“Omofobia”, “omofobo”. Sono questi i peggiori termini che oggi si possono utilizzare contro qualcuno, con l’intento (garantito a priori) di farlo tacere: indicare nel pensiero dell’interlocutore tracce di omofobia, additarlo come un pericoloso omofobo. Il gioco è fatto. Basta il sospetto ed immediatamente l’inconscio collettivo opera la traslazione: costui è un pericoloso sovversivo, un danno per la società: l’omofobia – diagnosticata a priori – è (fra)intesa come sintomo di una patologia, avvisaglia di arretratezza culturale e di incapacità mentale ad accettare la bellezza dell’amore libero, del “love is love” – non si è bene capito poi avversione per cosa, di preciso: per gli omosessuali, per l’omosessualità in generale, o per l’agenda LGBT, o ancora per i diritti di tutti a fare un po’ come gli pare, anche sulla pelle dei più piccoli. O chissà cos’altro. Ma l’importante è tacere: che si stia a guardare, mentre il mondo si ammoderna. Ce lo chiede l’Europa. Sennò si è “gente da medioevo”. E quello che ci si aspetta è – nel migliorerei casi – un bel programmino di rieducazione culturale:per chi non c’è stato abbastanza, si tratterà di tornare a scuola.
Altrimenti c’è anche la possibilità del carcere: come già si è visto. E’ una triste considerazione: l’agenda dell’ideologia gender ha ottenuto già oggi, grazie all’invenzione di questo termine pazzesco, “omofobia”, uno straordinario successo. E ancor prima dell’approvazione del Decreto Scalfarotto. Essa ha colto già da tempo un duplice obiettivo: primo, mettere al centro dei provvedimenti urgenti per il Paese ciò che urgente – in Italia – non è. La cronaca ci riporta puntualmente i casi delle condanne: pene e sanzioni sono già presenti nel nostro ordinamento, basta applicarle. Come se non bastasse l’Italia è uno dei paesi più gay-friendly del pianeta. Inoltre si è riusciti a far passare l’equazione “omofobo = chiunque abbia qualsiasi cosa da ridire”: omofobo è il solo pensare di obiettare qualcosa, a qualsiasi titolo, compreso il punto nodale dell’adozione dei bambini in coppie omosessuali. Sotto la pressione di questo marchio infamante (il cui significato è tanto sconosciuto quanto socialmente condiviso), sono riusciti a zittire qualsiasi interlocutore, ad interrompere qualsiasi contraddittorio. L’utilizzo abile e massiccio di astute strategie comunicative (mi limito qui ad indicare la tecnica sofistica dell’avvelenamento del pozzo) ha consentito perfino l’affermare – incredibile, ma vero – che i bambini non hanno diritti circa i loro genitori, che anzi i genitori non servono, oppure se ne possono avere un numero indefinito, “anche diciotto”, come suggeriva lucidamente Giuseppina La Delfa, presidentessa delle “Famiglie” Arcobaleno. Padre e madre: inutili. Bastano degli adulti qualsiasi, che vogliano bene ai bambini, che si occupino di loro. Questo è il succo del discorso. E tutto questo – sempre incredibile ma vero – mentre parallelamente si afferma che la teoria del Gender “non esiste”(!). Che dire, di fronte ad uno scenario così assurdo da diventare imbarazzante? Siamo di fronte ad una psicosi tanto generalizzata da non poter davvero fare o dire più nulla, a meno che non si voglia correre il rischio di venire additati immediatamente come talebani, retrogradi, o addirittura malati mentali? Ecco. Partiamo da qui: la malattia mentale. Prima contraddizione: l’omofobia – se è davvero tale – è una malattia mentale, come tutte le fobie, non dimentichiamolo. La vogliamo mettere su questo piano? Benissimo: allora in quanto omofobo pretendo di essere curato e non punito o zittito. Da quando in qua le malattie mentali si puniscono con intimidazioni, multe o addirittura il carcere (come vorrebbe il ddl Scalfarotto)? La verità è che ai cittadini importa davvero poco di quale sesso sia l’amante del vicino di casa: si entra nella sfera privata e finché non si lede il diritto o la dignità del prossimo, non credo vi siano obiezioni. Il fatto è che quello che l’agenda omosessualista proclama come diritto inalienabile non è questo, ma qualcosa di molto diverso. La pretesa è di arrivare al matrimonio gay, con conseguente adozione di minori. L’idea è quella di mostrare una normalità artificiale, per poi nel contempo poterla dissolvere nello stagno scuro della contraddizione: quando qualsiasi coppia o gruppo sociale, variamente assortito (perché non oltre i famosi “diciotto genitori”?), è famiglia, significa una cosa sola: che la famiglia non esiste più. Ma che c’entra a questo punto l’accusa di omofobia? Qual è la relazione tra (presunta) fobia per gli omosessuali e rivendicazione del diritto di ogni essere umano ad essere generato e da un padre e una madre e non fabbricato come una merce qualsiasi, magari mescolando lo sperma dei “padri”, scegliendo la madre in un catalogo (chi si ricorda Postalmarket? ecco, quello), affittando