Come dobbiamo pensare Dio?
Stabat Mater dolorósa
iuxta crucem lacrimósa,
dum pendébat Fílius.
Padre Ivan Marko Rupnik, S.J., Crocifissione, Cappella Redemptoris Mater, Palazzo Apostolico Vaticano
(Amadeus Mozart, Stabat Mater Quando Corpus morietur. Amen. Versione mp3. Selezionare “freccia play”)
Il segno sacramentale dell’arte ci ha aiutato a scorgere la luce oltre la sofferenza. Possiamo ora accostare con serenità quelle considerazioni teologiche che da Jürgen Moltmann[1], teologo tedesco riformato, in avanti, si sono sempre più diffuse in parte della teologia contemporanea.
Jürgen Moltmann, Amburgo, 8 Aprile 1926-
La domanda è: come dobbiamo pensare Dio? Catherine Chalier nel suo Trattato delle lacrime,
fragilità di Dio, fragilità dell’anima, davanti al silenzio di Dio, di fronte al male, dichiara che Dio potrebbe tacere perché non c’è, oppure perché abbandona, oppure perché piange e tace proprio per poter piangere[2]. Visione affascinante, dice Giacomo Canobbio[3]. Però, egli annota, non ci si avvede dell’aporia inevitabile in essa contenuta. La vicenda umana di Gesù giustifica quella visione. Egli ha portato su di sé i peccati e ha compatito, (Eb 4, 15), ma, sottolineando quella fragilità, dalla quale ciascuno vorrebbe essere liberato, si rischia una visione riduttiva dell’umano. Come un Dio, più umano in questo senso, potrebbe soccorrere coloro che vogliono essere liberati da questa fragilità? Illustre l’esempio della lettera del 16 luglio 1944 di Dietrich Bonhoeffer[4]: «Dio si lascia scacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto così egli sta al nostro fianco e ci aiuta», mettendosi nella condizione di chi è abbandonato. Penso al film che ho visto in questi giorni, il “Doctor Korczak”, di Andrzej Vaida (1990), dove, questo medico e
Il Dottor Korczak con i suoi orfani
pedagogista ebreo, pur potendo salvarsi, vuole restare a fianco dei suoi centonovantadue bambini orfani, perché non affrontino, da soli, la sofferenza e la morte. Rifiutò più volte gli aiuti e i documenti procuratigli per scappare. Oppure, penso a Edith Stein, Teresa Benedetta della Croce; ebrea, filosofa, atea, convertita al cristianesimo, divenuta, con la
Edith Stein, Santa Teresa Benedetta della Croce,
Breslavia, 12 ottobre 1891 – Auschwitz, 9 agosto 1942
sorella, Carmelitana, che non volle fuggire, -pur potendolo fare-, per restare nel destino del proprio popolo e vicino alle mamme ed ai bambini disperati. La seguì anche la sorella. Morì ad Oświęcim, nel campo diretto da uno dei più spietati e, apparentemente, insensibili organizzatori dello sterminio: il Comandante delle SS, Rudolf Höss.
Oświęcim, Rudolf Höss, Comandante delle SS, al centro
Santa Teresa Benedetta è ben ritratta nel film “La settima stanza”, diretto da Márta Mészáros. Oppure penso a San Massimiliano Kolbe, morto martire nello stesso campo, per sostituirsi ad un papà di famiglia, condannato al bunker della fame, e che assistette i quaranta condannati alla decimazione, detenuti con lui, finché l’ultimo di essi non morì. Essi non scapparono. Benché impotenti, restarono con i sofferenti fino alla morte. Questa è la via della croce, la via di Salvezza, la via condivisa di quel Dio, che sta in silenzio. Non è il volto di colui che non ha più né bellezza né splendore (Is 53, 2) a rivelare il volto del Padre? Il contributo di Moltmann, da un lato, è prezioso per l’attenzione alla domanda di molti uomini -e là, dove la domanda non si manifesta, egli la vuole esplicitare, portarla a consapevolezza- dall’altro, implica felicemente la presenza della Trinità nella vicenda dell’uomo. Occorre, però, anche capire cosa importino la impassibilità e immutabilità di Dio nel mistero del dolore umano quando diviene dolore salvifico, così che in Dio l’uomo trovi l’áncora, che lo sostiene nel dolore e nella morte. Altrimenti parlare di sofferenza di Dio diventerà, -come sembra essere diventato-, un “luogo comune”[5].
