Il Sinodo è ormai in dirittura d’arrivo e non mancano incertezze, polemiche e scontri su questioni delicate come il rapporto con le coppie “irregolari” o la Comunione ai divorziati risposati. Il 12 ottobre scorso, a Sinodo ampiamente avviato, mons. Livio Melina, preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, è intervenuto ad un incontro pubblico con cardinali e vescovi americani o di lingua inglese al Roof Garden della Residenza Paolo VI per una conversazione sul Sinodo.
Il sito Cultura Cattolica ha pubblicato il testo dell’intervento di mons. Melina, che vale la pena ricordare, è stato uno degli “esclusi” dal Sinodo. Aveva fatto molto discutere, infatti, la scelta del Vaticano di non includere alcun rappresentante dell’organismo voluto da Karol Wojtyla, proprio per studiare in maniera sempre più attenta le questioni del matrimonio e della famiglia, tra i partecipanti al Sinodo straordinario. Né il preside, mons. Livio Melina,
né i docenti (italiani e stranieri) che ai temi del Sinodo dedicano da anni energie, studi e pubblicazioni. Durante i lavori del Sinodo nell’ottobre 2014, proprio mons. Melina fu invitato in una tavola rotonda, il cui asse portante da cui era nato l’incontro, era stato il libro-intervista al card. Müller intitolato “La speranza della famiglia”. Già in quell’occasione ebbe a dire che “la Chiesa non inventa la sua dottrina ma ne è interprete e custode. A chi ci sollecita a rivedere i capisaldi della Fede per renderla adattabile ai nostri tempi, la Chiesa non può che rispondere: «Non possumus!». Non possiamo!”
Parole forti e chiare cui fanno eco quelle pronunciato pochi giorni fa alla Residenza Paolo VI. Nell’incontro voluto dal dott. George Weigel, mons. Melina ha espresso non solo preoccupazione per il modus operandi del Sinodo, ma anche per i contenuti dell’Instrumentum laboris che presenta “gravi insufficienze ed ambiguità su almeno tre punti concreti e temo, prosegue il presule, che se lasciato con queste insufficienze porterà alla rovina non solo della pastorale familiare, ma anche ad una gravissima crisi ecclesiale, molto peggiore e più radicale di quella suscitata dal rifiuto dell’enciclica Humanae vitae”. Quali sono questi tre insufficiente, che a dire di mons. Melina, minerebbero l’unita ecclesiale e dottrinale della Chiesa? Innanzitutto la definizione ambigua di “gradualità” presente al n. 57 dell’Instrumentum laboris, nella quale, se da un lato si elogia “il tono comprensivo verso i peccatori”, dall’altro si sott’intende l’idea che in fondo la convivenza sia una positiva tappa verso il matrimonio. Si rischia, così, di trarre “l’erronea conclusione di non voler condannare il peccato. […] La convivenza, ad esempio, non è una tappa verso il matrimonio, ma il contrario: essa indebolisce un futuro matrimonio, come mostrano gli studi sociali, perché è una coppia aggregativa, e non generativa; non solo è priva dei beni del matrimonio (come il vincolo pubblico, la fedeltà, l’apertura alla procreazione), ma rientra in una logica che li nega”. Se poi si estende il discorso alle unioni omosessuali, il richiamo della Chiesa deve esser ancora più forte e “non merita una lode per gli aspetti positivi che vi si riscontrano”.
Altro punto controverso è quello riguardante l’Eucarestia, secondo Melina, “ricondotta ad una logica di sociologia dell’accoglienza di tutti nella Chiesa”. Ma l’Eucarestia è “il tesoro della Chiesa: il sacramento del vero corpo e sangue di Cristo, segno dell’alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa, legato intrinsecamente al sacramento dell’alleanza nuziale tra uomo e donna”. Il pericolo grave però non è solo quello, per dirla con le parole di San Tommaso d’Aquino, di “falsità del segno sacramentale”, ma di far si, come in realtà si sta prospettando, che ogni singola comunità nazionale o locale possa decidere in autonomia, “quasi si trattasse di materia puramente disciplinare”. Il grave rischio, sottolinea Melina, è che si possano aprire “le porte al relativismo e, questo, distruggerebbe l’unità sacramentale della Chiesa Cattolica”. Sul tema del “decentramento” della figura del Papa (dopo le parole pronunciate da Papa Francesco nell’omelia tenuta a Santa Marta lo scorso 17 ottobre) anche il prof. De Mattei ha voluto sottolineare il rischio che si possa creare “una diversità di dottrina e di prassi tra conferenze episcopali e tra diocesi e diocesi. Ciò che in una diocesi sarà proibito sarà ammesso in un’altra e viceversa. Il convivente more uxorio potrà accostarsi al sacramento dell’Eucarestia in una diocesi e non in un’altra. Ma il peccato è o non è, la legge morale è uguale per tutti o non è.”
La terza questione, infine, riguarda il concetto di coscienza e di discernimento morale. Seguendo la Gaudium et spes, al n. 16, dove si ricorda che “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire […] una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato”, mons. Melina, mette in contrapposizione il n. 137 dell’Instrumentum, dove si introduce l’idea “di coscienza individualistica, contraria alla Tradizione della Chiesa. […] Se si accettasse la formulazione attuale del testo, prosegue, si cadrebbe in un soggettivismo, che nega tanto il magistero di Humanae vitae nel suo valore normativo specifico, quanto quello di Veritatis splendor sulle norme morali assolute come espressione e difesa di una verità sul bene. E quando un testo magisteriale nega un altro testo magisteriale precedente con ciò evidentemente mina l’autorità stessa della Chiesa come tale”.
Nella conclusione del suo intervento, mons. Melina, ha tenuto poi a fare chiarezza anche su un’altra questione assolutamente attuale, ovvero il rapporto fra Misericordia e Verità. La separazione di questi due termini può generare una falsa idea di Misericordia, un vero proprio inganno della coscienza. La misericordia, in effetti, “da sola non offre criteri per agire: essa spinge ad agire per il bene dell’altro, ma non può indicare il contenuto dell’azione. Sono le virtù morali e le norme che offrono questi contenuti e questi criteri”. Il rischio maggiore è di guardare la realtà attraverso le spesse lenti del sentimentalismo, la cui deriva antirealista impedisce di cogliere i problemi nella loro vera essenza. “Una pastorale staccata dalla verità e dalla dottrina si trasforma in una strategia per guadagnarsi il consenso, cioè in una strategia per il potere. La Chiesa non dovrebbe arrossire di proporre il Vangelo nella sua integralità perché esso è forza di salvezza per l’uomo”.
La speranza di mons. Melina è che si riparta “dalla famiglia come da un Vangelo e non come da un problema. E quindi partire dalla luce della fede e non dalla sociologia”. L’unica ricetta possibile è proseguire e crescere sotto la guida del Magistero della Chiesa che su questi temi ha espresso, soprattutto negli ultimi decenni, con chiarezza e fermezza la sua verità. Non ci si deve, d’altra parte, trincerare dietro facili moralismi o giuridicismi. Non è quello di cui la Chiesa ha bisogno. “Dobbiamo proclamare la famiglia come la via della Chiesa”, ritrovando “il coraggio di un annuncio positivo e integrale della verità”.
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