Ripubblico un mio saggio sulle guerre in Irak, di circa 10 anni fa. Aggiungendoci le malefatte obamiane e clintoniane in Libia, Siria ecc. si capisce quanto l’Occidente abbia continuato a ripetere errori mortali. Rispetto ai quali l’azione della Russia del vituperato Putin, appare notevolmente più ponderata e intelligente.
Non è facile oggi commentare la guerra in Iraq mantenendo la mente fredda. Da un parte, infatti, troviamo l’ideologia di coloro che sono strenui e utopici esaltatori della società multietnica e sincretista: per costoro la guerra è sbagliata secondo principi che un cattolico può difficilmente approvare, ad esempio il pacifismo ad oltranza, o l’idea secondo cui l’Islam non è assolutamente un pericolo concreto e tangibile, bensì una religione equiparabile, relativisticamente, ad ogni altra.
Dall’altra parte si ripete di continuo una verità, cioè il fatto che la Chiesa non è pacifista, dimenticando un po’ superficialmente però che la Chiesa è per sua essenza pacifica e alla ricerca della pace.
Tutte le guerre del Novecento hanno infatti visto la diplomazia vaticana e i pontefici sforzarsi in ogni modo di scongiurare conflitti ingiusti e assurdi. Infatti, affinché una guerra sia “giusta”, occorre che vi siano alcuni requisiti fondamentali: anzitutto una aggressione in atto, e cioè la necessità di una legittima difesa, provata; in secondo luogo una valutazione dei metodi e dei mezzi adottati (non si può infatti coinvolgere
una popolazione civile, bombardare acquedotti e case, neppure in una guerra giusta); in terzo luogo, per rimanere proprio all’essenziale, una certa proporzionalità (non posso rispondere al rapimento di un soldato con un bombardamento a tappeto) e una valutazione degli effetti conseguenti: una guerra che non porti alla rimozione delle cause, ma al suo inasprimento, è assurda. E’ facile capire, quindi, che questi principi sono stati violati infinite volte nel corso della storia. Eppure la Chiesa ha sempre fatto di tutto per imporre “tregue di Dio”, tempi proibiti per il combattimento, codici d’onore per il soldato (“non assalirai case private, non saccheggerai….”). Inascoltata, specie nell’ultimo secolo, che ha visto il sorgere della guerra totale, dei gulag, dei lager, e le terribili rappresaglie atomiche sul Giappone….o le iniziative di Hitler contro le città inglesi…
Ma veniamo dunque alle due ultime guerre in Iraq, e precisamente a quella del 1990 e a quella del 2003. La storia dell’Iraq moderno inizia con la fine della II guerra mondiale, con lo smembramento dell’impero ottomano e la nascita dell’Iraq sotto protettorato britannico.
Le trattative diplomatiche che portarono alla sistemazione del mondo dopo il 1918 sono il peccato originale della storia contemporanea. Infatti gli stati vincitori, Inghilterra, Usa e Francia, dimentichi di qualsiasi lezione del passato (ad esempio dell’equanimità del Congresso di Vienna, in cui il vinto era stato rispettato), umiliarono i vinti, e disegnarono i confini dei paesi al di fuori di qualsiasi principio realistico. A Versailles (per estensione) nasce la Jugoslavia, uno stato artificiale composto da tre popoli diversi per storia, tradizione e religione, uniti con la forza: di qui le tragedie che la Jugoslavia vivrà in futuro, sino alla guerra civile e allo smembramento. La Germania, accusata da Wilson di essere l’unica colpevole della I guerra mondiale, viene umiliata: le vengono sottratti territori, ricchezze, onore, sino a determinare quel sentimento nazionalista che sfocerà nel nazionalsocialismo. La regione dei Sudeti, tedesca, viene annessa alla Cecoslovacchia, determinando nel tempo la morte e l’esodo di milioni di persone. L’Italia viene privata di ciò che le spettava, in quanto vincitrice, e di quanto le era stato promesso: questo alimenterà il mito fascista della “vittoria mutilata”…
In Oriente, come si diceva, nasce l’Iraq, mettendo insieme tre realtà che erano distinte e conflittuali: curdi, sanniti e sciiti… Una sorta di Jugoslavia nel cuore del Medio Oriente; un nuovo esempio della miopia della mentalità colonialista britannica….
Ad un certo punto della sua storia l’Iraq cade nelle mani di un partito di ispirazione laica e socialisteggiante, per nulla filo-islamico, il Ba’th di Saddam Hussein.