Uscire dalle secche della metafisica greca La teologia, si dice, dovrebbe uscire dalle secche della metafisica per riprendere la vivezza del messaggio biblico, linguaggio che a molti teologi sembra più vicino alla mentalità dell’uomo contemporaneo.
Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, 1509-15011, affresco, cm 770 x 500, Palazzi Vaticani.
Sala della Signatura Apostolica, particolare.
Salvo rare eccezioni[6] gli autori convengono nel sostenere che anche Dio soffre con e per gli uomini, fino a dire che Dio, nella creazione, è partecipe della sofferenza e crea addirittura sé stesso creando il mondo (un vero cortocircuito della logica, logica che non dovrebbe essere estranea a Dio, almeno non più della sofferenza)[7]. Si vuole, insomma, evitare l’immagine di un Dio indifferente alla sofferenza dell’uomo e che, al contempo, imporrebbe all’uomo la sofferenza[8]. Si ritiene che solo un Dio, che soffre, diventi comprensibile, così come sofferente si mostra nella Bibbia. Eppure, davanti a questo Dio, molti giudei restarono increduli, e non solo tra i farisei, ma tra le folle. Direi che la “fantasia teologica”, in cerca di soluzioni al tema dello scandalo della sofferenza, rasenti l’impossibile e l’irreale. Molti, comunque, non si convertirono. Se il Dio sofferente, come qui inteso, bastasse e corrispondesse alla realtà, allora, l’uomo di oggi, indipendentemente dalla Chiesa, dovrebbe convertirsi, ma così non accade.
Come un Dio impassibile potrebbe essere compassionevole? Sorge la domanda: come può, Colui, che è il Tutto, farsi determinare da ciò che l’uomo compie? Molti teologi non vogliono parlare della natura, dell’essenza di Dio, ma della sua presenza. E si chiedono: come un Dio impassibile potrebbe essere compassionevole? Alla base irrazionale di queste suggestioni contemporanee sta l’idea che Dio non sia razionalità, ma relazionalità e processo, qualcosa che diviene, in quanto Dio reagirebbe alle scelte delle sue creature. Entra in campo un forte antropomorfismo. Anzi, secondo Nicola Cola «il mistero della pro-esistenza del Figlio significa ciò che viene (dunque) chiamato il mistero della pro-esistenza trinitaria»[9]. Ciò che è atteggiamento, ed accade nel crocifisso, in qualche modo, dovrebbe essere e accadere anche nella Trinità. Qualche traccia di questa visione, pur salvando la natura impassibile di Dio, si ha nella Dives in Misericordia, al n. 39. D’altro canto, chi vuole assumere una visione patetica di Dio lo fa in antitesi ad una teologia scolare, che sarebbe frutto della filosofia greca. Ma sempre costoro, che contestano sia la teologia scolare che la metafisica greca, non sono forse l’esito dell’ingresso in teologia della filosofia Hegeliana del processo? E tutte e due le correnti non intendono interpretare il pensiero biblico, la rivelazione? Ciò non ostante, questa linea hegeliana sarebbe ritenuta ancora poca cosa. Ecco, allora, che per Moltmann è nata una teologia, che non solo pone ascolto al grido di morte lanciato dal Crocifisso, ma inserisce la sua sofferenza in Dio. Tale sofferenza, dunque, non sarebbe in ordine alla soteriologia, ma propria del modo di essere di Dio, della Sua natura. Quindi, per Moltmann, Dio non solo soffrirebbe nel rapporto con l’uomo, ma anche in Sé stesso. Già!, ma come giustificare una sofferenza di Dio in Sé stesso, se Dio non ha bisogno dell’uomo, è diverso dall’uomo ed è creatore dell’uomo? Se Dio avesse bisogno, sarebbe una creatura e non Creatore.
