Crisi della Bellezza e crisi della Fede

arte

Da tempo ormai sociologi, teologi e pure cardinali ci dicono che la fede cristiana è in calo nel vecchio continente. Fenomeno, che al momento, non sembra invece interessare le così dette “periferie esistenziali”, ovvero il continente africano e parte dell’Asia. Perché questa tendenza?

Da dove viene questa crisi? Tentare di elencare le cause in un articolo risulterebbe realisticamente impossibile poiché sono diversi i fattori riscontrabili che hanno portato ad una vera e propria secolarizzazione della fede in Europa e nel resto dell’Occidente. Se però volessimo tentate almeno di cogliere un aspetto di questa crisi dovremmo fare i conti con un fatto che ormai sembra diventato “dogma”, ovvero la santificazione dell’umano e la laicizzazione del Divino. Mi spiego. È facile notare come, non solo architettonicamente ma anche sostanzialmente, la presenza di Dio all’interno degli edifici religiosi sia stata decisamente marginalizzata. Laddove l’altare era presieduto dal Tabernacolo contenente le Specie Eucaristiche, oggi trova posto la figura e la persona del sacerdote.

Non di rado nelle nostre chiese la cappella del Santissimo Sacramento è posta fuori dalla stessa chiesa, lasciando l’edificio senza la presenza constante del Redentore. Ci si è, piano piano, abituati all’assenza di Dio e alla presenza (per non dire, a volte, invadenza) del sacerdote. Entrando nelle nostre chiese si è persa, conseguentemente, l’antica usanza di segnarsi e genuflettersi verso il Tabernacolo. Stessa cosa dicasi durante la funzione liturgica nel momento della Consacrazione. Sempre più fedeli rimangono ritti (come farisei nelle sinagoghe) al cospetto dell’Onnipotente. Mi si obietterà che sono tutte cose formali, che la fede è anzitutto sostanza, che non dipende da un gesto o da quell’altro. Purtroppo per i difensori delle liturgie “liberty” la Chiesa ha sempre pensato e creduto che la forma è anche sostanza. Che forma dare, allora, alla liturgia in cui nuovamente il Signore viene e si sacrifica per la nostra salvezza?

Nei secoli la Chiesa ha sempre creduto che la bellezza fosse specchio del vero Bello che è Dio. Contemplando la bellezza di gesti pacati e misurati, di chiese splendidamente addobbate e impreziosite da opere d’arte, di musiche sublimi e di profumi celestiali, si permetteva (e si permette) all’uomo di sentirsi realmente e concretamente più vicini alla vera Bellezza. Neanche i pavimenti venivano risparmiati, coperti a volte da stupendi mosaici che servivano al semplice fedele (non allo storico dell’arte o al turista) che, inginocchiandosi per pregare, aveva anche il pavimento che “parlava” di Dio e lo conduceva verso l’Altissimo. Un trionfo di fede semplice e bellezza, una sintesi perfetta di materia e forma, di corpo e anima, di cui Gesù Cristo ne è la sintesi mirabile. Vero Dio e vero Uomo, Colui in cui confluisce la povertà del galileo e lo splendore del Figlio di Dio. Rivoluzionando la forma si è impoverito il contenuto. Anzi, lo si è proprio alterato. Non è più necessario, sembra, chiedere a Dio grazie e miracoli, forza e discernimento.

Tutto diventa troppo umano.
È così che, piano piano, si fa strada l’idea che un sacramento sia vero solo se creduto in maniera incontrovertibile dai fedeli, che la Chiesa è santa solo se i fedeli sono santi. Insomma si capovolge la verità. Non siamo più noi che abbiamo bisogno di Dio per essere santi ma, paradossalmente, è Dio che ha bisogno di noi. Siamo noi che rendiamo santo Dio. L’antropocentrizzazione della liturgia ha avuto conseguenze molto pensanti, quindi, anche per la fede. Non è difficile infatti trovare chi dica che il Sacramento del Battesimo sia meglio amministrarlo quando una persona ha coscienza di quello che sta facendo, ignorando completamente la dottrina su esso. Oppure che il sacramento del matrimonio, se non più vissuto cristianamente dagli sposi, cessa di essere vero. Segni efficaci della Grazie di Dio si relativizzano al comportamento e alla fede dell’uomo. Non viene risparmiato praticamente nulla. Se si pensa che nel 1910, sotto San Pio X, venne pubblicato il decreto “Quam singualri” dove si affermava che condizione necessaria per la Comunione ai bambini non fosse la “piena e perfetta cognizione della dottrina cristiana”, ma la comprensione “per quanto lo consentano le forze della sua intelligenza” di distinguere il bene dal male e “il Pane eucaristico dal pane comune e materiale”. Per questo il documento visti i tempi (siamo nel 1910!!) consigliava vivamente di far avvicinare i bambini alla prima Comunione intorno e magari prima dei sette anni d’età. Insomma, per la Chiesa non era (e non dovrebbe essere oggi) necessaria una preparazione straordinaria che, come riferisce il testo, accompagna e non precede l’accesso al sacramento. La richiesta di una preparazione straordinaria “col protesto di tutelare il decoro dell’augusto Sacramento” è stata causa “col tempo di non pochi errori e abusi deplorevoli”.

Il più grave di tutti è quello di tenere lontani da Dio i bambini.
“Avveniva infatti che i fanciulli innocenti, distaccati da Cristo, venissero a mancare di ogni nutrimento della vita interiore; di che anche seguiva che la gioventù, priva di un aiuto efficacissimo, circondata da tante insidie, perduto il suo candore, si gittasse nel vizio prima di aver gustato i santi misteri. […]fino alla dolorosa perdita della prima innocenza, perdita che forse sarebbe potuta evitarsi, se si fosse in età più tenera ricevuta l’Eucaristia”. Viene da pensare: tutto il contrario di quello che oggi viene predicato. Non sono certamente io a dirlo ma lo stesso card. Antonio Cañizares Llovera, ex prefetto del Culto Divino, che nel centenario della “Quam Singualri” ricordava come “non è dunque raccomandabile la prassi che si sta introducendo sempre più di elevare l’età della prima comunione. Al contrario, è ancora più necessario anticiparla. Di fronte a quanto sta accadendo con i bambini e all’ambiente così avverso in cui crescono, non priviamoli del dono di Dio: può essere, è la garanzia della loro crescita come figli di Dio […] La grazia del dono di Dio è più potente delle nostre opere, e dei nostri piani e programmi”. Se i nostri piani e i nostri programmi diventano solo “nostri” allora perdiamo quell’umana dipendenza da Dio e invocando il nostro stato di “adulti” ci apriamo all’abisso sconfinato delle nostre debolezze e dei nostri peccati e ci dimentichiamo che tutti noi abbiamo bisogno, più di ogni altra cosa, non di salvarci ma di essere salvati.

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