Saddam è per molti anni l’uomo fidato dell’Occidente, ha relazioni diplomatiche con tanti Stati, e gli vengono perdonate, senza problemi, le terribili persecuzioni interne con cui cerca di tenere insieme uno stato artificiale e profondamente diviso come il suo, in cui la minoranza sunnita comanda sulle maggioranze sciite e curde. Nel 1980 Saddam è il cavallo su cui l’Occidente e gli Usa in particolare, puntano per sconfiggere l’Iran fondamentalista.
L’amicizia tra Saddam e gli Usa (e non solo, anche l’Italia) è raccontata ad esempio da Fabrizio Tonello, nel suo “Progetto babilonia“, Garzanti (1993), e dal Corriere della Sera del 9 novembre 2006, in cui si rievoca la carriera di Donald Rumsfeld, ministro della Difesa della II amministrazione Bush jr, ed ex “inviato della amministrazione Reagan in Medio Oriente nel 1983-1984“, quando “aiutò l’Iraq” perché vincesse contro l’Iran: “l’uomo che nel 2003 avrebbe dichiarato una guerra mortale a Saddam Hussein in nome dell’esportazione della democrazia, vent’anni prima aveva incontrato il Rais (che già aveva commesso enormi crimini contro il popolo curdo, sterminato con le armi chimiche), promettendogli aiuto in cambio di un impegno attivo di Bagdad per il contenimento dell’Iran e della Siria” (inoltre aveva anche venduto “due reattori nucleari ad acqua leggera alla Corea del Nord”).
Nella guerra con l’Iran Saddam utilizzò armi chimiche e gas, vendutegli in buona parte dall’Occidente, sterminando centinaia di migliaia di iraniani e lasciandone deformati e sfigurati oltre 500.000. Un episodio che l’Iran, a maggioranza sciita, non avrebbe mai dimenticato. Proprio in seguito alla guerra contro l’Iran, in costante bisogno di soldi, l’Iraq attaccò il Kuwait, ritenendo di poterlo fare, senza perdere l’appoggio degli alleati di pochi mesi prima.
Ma questa volta gli Usa, guidati da Bush sr., si opposero all’Iraq e gli intimarono di liberare il Kuwait, uno stato ricchissimo di petrolio, ma, è bene dirlo, profondamente “tirannico”, come scrive l’insospettabile Paul Berman, favorevole alla guerra, perché fondato sulla ricchezza di pochi sceicchi petrolieri e sulla povertà e la schiavitù del popolo. Scoppiò così la I guerra del Golfo, giustificata in nome dell’invasione di Saddam, e di un suo presunto esercito potentissimo, dotato di armi chimiche e di distruzione di massa. Scrisse in quei giorni Renato Farina, in un articolo intitolato “De bello ballico” (la guerra delle menzogne): “Nel caso della guerra del Golfo la verità se ne è andata di corsa, prima ancora che ci fosse il campo. Non c’è stato niente di giusto….La guerra finalmente si fa. Per mostrare che si è sportivi occorre mostrare che il nemico è forte, fortissimo. Chi è che ha messo in giro la storia del ‘quarto esercito del mondo’? E’ stato Dick Cheney, segretario alla difesa (e oggi vicepresidente, ndr.). I nostri generaloni lo hanno ripetuto alla tv. Il quarto con una x in più: e cioè l’arma chimica. Tutti sapevano che i famosissimi missili scud in possesso degli irakeni non erano in grado di portare armi chimiche….Qualcuno ha osservato con attenzione la storica foto della colonna irakena annientata mentre fuggiva verso l’Irak? Era gente carbonizzata dalle famose (anzi niente affatto famose) bombe aerosol…“. Gli americani avevano usato armi chimiche, in particolare il napalm, carbonizzando migliaia di persone; Saddam non ne aveva usate, perché non aveva più chi lo riforniva (Usa, Germania, Russia, Arabia Saudita).
I morti sotto i bombardamenti, “chirurgici”, erano “tra le centomila e le duecentomila vittime” (Il Sabato, settimanale di Cl, 23 marzo 1991). Secondo l’Osservatore Romano del 23 gennaio i primi quattro giorni di guerra avevano provocato 100.000 vittime, di cui 30.000 civili. Un’inutile ecatombe. Gli americani? Ce ne parla sempre Paul Berman: “dei soldati americani alcuni furono uccisi (in realtà 140 circa, ndr), e molte migliaia furono colpiti da malattie misteriose” dovute alle armi chimiche usate da loro stessi, ma forse a loro insaputa (Paul Berman, “Terrore e liberalismo“, Einaudi).