Raffaello Sanzio, Primo Motore, 1508-1511.
Palazzi Vaticani, Volta della Sala della Signatura Apostolica
Addirittura, Moltmann, in L’avvento di Dio[10], sviluppa il tema del bisogno di Dio di auto redenzione dalle sue sofferenze. Quando la sua “auto redenzione” si sarà compiuta, allora Dio sarà completamente nella sua creazione e, questa, totalmente in Dio. Ma è evidente un limite in questa dottrina. La Trinità immanente, principio per conoscere Dio attraverso la croce, diviene principio di costituzione della Trinità. Manca tutto il tema dell’analogia e della differenza, tema, comunque, presente nelle Scritture. E per quanto si voglia unire il Padre alla sofferenza del Figlio sulla croce, comunque, il Figlio resta abbandonato. Non se ne esce. Gesù, uomo, esistenzialmente, muore senza-dio, nel silenzio di Dio. Ma per capire che questa nuova dottrina costituisce un nodo insolubile, occorre prendere visione della prospettiva di S. Tommaso, naturalmente accusato da Moltmann, di essere debitore del pensiero greco, e comprendere, invece, le vere ragioni per le quali Tommaso non ammette in Dio passioni[11].
Impassibilità della Trinità e passibilità di Cristo nelle due nature. Nella Summa Theologica il tema dell’impassibilità è indagato nella trattazione su Dio, mentre il tema della passibilità è presentato nella cristologia. Egli ricorda che i nestoriani negavano si potesse predicare di Dio ciò che è dell’uomo (quindi anche la sofferenza) e che i cattolici, invece, affermano che quanto si predica di Cristo può esserlo sia di Dio, sia dell’uomo[12].
Beato Angelico, San Tommaso, Fondazione Cini
Naturalmente, se di Cristo si possono predicare diverse caratteristiche, occorre distinguere quelle proprie della natura divina, che sono dette di Cristo, in base alla natura divina, che quelle della natura umana, dette in base alla natura umana e non a quella divina. Chiaramente, la soluzione, già adottata da S. Agostino[13], si fonda sull’unione ipostatica, che asserisce l’assunzione in Dio della natura umana con i limiti che le sono propri. Assunzione che non è metaforica, ma reale. Proprio la distinzione delle due nature diviene la soluzione della questione se Dio possa soffrire.
Guarigione del cieco nato, Abbazia di Sant’Angelo in Formis, Ce, Sec. VI
Occhi purificati comprendono la straordinarietà di Dio
Per S. Tommaso, la semplicità infinita di Dio non è immutabile, non coincide con la staticità. Dio, anzi, è pura dinamica attualità. Egli è, infatti, non potenza, ma atto. Così, nel contesto della volontà di Dio, S. Tommaso non può non parlare di misericordia, compassione, amore. Ma ciò non significa che in Dio vi siano passioni in senso umano, intese come proprie di Dio. Non vi può essere interscambio tra Dio e uomo. Infatti, spiega il Santo Dottore nella Summa contra Gentiles, in Dio manca qualsiasi conoscenza sensitiva, che è alla base di ogni passione affettiva, la quale comporta la trasformazione corporea[14]. In Dio non si possono ammettere né dolore, né tristezza o timore, derivanti da un male, che tocca il soggetto. Si può invece ammettere gaudio perché non contrario alla natura di Dio, infatti, il gaudio riguarda un bene ed una condizione presente, persistente. Egli è condizione di gaudio. Ma gaudio e amore in Dio non sorgono ad un dato momento, allorché si compiaccia di qualcosa, ma da sempre. In Dio, infatti, non sono passioni.
