“La Chiesa aveva ragione nel rifiutare anche le eccezioni. Il mondo ha ammesso le eccezioni, e le eccezioni sono diventate la regola”. Così scriveva quell’incredibile penna cattolica di Chesterton. Sembra, invece, che questo spirito mondano sia ormai in concreto entrato nella Chiesa, con buona pace dello scrittore inglese. La recente chiusura del Sinodo ha riproposto infatti non solo l’enorme problema della comunicazione attraverso i media delle presunte posizione assunte dalla Chiesa, ma anche di una più insidiosa questione riguardante l’eccezione di alcune categorie che minerebbero Comandamenti Divini e Sacra Scrittura. Ha fatto molto discutere la notizia, smentita di fatto dai documenti, che la Comunione possa essere distribuita anche alle persone divorziate e risposate. Come ha sollevato
più di una perplessità l’espressione “integrazione” per tutte quelle famiglie “irregolari” che desiderano una piena e completa vita ecclesiale.
In questi giorni il cardinale Raymond Burke, dialogando con il New Catholic Register, ha dichiarato che “integrazione è un termine mondano teologicamente ambiguo. Non vedo come possa essere «la chiave di accompagnamento pastorale di coloro che vivono unioni matrimoniali irregolari». La chiave interpretativa della loro cura pastorale deve essere la comunione fondata sulla verità del matrimonio in Cristo, che deve essere onorato e praticato anche se una delle parti del matrimonio è stata abbandonata a causa del peccato dell’altra parte”. A queste posizioni si aggiungono quelle di molti prelati e fedeli che, in continuità con il Magistero, ricordano come tale problema fosse stato già stato sollevato e risolto da Giovanni Paolo II nella “Familiaris Consortio”. Ed il disappunto è stato aggravato dal fatto che il n. 84 dell’enciclica, riportato nella relazione finale del Sinodo, presenta una pericolosa mutilazione. Non sono infatti pochi coloro che hanno interpretato tale mutilazione come una precisa volontà di trattare caso per caso, individuando eventualmente un percorso personale e soggettivo attraverso il quale, ad esempio, al coniuge abbandonato che ha subito il divorzio e che ora si veda costretto (magari per motivi riguardanti l’educazione e la crescita dei figli) a risposarsi, sia permesso di accedere, nonostante la validità del vincolo precedente, alla Comunione. Ad aumentare notevolmente la confusione ha contribuito pure l’insospettabile sito di Radio Vaticana (la voce del Papa e della Chiesa) riportando le dichiarazioni di uno dei protagonisti del Sinodo, il cardinale Schönborn arcivescovo di Vienna, il quale ha osservato che “a questo proposito la parola chiave è discernimento; sull’accesso alla Comunione sono stati dati dei criteri fondamentali per discernere le diverse situazioni”.
In concreto cosa vorrebbe dire fare discernimento su questioni così delicate per la fede? Cosa comporterebbe ammettere eccezioni, seppur adeguatamente motivate? Si possono riportare, a tal proposito, due esempi clamorosi di “discernimento” e ammissione di “eccezioni” che, di fatto, hanno cambiato la regola: la distribuzione della Comunione sulla mano e l’uso della lingua “volgare” nel rito della Messa. La prima questione è abbastanza complessa nella sua ricostruzione storica, anche se si può far riferimento certo all’Istruzione Memoriale Domini della Sacra Congregazione per il Culto Divino, pubblicata il 29 maggio 1969, nella quale si dichiara che il Pontefice Paolo VI, di fronte ad alcune richieste di reintrodurre l’antico uso di ricevere la Santa Comunione sul palmo della mano, si espresse con parere negativo. Queste le parole del documento: “Tenuti quindi presenti i rilievi e le osservazioni di coloro che “lo Spirito Santo ha posto a reggere come vescovi le varie Chiese”, […] il Sommo Pontefice non ha ritenuto opportuno cambiare il modo tradizionale con cui viene amministrata ai fedeli la Santa Comunione. Pertanto la Sede Apostolica esorta caldamente i vescovi, sacerdoti e fedeli a osservare con amorosa fedeltà la disciplina in vigore, ora ancora una volta confermata”.
Parole chiare sul fatto che venga mantenuto l’uso tradizionale, a cui però fecero seguito queste: “Se poi in qualche luogo fosse stato già introdotto l’uso contrario, quello cioè di porre la Santa Comunione nelle mani dei fedeli, la Sede Apostolica, nell’intento di aiutare le Conferenze Episcopali a compiere il loro ufficio pastorale, […] affida alle medesime Conferenze il compito di vagliare attentamente le eventuali circostanze particolari”. Quel “se” inteso ovviamente come un’eccezione (molto pesò l’episcopato olandese e belga del tempo!) divenne nel giro di qualche anno la “norma” per tutte le conferenze episcopali. L’ammissione di quella “eccezione” cancellò definitivamente l’uso esclusivo, e fino ad allora normativo, di ricevere l’Eucarestia solo sulla lingua, con conseguenze sulla fede e sulla pastorale anche gravi. Erano convinti di ciò San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il primo che nella sua ultima enciclica, Ecclesia de Eucharistia, ha scritto al n. 61: “Dando all’Eucaristia tutto il rilievo che essa merita, e badando con ogni premura a non attenuarne alcuna dimensione o esigenza, ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono. Ci invita a questo una tradizione ininterrotta, che fin dai primi secoli ha visto la comunità cristiana vigile nella custodia di questo “tesoro”. […] Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero, perché “in questo Sacramento si riassume tutto il mistero della nostra salvezza”. In continuità con l’insegnamento del suo predecessore, a partire dalla solennità del Corpus Domini del 2008, il Santo Padre Benedetto XVI ha iniziato a distribuire ai fedeli il Corpo del Signore, direttamente sulla lingua e stando inginocchiati. Ma tant’è che la prassi di un’accezione è diventata la “norma”.
Stesso discorso può essere fatto per l’utilizzo della lingua latina nella celebrazione della Messa. Anche qui, volendo per sintesi prendere in riferimento un documento ufficiale, basta citare la Sacrosantum Concilium, Costituzione sulla Sacra Liturgia del Vaticano II. Al n. 101 possiamo leggere: “Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell’ufficio divino la lingua latina. L’ordinario tuttavia potrà concedere l’uso della versione in lingua nazionale”. Anche in questo caso, come per la distribuzione della Comunione, è bastata una congiunzione per cancellare secoli di tradizione. Poco sopra al n. 40 si legge infatti: “Si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della messa che spettano ad essi. Se poi in qualche luogo sembrasse opportuno un uso più ampio della lingua nazionale nella messa, si osservi quanto prescrive l’art. 40 di questa Costituzione.” Come per la millenaria tradizione di ricevere la Comunione sulla lingua anche l’uso del latino è, di fatto ed in virtù di eccezioni concesse in casi particolari e secondo esigenze del tutto locali, scomparso dalla vita della Chiesa. Se questo fatto oggi si estendesse a questioni riguardanti la dottrina e la giusta interpretazione da dare al valore dei Sacramenti, si aprirebbe una “breccia” all’interno del Magistero che potrebbe portare con se conseguenze inimmaginabili. Un “cavallo di Troia”, per usare l’espressione del card. Pell, utilizzato per “proporre un attacco alla bellissima dottrina della Chiesa”.