Del resto l’opposizione alla guerra, in America era forte: l’ex presidente Nixon aveva accusato il governo di essere in Iraq per il petrolio, insieme a Gary Hart, ex candidato alla presidenza e a molte altre figure di spicco della politica e della società civile (Il Sabato, 2 febbraio 1991: il Sabato condivideva queste critiche). E Barbara Ehrenreieh, sul Time del 21 gennaio 1991, aveva scritto: “Vogliamo chiederci, come conservatori, quali saranno le conseguenze della Guerra del Golfo? Una più profonda depressione economica, per esempio, una ondata di terrorismo anti-americano…? Vinceremo militarmente la guerra ma poi nel giro di un anno inizieremo a renderci conto dei guasti fatti in Medio oriente”. Previsione, sicuramente, realizzatasi.
Quale era stata la posizione della Chiesa di fronte allo scoppio della guerra? Di netta condanna. Giovanni Paolo II aveva capito che non si trattava di una guerra umanitaria, ma che dietro di essa vi erano interessi strategici e di potenza. A tal proposito aveva scritto anche al presidente Bush in persona, una lettera che diceva, tra l’altro, così: “”Ascolta il grido unanime dei tuoi figli, supplica accorata di tutta l’umanità: mai più la guerra, avventura senza ritorno, mai più la guerra spirale di lutti e violenza; mai questa guerra del Golfo Persico, minaccia per le tue creature in cielo, in terra, in mare” (dal messaggio a George Bush sr, presidente degli Usa, 15 gennaio 1991). I pronunciamenti di Giovanni Paolo II in verità furono decine e decine. Ad esempio: “Nelle condizioni attuali una guerra non risolverebbe i problemi ma li aggraverebbe soltanto” (appello in piazza San Pietro, 13 gennaio 1991); e aggiungeva: “è impossibile ignorare i problemi d’ordine economico. In questa parte del mondo esistono ineguaglianze e sappiamo tutti che, quando la mancanza di prospettive per l’avvenire e la povertà attanagliano un popolo, la pace è in pericolo…” ( 4 marzo 1991). Aveva anche spiegato, in diverse occasioni, che la destabilizzazione dell’Iraq si sarebbe ripercossa su Libano, Israele, Siria.…Questa fu, sempre, la posizione della diplomazia vaticana nel suo insieme, senza divisioni o spaccature.
In breve la guerra sarebbe finita: l’esercito irakeno si sarebbe rivelato un flop, senza armi chimiche di nessun tipo, subendo però un bombardamento pressochè simile, per quantità, a quello subito da Germania e Giappone durante la II guerra mondiale (Robert Fisk, “Cronache mediorentali”, il Saggiatore). Ma l’amministrazione Bush avrebbero lasciato al potere Saddam, senza che alcuno potesse capire il senso di questa mossa (forse in nome della passata amicizia?). Fatto sta che “una volta finita la guerra, i Curdi nel Nord dell’Iraq commisero l’errore fatale di ascoltare il consiglio degli americani e ribellarsi: ne furono uccisi circa ventimila. Alla fine un milione di Curdi scappò in Turchia per salvarsi la vita…” (Paul Berman, op. cit.). Saddam potè così ricominciare a sterminare gli oppositori, in particolare quanti avevano salutato con gioia l’arrivo dei suoi nemici. Gli sciiti e i curdi, ribellatisi, su invito esplicito, e abbandonati, furono dunque massacrati. In America il New York Times annunciò che gli stati Uniti avevano “consegnato gli insorti al loro destino“: la morte e esodi biblici….
Dopo Bush sr fu la volta di Clinton: costui mantenne in vigore l’embargo contro l’Iraq, contribuendo così ad una nuova strage: agli irakeni erano preclusi viveri e medicinali, causando così la morte di almeno mezzo milione di bambini irakeni (secondo le cifre più prudenti, di provenienza americana e onusiana). R. Bidawid, patriarca cattolico dei Caldei, intervistato da “Verona fedele”, del 10 marzo 1998, spiegava come mancassero nel suo paese “viveri e medicine…Dal 1990 sono morti più di un milione di bambini…Il mio paese è sotto embargo, non entra quasi nulla e quasi nulla può uscire…Nessun popolo può accettare di essere umiliato fino a questo punto. La gente in Irak continua a subire miseria e umiliazioni“. Lo stesso avrebbe dichiarato in più occasioni anche il vescovo ausiliario di Bagdad, mons. Warduni ( ad esempio in una intervista a “30 Giorni”, mensile cattolico internazionale, rintracciabile in internet).