Stefano di Giovanni, Il Sassetta, San Tommaso davanti al Crocifisso,
Pinacoteca Vaticana, 1423-1424
Quindi, tutto ciò che si dice dell’uomo in Dio può essere detto solo in modo metaforico, allusivo, essendo Dio assolutamente al di sopra della condizione di qualsivoglia creatura e suo fondamento. Le metafore, però, non sono qualcosa di vago ed aleatorio, ma sono la via maestra per trapassare dalla conoscenza delle cose visibili alla conoscenza di quelle intelligibili. Dio, allora, resta indifferente al mondo? Non re-agisce alla condizione dell’uomo? No. Dio non re-agisce, ma, in quanto atto, agisce sempre e precede l’uomo, essendo sua provvidenza. Così, quando l’uomo prega Dio, per ottenere il suo aiuto, Dio non muta programma, ma è l’uomo che muta.
Benozzo Gozzoli, San Tommaso, 1420-1497
La stessa incarnazione non è mutamento in Dio, in conseguenza del peccato dell’uomo (ciò sembrerebbe a parte hominis, ma non lo è a parte Dei). L’incarnazione è manifestazione di Dio in una condizione umana mutata. L’uomo, mutato, coglie un aspetto di Dio: l’incarnazione. Dio non conosce discontinuità. L’uomo, invece, sì.
Sofferenza e imperfezione. Quale rapporto? La Tradizione esclude da Dio la sofferenza se essa indicasse, anche per un momento, mancanza di perfezione. Il rapporto tra amore e sofferenza, invocato dalla recente teologia, per affermare che Dio soffre, è inadeguato quale argomento poiché l’amore è pienezza di beatitudine anche in presenza del male. Oltretutto, posto che non è intenzione divina distruggere il demonio, si dovrebbe ipotizzare una sofferenza eterna di Dio per l’esistenza del Demonio. Ciò sarebbe assurdo. La stessa incarnazione vuole rendere gli uomini partecipi della beatitudine, che è in atto e non in potenza. Dio non deve auto-realizzarsi, un giorno, nella beatitudine. Egli è beato e ci attira costantemente. A noi la scelta.
Lorenzo Lotto, Natività.,1523, tavola cm 46 x 36.
Al centro il luminoso Bambino.
Sull’arco tenebroso, di scorcio a sinistra, il Crocifisso riceve luce dall’Incarnazione.
La misericordia di Dio, allora, non è risposta ad un difetto, ma costante sostegno alla natura umana del quale Egli è creatore. Egli sempre sostiene l’uomo, giusto o ingiusto. Sempre. Tutto lo sforzo del Santo Dottore è teso a non attribuire a Dio ciò che potrebbe farlo dipendere da qualunque causa a Lui esterna. Egli è assolutamente il Libero. Ciò non significa, però, che sia insensibile, apatico, incapace di compassione. Egli non lo è in senso umano, ma è molto di più. La misericordia di Dio non è definibile salvo voler definire e circoscrivere Dio nelle nostre parole. Tommaso, semplicemente, non vuole abbassare Dio al livello degli déi mitologici. Il Tommaso impassibile, nel senso banale del termine, non esiste.
La differenza è garanzia di vicinanza San Tommaso, e quanti lo seguirono, e seguono, non dimenticano la differenza ontologica tra Dio e creature. Egli non è una sorta di demiurgo, di un supereroe. Proprio la distanza, ovvero l’essere diverso da come l’uomo possa immaginarLo, è garanzia di vicinanza e di speranza. Da quanto fin qui detto, da un lato abbiamo l’assolutezza di Dio, trascendente, dall’altro la vicinanza immanente e quasi confusa con la creazione. Quando recenti teologie propendono per una immanenza quasi confusa con la creatura dimenticano la lezione del concilio Lateranense IV (1215) secondo il quale «tra il Creatore e la creatura non si può notare una somiglianza, senza che si debba notare una maggiore dissomiglianza»[15]. Così, se Dio è sommo amore, rispetto all’amore del quale è capace l’uomo, non si può, analogamente, postulare in Dio il sommo della sofferenza. Infatti la sofferenza è imperfezione, limite, mutazione, mentre l’amore è perfezione e stabilità nell’essere e nei suoi attributi. Ma anche l’amore in Dio è ben diverso che nell’uomo, essendo Dio il modello.
