Pubblichiamo un’intervista concessa da don Karam Shamasha, giovane sacerdote iracheno fuggito dall’ISIS. L’intervista è stata pubblicata anche sul sito della comunità Nuovi Orizzonti.
di Pia Pisciotta
Don Karam, quanti anni hai e da dove vieni?
Ho 29 anni, vengo dall’Iraq e sono sacerdote da 4 anni. Sono stato ordinato nel mio villaggio vicino a Mosul. La mia parrocchia conta quasi 1.600 famiglie per un totale di 6.000 persone circa.
Mosul è una località nota per le devastazioni dell’ISIS.
Si, i terroristi islamici hanno devastato il Museo di Ninive distruggendo statue, opere d’arte e reperti archeologici.
E il tuo villaggio?
Era un villaggio interamente cristiano, molto attivo, di persone dignitose e benestanti. Quasi tutti laureati, dottori, ingegneri, maestri, studenti, commercianti, agricoltori, lavoratori tranquilli. La parrocchia era il centro della vita locale e le celebrazioni liturgiche tanto partecipate che non bastavano i posti a sedere.
La tua è una comunità cristiana molto antica.
Si, la nostra terra era cristiana prima che nascesse l’Islam. La nostra chiesa è nata grazie alla prima evangelizzazione di S. Tommaso, apostolo di Gesù. Come etnia deriviamo dai Caldei di Babilonia. Siamo una chiesa molto antica, apostolica, di rito caldeo. La lingua dei cristiani iracheni è l’aramaico. Come in tutto il Medioriente, il cristianesimo esisteva molto prima della nascita e dell’espansione dell’Islam che ha dato alla nostra chiesa moltissimi martiri.
Il martirio dei cristiani prosegue…
Purtroppo si. I terroristi islamici sono entrati nel nostro villaggio il 6 agosto 2014. Per prima cosa hanno rotto le croci sopra le chiese e colpito le statue religiose, poi hanno seminato il terrore e ora il villaggio è deserto, vuoto. Purtroppo i villaggi musulmani vicini a noi si sono convertiti all’ISIS e nessuna famiglia ha ospitato i cristiani perseguitati. Ora non è rimasto nessuno, siamo tutti profughi, sparsi per il mondo.
Quali alternative avevate?
Davanti a uno jihadista ogni cristiano ha tre alternative. La prima è pagare la tassa per rimanere in vita, altrimenti tutte le sue cose diventano di proprietà islamica. Non esiste la proprietà privata dei cristiani. Se un musulmano vuole la tua casa, devi dargliela. La seconda alternativa è convertirsi all’Islam. La terza è scegliere di morire. Non ci sono altre possibilità.
Come decidere?
Quando hai la spada al collo non hai tempo di fare tanti calcoli o ragionamenti. Continui a pensare come hai pensato fino a quel momento. Se la tua fede è stata abituata ad essere vera e forte – non a parole ma nei fatti – quando il male arriva all’improvviso, sai subito come reagire, riesci ad ascoltare la voce della tua coscienza che suggerisce la cosa giusta da fare, anche a costo della vita.
Qualche testimonianza?
Conosco famiglie benestanti che avrebbero avuto le possibilità di pagare la tassa per sopravvivere ma hanno preferito scappare piuttosto che vendere il corpo e l’anima. Molti altri fuggendo non hanno avuto il tempo di prendere niente, né soldi né vestiti. Ma hanno portato con sé la statuetta della Madonna. Nessuno ha detto loro di farlo, lo hanno fatto spontaneamente. Altri avrebbero potuto convertirsi e rimanere nelle loro case, ma non lo hanno fatto. Quando arriva la difficoltà non hai tempo di aspettare un ordine superiore che ti dica cosa fare. Istantaneamente si attiva la fede che dice al cuore come reagire. Vivere il Vangelo ti prepara a tutto: “Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra” (Mt 10, 16-23). Tanti sono fuggiti, e dopo anni di studio e lavoro non hanno neanche un pezzo di carta per dimostrare che sono medici o ingegneri.
La fede dei tuoi parrocchiani profughi?