Quale fu la conseguenza della I guerra del golfo sulla comunità cristiana caldea irakena (ricordo che l’Iraq di Saddam era uno dei pochi paesi del Medio Oriente in cui i cristiani avessero la possibilità di accedere sino alle massime cariche dello Stato)? Straordinariamente nessuno. Tutti gli irakeni, per lo più laici, ma anche i musulmani, riconobbero nei cristiani il “popolo del papa”, l’unico uomo che si era opposto alla guerra e non incorsero nell’errore, temuto in principio dai più, di identificare occidentali e cristiani come la stessa cosa. “Si temeva che le Chiese cattoliche di rito orientale potessero essere spazzate via dal risentimento fondamentalista…Invece ciò non è accaduto….Qui nessuno ce l’ha coi cristiani, assicura Sayegh, vescovo ausiliare di Amman….la posizione del santo Padre sulla guerra è stata accolta positivamente dai musulmani” ( “30 giorni”, febbraio 1992). Come dicevo i cristiani furono rispettati: cosa che non accadrà dopo la II guerra, cioè dopo un assedio contro gli irakeni di circa 15 anni, che trasformerà anche i moderati in “fanatici”…
Oltre a mantenere l’embargo, devastante per tutto il popolo, Clinton fece bombardare più volte il paese, senza nessun rispetto per il diritto internazionale e per i civili.
Sino al 2003, anno dello scoppio della II guerra del Golfo, dichiarata da Bush jr. Una guerra che venne definita “preventiva“, per impedire a Saddam di utilizzare armi di distruzione di massa, mai trovate (e come facevano ad esserci, visto che dopo il 1991 c’era l’embargo?), e per punirlo di presunti legami con Osama Bin Laden, responsabile dell’attentato dell’11 settembre. La guerra fu insomma dichiarata senza prova alcuna: tutte le accuse sarebbero state smentite. Del resto si sapeva bene che Osama era stato sempre un mortale nemico di Saddam, un laico “rinnegato e infedele”. Lo avrebbero dichiarato anche il Pentagono e la Commissione del Senato americano, a maggioranza repubblicana, incaricata di far luce sulla vicenda: “Non c’erano rapporti tra Saddam e Al Quaeda“, titolava il Corriere della Sera del 9 settembre 2006, spiegando poi come le ricerche del Senato avessero smentito tutti i tentativi di legare Saddam all’ attentato dell’11 settembre.
In realtà, come è ovvio, la guerra era già decisa, nonostante ad opporsi vi fossero buona parte del popolo americano (specie dopo i primi mesi di guerra), la Cia stessa, la Dia e buona parte dell’esercito, tutti scettici sulle generiche accuse di Bush jr, improntate, come quelle del padre, ad un generico e manicheo richiamo ad una sorta di Armageddon, tra “le forze del bene e le forze del male“. Un manicheismo che lascia veramente perplessi. Che la guerra fosse già decisa lo hanno raccontato decine di grandi giornalisti americani, e anche ideologi famosi della amministrazione Bush, come l’insospettabile Robert Kagan, accesissimo sostenitore della guerra. Costui, nel suo “Paradiso e potere” (Mondadori, 2003), ammette candidamente: “Già prima dell’11 settembre, anzi già prima dell’elezione di G. Bush, gli esperti di strategia e i pianificatori del Pentagono studiavano le probabili sfide del futuro. Una di queste era l’Iraq…Anche se fosse stato eletto Al Gore e non ci fosse stato nessun attacco l’11 settembre, questi programmi oggi sarebbero egualmente in corso. Già prima dell’11 settembre gli Stati Uniti stavano già rafforzando, non indebolendo, il loro arsenale. Durante la campagna elettorale del 2000 Bush e Gore si erano impegnati entrambi ad aumentare le spese di difesa, non in risposta a una particolare minaccia, ma per la diffusa percezione che il bilancio militare, che allora sfiorava i 300 miliardi di dollari annui, fosse inadeguato ai bisogni strategici della nazione….”.