Dialogo con la Samaritana, Abbazia di Sant’Angelo in Formis, Ce, Sec. VI
Gesù suscita e guida il cammino della donna.
Noi, invece, conosciamo l’amore non dal modello, ma dalle creature e, dunque, ne abbiamo un’idea assai impropria, tanto che me parliamo da secoli. Se ciascuno conosce secondo la propria capacità di conoscere (quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur) è chiaro che, parlando di Dio, non possiamo legarlo non solo ai nostri pensieri, ma nemmeno all’immagine che noi abbiamo delle nostre passioni. Anche la Scrittura afferma questo limite quando in Num 23, 19, per esempio, dice che Dio non è un uomo; in 1Sam 115, 29 che la Gloria di Israele non mentisce né può ricredersi, perché egli non è un uomo per ricredersi. La Scrittura avverte una differenza tra Dio e la creatura. Soprattutto, nel N.T., non troviamo affermazioni sulla passione né del Padre, né dello Spirito. Invece, la tesi moltmaniana ipotizza proprio una sofferenza del Padre e, non escludiamo, dello Spirito. La sofferenza sarebbe nella Trinità, in base alla pericóresi, ovvero, che ciò che vive una delle persone è vissuto anche dalle altre. La prima persona, che dovrebbe vivere tale sofferenza sarebbe, ovviamente, il Verbo, ma il Verbo, nella sua natura divina, non la vive. Viceversa, il peccato diverrebbe più forte di Dio. Dio non potrebbe liberare dal peccato. Sarebbe logico e coerente con la salvezza dire che la relazione tra Figlio e Padre e Spirito impedisce l’inghiottimento del medesimo figlio nella sofferenza e nella morte![16] Se pure il punto di partenza per descrivere la realtà di Dio sia la Croce, o, meglio, il Mistero dell’incarnazione, morte e risurrezione, la croce non può essere scelta come unico criterio per pensare Dio o l’uomo. Da dove dovrebbe, poi, sopraggiungere la forza di vittoria sulla morte? Non si vede da dove! «Del resto è solo perché la croce esprime l’amore perenne e sempre identico di Dio che la si può considerare salvifica»: amore perenne e salvifico!, soteriologia, che proprio Moltmann mette ai margini della sua riflessione, quando, collegando nel mistero croce e resurrezione, non nella storia –i due piani sono diversi-, pone l’accento sull’escatologia. Egli tralascia la soteriologia, cioè, la liberazione dal peccato, dal male e dalla morte. Occorre sempre ritornare alle parole di At 2, 24: «Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere …» e, poco oltre, alla domanda del cosa dobbiamo fare?, la risposta è convertitevi e fatevi battezzare. La questione diviene soteriologica nella collaborazione, per di più, da parte dell’uomo.
Masaccio, San Pietro battezza i neofiti, 1425-1426, affresco.
Firenze, Basilica di Santa Maria del Carmine, in riferimento ad At. 2, 41.
Mentre la via cristologica della Tradizione ha sempre tenuto presenti nella persona divina, -ma nel rispetto delle diverse nature del Cristo-, l’impassibilità e la passione, una –passatemi l’espressione- “crucilogia” spezza il legame tra Dio e uomo, anziché rafforzarlo ed impedisce il superamento dell’aporia. Come l’incarnazione è propria del Figlio, e non delle altre due persone, così la morte e la resurrezione. Il Padre e lo Spirito sono implicati nella vicenda, ma in modo proprio e non al modo del Figlio, altrimenti perché porre una Trinità? Anzi, secondo questa visione, non avrebbe proprio più senso parlare di Trinità, tranne che per omaggio ad una consuetudine.
