruggano le opere di quelli. Dio nella storia non sconfigge sempre il male. Non permette sempre che il bene tolga o corregga il male, ma a volte i malvagi trionfano. Solo al giudizio finale sarà fatta piena giustizia. Ma anche allora Dio lascerà sussistere ancora del male: la ribellione e il castigo degli empi.
Dio vince tutto il male?
Ci si domanda allora: ma Dio vince pienamente il male? La vittoria di Dio sul male, secondo la fede, è piena e perfetta, perché Dio è onnipotente e bontà infinita. Egli infatti toglie tutto il male premiando i buoni e castigando i cattivi. Misericordia con i buoni, giustizia con i cattivi. La Bibbia chiarissimamente ci insegna che Dio vince il male o col perdono o con sconfitta dei suoi nemici (Es 15,6; Dt 33,27; II Sam 18,19; Gdt 13,17; Sal 78,66, ecc.). Chi si sottomette volentieri, è salvo ed è premiato; chi non si sottomette, è schiacciato.
Resta tuttavia una difficoltà. Mentre infatti non fa difficoltà capire questa vittoria nei buoni, in quanto li libera da ogni colpa e da ogni male di pena, più difficile è capire in che consisterebbe questa piena vittoria sui malvagi e nei dannati, che non hanno voluto pentirsi dei loro peccati e sono puniti con una pena eterna.
Non lascia forse sussistere la perversione della loro volontà e non permette forse che siano tormentati per sempre da un eterno male di pena? Il premio celeste non era forse a portata di mano anche dei dannati? E dunque, il fatto che non lo abbiano conseguito, non comporta forse un’imperfezione o carenza nella vittoria sul male? Non c’è forse qualcosa che non ha funzionato? Non si tratta di una vittoria incompleta?
Ora bisogna tener presente che il giusto castigo è un bene. E’ cosa buona che il peccatore abbia quello che si merita. E’ cosa buona che egli abbia esercitato il suo libero arbitrio. E’ cosa buona che Dio abbia rispettato la sua scelta. Il dannato, certo, è vinto dal male, ma per colpa sua ed ha avuto ciò che ha voluto: star lontano da Dio.
Dio invece vince nel dannato il male, non in quanto toglie il male che il dannato si è procurato o ha fatto in vita, ma in quanto è bene che la cattiva volontà del dannato resti fissa per sempre nella scelta, che egli ha fatto per sempre contro Dio.
Dio avrebbe potuto, se avesse voluto, creare un’umanità innocente ed impeccabile, confermata in grazia, come la Madonna. Oppure, avrebbe potuto permettere il peccato, ma poi salvare tutti. Ma di fatto, come ci rivela la Bibbia, non solo permette il peccato, ma permette anche che alcuni siano vinti dal peccato, precipitando nell’inferno.
Tuttavia, la piena vittoria di Dio sul male non richiede che Egli faccia sparire tutto il male, dovunque si trovi. Tale vittoria, infatti, va calcolata rispetto a quello che Dio di fatto ha voluto fare nel mondo. Dio ha voluto vincere il male non eliminandolo totalmente e dovunque, ma lasciandolo sussistere nei dannati. E questa volontà si verifica sempre, dovunque, stabilmente, immancabilmente, perfettamente ed ineluttabilmente.
Quindi Dio, nei suoi imperscrutabili disegni, ha voluto vincere il male distruggendolo nei beati e lasciandolo in essere come castigo nei dannati. Infatti si può mostrare la propria potenza col nemico sia distruggendolo che sottomettendolo. Così appunto, ci dice Paolo, ha voluto fare il Padre con Cristo: “avendo privato della loro forza i principati e le potestà, ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale di Cristo” (Col 2,15).
Oggi c’è un ritorno di origenismo già a suo tempo condannato dalla Chiesa[3], per il quale, in nome di una falsa idea della misericordia divina, non esistono dannati, ma tutti si salvano. La volontà divina che tutti si salvino, della quale si parla in I Tm 2,4, è la semplice offerta a tutti della salvezza, in quanto tutti possono salvarsi: Dio dà a tutti i mezzi sufficienti.
Ma non tutti di fatto si salvano, come hanno definito il Concilio di Quierzy[4] dell’853 e il Concilio di Trento[5], che parla anche dei “predestinati”[6]. Alcuni non vogliono salvarsi, perché non vogliono obbedire a Dio. Quale misericordia merita chi si ribella a Dio o di Dio non vuol saperne?
La vera fede ci comanda di credere ciò che Dio ha effettivamente voluto e non ciò che avrebbe potuto volere. Non dobbiamo lavorare con l’immaginazione e non fare come ha fatto il buon Origene, col rischio di crederci più misericordiosi di Dio e magari dire a noi stessi: se fossi stato Dio, sarei stato più buono e avrei salvato tutti.
Dobbiamo stare ai fatti, a quello che Cristo ci ha rivelato e ci è trasmesso dalla Chiesa. Lasciamo liberi tutti di fare la propria scelta ed accogliamo serenamente e fiduciosamente quello che è il piano storico ed effettivo della salvezza, così come Cristo ce lo espone nel Vangelo, senza tagli, senza modifiche e senza tergiversazioni.
Badiamo a farci santi noi e saremo certi di salvarci. Questo è l’essenziale. Non sta a noi decidere in cose che sono più grandi di noi. Non c’è da discutere o da fare obiezioni, ma solo da amare, adorare e ringraziare.
Note:
[1] “Satisfecit pro nobis”, come dice il Concilio di Trento, Denz.1529.
[2] Denz., 1486.
[3] Al Concilio di Costantinopoli del 543, Denz.409.
[4] Denz., 621, 623, 624.
[5] Denz.1523.
[6] Denz.1567.