E Kagan prosegue spiegando che il coinvolgimento degli Usa in Iraq “porterà con ogni probabilità a una presenza militare permanente dell’America nel Golfo Persico e nell’Asia centrale e a una lunga occupazione di uno dei maggiori paesi del mondo arabo“: bisogna infatti “abituarsi all’egemonia“.
La II guerra del Golfo dimostra oggi tutta la sua inutilità: i morti sono ormai da decine di mesi 70, 80 al giorno, con una ecatombe quantificata tra i 200.000 morti, secondo cifre assai prudenti, e i 650.000 (Corriere, 12 ottobre 2006: viene riportato uno studio americano della prestigiosa rivista medica The Lancet, che dà la cifra di 655.000 morti dal 2003 al 2006; L’Osservatore Romano del 22/9/2006 parla di 6500 morti nei soli mesi di luglio e agosto).
I profughi sono almeno 3 milioni e ottocentomila (agenzia Asianews; discorso del papa del 17 dicembre 2006); la comunità cattolica è perseguitata dai fondamentalisti, che sono in continuo aumento; il terrorismo è cresciuto, secondo le dichiarazioni di tutte le agenzie di intelligence americane, ed anzi l’Iraq è divenuto il terreno di raccolta di sempre nuovi disperati (Corriere, 25/9/2006); sunniti, sciiti e curdi si uccidono tra loro, e uccidono i giovani militari americani (3200 i morti tra quest’ultimi e decine di migliaia i feriti e gli invalidi). Una guerra condotta malissimo, secondo il rapporto Baker, che non ha fatto che aumentare l’instabilità del Medio Oriente e il rafforzarsi del sentimento anti-occidentale degli islamici (che raccolgono sempre più adepti tra i giovani, senza lavoro, senza futuro, che vedono il loro paese in mani straniere).
Cosa aveva detto la Chiesa ?
Si era subito chiaramente espressa contro il concetto di guerra preventiva, mettendo in dubbio l’esistenza delle armi di distruzione di massa e dei legami tra Saddam, troppo laico, e Osama. Giovanni Paolo II aveva espresso la sua contrarietà alla guerra in molte occasioni, in particolare nel suo discorso al corpo diplomatico del 13 gennaio 2003. Sodano, Ruini, Radio Vaticana e Osservatore Romano si erano schierati con Giovanni Paolo II; la Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti che esce sempre dopo essere stata rivista in Vaticano, aveva confutato la guerra preventiva il 2 novembre 2002 e il 18 gennaio 2003; il cardinal Raffaele Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace aveva affermato: “Non c’è la dimostrazione chiara e lampante che l’Iraq sia tra i responsabili del terrorismo internazionale. Né che sia dotato di armi di distruzione di massa” (30 Giorni, febbraio 2003). Il generale dei Gesuiti, padre Kolvenbach, era intervenuto con queste dichiarazioni: “Benchè 15 dei 19 terroristi dell’11 settembre e le loro reti di finanziamento siano sauditi (e cioè di un paese estremista, alleato con gli Usa, ndr.) si prepara attivamente una guerra contro un paese arabo …non è certamente una guerra difensiva quella verso la quale ci si incammina…Le armi per combattere il terrorismo sono l’intelligence e gli accordi internazionali…Una guerra irriterà per lungo tempo un miliardo di musulmani, di cui una grande massa non sa o non può immaginare che la Santa Sede, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti, e i superiori maggiori americani gesuiti, difendono una posizione morale contro la guerra“.
Il 16 settembre 2002 il Cardinal Camillo Ruini condannava una eventuale “guerra preventiva, che avrebbe inaccettabili costi umani e gravissimi effetti destabilizzanti sull’intera area mediorientale, e probabilmente su tutti i rapporti internazionali“. La stessa posizione veniva assunta da Mons. Tauran e mons. Lajolo, ministri degli Esteri vaticani (non in contemporanea), e dai principali cardinali americani, quali il cardinale di Washington, T. E. McCarrick e B. Francis Law, molto critico con l’uso che Bush faceva del nome “Dio”, oltre che dall’intero episcopato Usa (Usccb). La Civiltà cattolica del 2 novembre, sotto il titolo “Un’altra guerra contro l’Iraq” ipotizzava addirittura che la guerra fosse “dettata anche dalla prospettiva di poter controllare il petrolio irakeno”. Condanna senza appello, infine, avevano espresso i sette patriarchi del Medio Oriente, assai addentro alle vicende di quei luoghi, sicuri che ne sarebbe derivato del grande male per tutti.