Salvezza non dalla sofferenza del Padre, ma dall’Impassibile. Scrive Canobbio: «Se la teologia recente ha sentito il bisogno (parlerei di teologi più che di teologia) di attribuire la sofferenza a/in Dio per far sentire la solidarietà con la sofferenza umana, non può tuttavia dimenticare che non è la sofferenza, che salva, bensì colui che non si lascia bloccare né indebolire dalla sofferenza»[17]. Naturalmente né Moltmann, né gli epigoni, sosterrebbero di voler ridurre Dio alla sua sofferenza, ma è chiaro che una volta poste le premesse metafisiche e linguistiche, se ne debbano trarre le debite conseguenze senza negarle incoerentemente. Perfino K. Rahner, citato da Canobbbio[18], ritiene che in Moltmann, ed in altri pensatori, vi sia un modo di fare teologia per paragoni assoluti, un certo patripassianesimo, una proiezione della morte in Dio stesso «tanto che mi chiedo per prima cosa con che coraggio si presume di parlare così del buon Dio (e) anche se questo sia davvero consolatorio». Così K. Rahner, giunto persino all’eccesso teologico di un cristianesimo anonimo, per dire la vicinanza e la salvezza di Dio per l’uomo, non esita a rifiutare la visione di Moltmann! Moltmann, imperterrito, separa il grido di Cristo dalla salvezza portata da Cristo ponendo in primo piano solo il grido.
A Cevo, in Diocesi di Brescia, nel 1988 viene eretto, grazie alla collaborazione del noto scultore Enrico Job, un crocifisso, che si getta sul mondo dall’alto della rupe. Lo scopo è una degna accoglienza di San Giovanni Paolo II in visita alla Diocesi, lasciando un segno della vicinanza di Dio al dolore dell’uomo. La mole, benché slanciata, è impressionante. Un crocifisso aereo … ma gli angeli … non lo soccorrono, Lc 4, 9-12:
«9Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: -Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; 10 sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano; 11 e anche: essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra». 12 Gesù gli rispose: -È stato detto: Non tenterai il Signore Dio tuo».
Gesù, però, non si gettò. Più volte cercarono di gettarlo da un precipizio, ma non vi riuscirono. Egli salì, invece, il monte della croce. Ora, negli ultimi tempi, ci siamo riusciti … il 24 aprile 2014, alle ore 8.37, uccidendo anche un povero giovane …
Chiaramente il mio riferimento è paradossale, ma non così lontano da una realtà spirituale discutibile, ove la Croce, il dolore di Dio, portati all’estremo della confusione con la natura dell’uomo, possono solo crollare. Sia nella teologia che nell’arte occorre rispettare il limite. Noto, così, quanto annuncia 1Pt 1, 3:
3Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo;
nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati,
mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti,
per una speranza viva,
4per una eredità che non si corrompe,
non si macchia e non marcisce.(…)
6Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere
un po’ afflitti da varie prove,
7perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che,
pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco,
torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo:
8voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora, senza vederlo, credete in lui.
Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa,
9mentre conseguite la mèta della vostra fede,
cioè la salvezza delle anime.
La salvezza delle anime. Essa è il nostro limite, cioè, il segno entro il quale muoverci, secondo il significato etimologico. La via segnata da quelle pietre, che non potevano essere rimosse senza grave delitto e che i romani ritenevano sacre.
Cimabue, Basilica di Santa Croce, Firenze 1272-1280
«Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno»
In Paolo la prospettiva è soteriologica: conseguire la salvezza delle anime; liberarsi dal peccato. Per Moltmann la sofferenza non sarebbe conseguenza del peccato (principio invece chiaro in Paolo), ma la giusta relazione sarebbe amore-sofferenza, in quanto l’amore implica sempre sofferenza. Ma M. dimentica che l’uomo soffre nell’amore per paura di perdere l’oggetto di amore. Invece, in Dio-Amore, l’amore è certezza di essere unito con Sé e con le creature. È tutta un’altra prospettiva quella di Dio. Dio non teme di perdere l’uomo. Dio sostiene l’uomo nel non-perdersi! Per M. l’amore creativo –Dio che crea autolimitandosi- è, invece, sempre anche amore sofferente[19].