Una volta trovata una soluzione di appoggio, il primo pensiero dei miei parrocchiani è stato questo: la vita non finisce qui, anche se abbiamo perso tante cose importanti come case, soldi, documenti, certificati di laurea, ricordi, affetti ecc. Sanno che la fede è fiducia in Dio, che Lui non abbandona nessuno, anche quando non vediamo, quando non capiamo, quando le cose non sono secondo la nostra volontà. La gente del mio villaggio non ha smesso di vivere. Tanti in questa situazione così difficile si sono sposati, hanno voluto assumersi la responsabilità del matrimonio. Altri hanno fatto la Prima Comunione, hanno conservato la gioia. E ringraziano Dio perché li ha preservati da un male peggiore.
Come si prega da perseguitati?
La preghiera è molto presente nella vita di un perseguitato. L’Eucarestia, affermano tanti profughi,è il momento che raduna i dispersi, è la cosa più cara che a tutti è rimasta. È il momento migliore per donare a Dio tutto ciò che è nell’intimo. La S.Messa è essenziale nella giornata. I nostri santi patroni sono rimasti nel villaggio, nella zona invasa dall’ISIS, ma le nostre feste continuano. Non smettiamo di esprimere la nostra fede attraverso la preghiera e di manifestare nella gioia la nostra speranza.
Gioia?
La fede va vissuta con gioia. Non posso dimenticare le attività sportive dei profughi, i giochi a gruppi che esaltano la speranza, come ad esempio “il ritorno a casa”. Alcuni giovani avevano così tanta speranza che continuavano a studiare per gli esami anche dopo essere scappati. Inoltre, la fede va approfondita, dunque si è cercato di superare la ferita del terrorismo riscoprendo i valori del Catechismo, spiegato in una tenda fredda, calda o umida per la pioggia.
Anche nel terrore grazie, grazie, infinitamente grazie a Dio?
Si. I problemi ci rivoluzionano perché ci fanno capire che non possiamo vivere senza obiettivi: arriva un giorno e un’ora in cui se non hai la fede non puoi difendere veramente la tua vita. Noi profughi siamo salvi grazie alla fede che ci ha fatto dire “Dio, siamo tutti tuoi, guidaci tu dove vuoi, anche se oggi non abbiamo niente, soprattutto abbiamo te, e questo ci basta”. Ora siamo dispersi in vari paesi, ma ci ritroviamo nella preghiera e anche su internet.
Cosa vi dite sui social network?
Alcuni scrivono “Grazie Signore perché siamo vivi, perché hanno distrutto le nostre chiese ma non la nostra fede, perché la nostra chiesa è dentro il nostro cuore, nessuno può cancellare la fede dal nostro cuore perché Dio è dentro di noi”. Altri ancora sperano di tornare in Iraq e scrivono: “Quando torneremo al villaggio, prima di entrare nelle nostre case ci troveremo in parrocchia per la S.Messa”. Quasi tutti dicono: “Don Karam, la cosa che più mi manca è la mia chiesa”. I miei giovani scrivono “Anche se la nostra chiesa non è esteticamente bella come le chiese europee, non c’è una chiesa bella come la nostra parrocchia”. Chi è benestante condivide che non avrebbe potuto cambiare fede perché chi lascia la fede in Dio è già morto. La scala dei valori in ordine di importanza infatti è questa: fede, famiglia, tutte le altre cose.
Cosa pensi del terrorismo in Occidente?
Penso che se una persona bussa alla porta di casa mia, prima di farlo entrare gli chiedo chi è, mi informo su di lui, su cosa faceva fino a ieri. Per la mia esperienza, quando l’Islam è in minoranza si parla di diritti umani, quando è in maggioranza no. Non mi risulta che nei paesi musulmani ci sia molto rispetto dei diritti umani, anche nel caso dell’ “Islam moderato”. Credo che l’Occidente debba fare molta attenzione e custodire l’ideale di uomo cristiano: l’uomo che rispetta l’umanità propria e altrui, l’uomo che è capace di solidarietà, di rispetto, di amore.
Come si fa ad amare in questi momenti?
La fede è carità, significa amare tutti, cristiani e non. La vita di tante famiglie cristiane è ferita, provata da uno spirito arrabbiato. Ma attraverso la fede anche la morte può diventare vita, come ai tempi di Gesù quando i morti tornavano in vita a causa della fede. Bisogna lavorare per amore degli altri, bisogna far giocare i bambini, non solo per dare dei servizi sociali o per eliminare la paura prodotta dall’ISIS, ma perché i bambini sono il futuro della Chiesa.