Ancorati a Cristo, vinciamo la sofferenza e la morte, nell’attesa della Sua venuta Le parole evidenziate hanno da dire qualcosa a chi è nel dolore se è nella novità della fede, o da prima della sofferenza, o, attraverso la sofferenza. Il cristiano è invitato nella gioia a non soccombere alle sofferenze (prove), a non perdere la Speranza. Così San Giovanni annuncia in 1Gv 1, 2-4
San Giovanni Evangelista, Piccolo eremo delle querce. Santuario di Santa Maria di Crochi,
comune di Caulonia (GC), nella Locride
… vi annunziamo la vita eterna,
che era presso il Padre e si è resa visibile a noi,
3quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi,
perché anche voi siate in comunione con noi.
La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.
4Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.
La differenza tra la sofferenza accolta e la disperazione, che fa considerare Dio come il responsabile di tutto il male, è la virtù teologale della Speranza, non altro.
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[1] Moltmann J., Il Dio crocifisso, apparso in lingua tedesca nel 1972, è edito da Queriniana, Brescia 1973, 20025. [2] Catherine Chalier, Trattato delle lacrime. Fragilità di Dio, fragilità dell’anima. Queriniana, Brescia 2004, 91. [3] Canobbio G., Dio può soffrire?, Morcelliana, Brescia 2005, 10. [4] Bonhoeffer D., Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, 440. [5] Canobbio G., o.c., 15. [6] Ad es. C. Charamsa, Davvero Dio soffre? La tradizione e l’insegnamento di San Tommaso, Studio Domenicano, Bologna 2003. [7] Cf Cone J.H., Il Dio degli oppressi, Queriniana, Brescia 1978 e la teologia del processo. [8] Cf Galot J., in introduzione a F. Varillon, La sofferenza di Dio, Città Nuova, Roma 1989, 17-18; ma anche J. Maritain. [9] Cola N., Teologia Trinitaria. Storia-metodo-prospettive, EDB, Bologna 1996, 187. [10] Moltmann J., L’avvento di Dio, Queriniana, Brescia 1998. [11] Vedi Ziffoli E., Mistero della sofferenza di Dio, Il pensiero di San Tommaso, LEV, Città del Vaticano 1988. Non si dimentichi il pronunciamento del Concilio Lateranense IV (1215) nella Costituzione I De fide catholica contro i catari e gli albigesi. Prima si afferma che Dio è «incommutabilis» e, poi, nella sezione cristologica, si afferma: «Qui cum secondum divinitatem sit immortalis et impassibilis, idem ipse secundum humanitatem factus est passibilis et mortalis» (DS 801). Ovvero: «Colui che, secondo la divinità, è immortale ed impassibile, egli stesso medesimo, secondo l’umanità, è divenuto passibile e mortale». Tale definizione precede nel tempo San Tommaso ed i riformati. L’attenzione di Tommaso dice, dunque, quanto egli tenesse al tema della sofferenza di Cristo, ma con le debite distinzioni. [12] Canobbio G., Dio può soffrire? o. c., 83. [13] Augustinus, De Trinitate I, 1.3 e 13.28-30. [14] Cf De Trinitate I, 89, 1. [15] Cc Lateranense IV, Constitutio II: DS 806. [16] Cf Canobbio G., o.c., 107. [17] Canobbio G., o.c., 111. [18] Rahner K., In merito al problema della compassione e dell’impassibilità di Dio, in J. Moltmann, Nella storia del Dio Trinitario, Queriniana, Brescia 1993, 191, citato in Canobbio G., o.c., 111. [19] Moltmann J., Il senso della storia: saggio di una filosofia del destino umano, Jaca Book, Milano 1971, 70.
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