l’utero della prima ragazza indiana che lo mette sul mercato? Perché è questo in realtà quello che è avvenuto e avviene quotidianamente. Il fatto è che se è “omofobia” tutto questo, allora è omofoba anche la Dichiarazione mondiale dei diritti del bambino, che all’articolo 7 recita: “Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi”. Su questo occorrerebbe forse meditare e far meditare, se possibile. Perché accettare passivamentel’equazione “difendere i diritti dei bambini = omofobia”? Questo è un altro errore di fondo che si deve assolutamente rimuovere, in quanto foriero del metodo sofistico cui abbiamo sopra accennato (“avvelenamento del pozzo”). Se si accetta, col silenzio o lasciandola passare, un’affermazione implicita di questo tipo se ne deduce che in quanto omofobo e pieno di pregiudizi il sostenitore dei diritti del bambino non va ascoltato, ma fatto tacere. Ora, chi l’ha detto che sostenere i diritti dei bambini è l’equivalente logico di avere “provare fastidio per gli omosessuali”? Come è evidente si tratta di due cose completamente diverse, che vengono abilmente mescolate insieme solo ai fini della propaganda omosessualista. Ma non è finita qui. Occorre anche ribadire che non è affatto un pregiudizio omofobo sostenere che per tutti gli esseri umani è di fondamentale importanza nascere e crescere all’interno di una famiglia dove le figure genitoriali madre-padre assumono delle caratteristiche simboliche, strutturanti e formative che vanno al di là dell’affetto del caregiver (poco più che una baby sitter) e dell’amore che ogni genitore è naturalmente spinto a riservare al bimbo. Il pregiudizio è, casomai, affermare contro l’evidenza che i bambini non hanno bisogno di un padre e di una madre. Dovremmo allora parlare non più di “omofobia“, ma casomai di “eterofobia” e di “genofobia“. E siamo così ai termini fondamentali che dovrebbero entrare nel dibattito: genofobia, eterofobia, tanto per cominciare. Al contrario di quanto sostengono le associazioni genofobe, l’evidenza, l’esperienza comune, ma anche l’intera storia della psicologia mostrano che il bambino ricerca continuamente il padre e la madre perché questi e solo questi sono all’origine del processo generativo. Il bambino ha bisogno – oltre che diritto, come si è visto – di una famiglia, di una struttura strutturante, in cui la complementarietà di padre e madre lo possano individualizzare ed educare alla realtà. Nel riconoscersi, nel riconoscere la propria storia, la propria provenienza, la propria origine (“génos” in greco antico significa appunto stirpe, origine, provenienza), il bambino compie i primi passi nella strutturazione del Sé, si individua. Tutto il resto è supposizione e congettura, più o meno fantasiosa. Peraltro costantemente e puntualmente smentita dalla letteratura e dalle ricerche sul campo. Occorre ribadirlo: è assurdo sostenere che, per la crescita del bambino, avere un padre o non averlo sia la stessa cosa. Affermazioni genofobiche e paidofobiche, radicalmente ostili nei confronti dei bambini, come ad esempio “il bambino non ha alcuna esigenza della figura materna” non dovrebbero rimanere impunite o quantomeno dovrebbero venire condannate, anche dall’opinione pubblica. Altro che intolleranza. C’è da aggiungere che la genofobia non è solo una generica avversione alla riproduzione sessuale ma sta diventando una vera e propria filosofia di vita, un atteggiamento mentale che si diffonde sempre di più tra gay e etero, indistintamente. Facciamo un esempio: la corretta formazione delle ossa del cranio o le sane correlazioni tra il bambino e la coppia padre-madre sono l’attrezzatura, il patrimonio che lui utilizzerà nella vita. E’ ovvio che un difetto fisico, come un contesto familiare difficile o la mancanza di una o ambedue le figure genitoriali non impediranno al bambino di cercare delle soluzioni di crescita alternative. Ma è altrettanto ovvio che nessuna persona sana di mente danneggerebbe volontariamente un organo del bambino perché “tanto forse crescerà bene lo stesso”. Così a nessuno dovrebbe venire in mente di sottrarre volontariamente ad un bambino, una o ambedue le figure genitoriali perché “tanto forse crescerà bene lo stesso”. Il ricevere “amore” è condizione necessaria ma non sufficiente perla strutturazione dell’Io. Questo dovrebbero saperlo anche i teorici del “love is love”. O forse hanno una memoria corta e selettiva? Siamo così alla domanda fondamentale: qual è la società che ci attende? “Genofoba”, come abbiamo visto. Una profonda e inconscia avversione alla vita, all’avventura e al rischio dell’esistenza, che si protrae fino a negare il processo di generazione naturale per sostituirlo con la fabbricazione di individui. Il passo sarà completo quando la tecnica offrirà uteri artificiali. Tra non molto, c’è da scommetterci. Per ora, intanto, qualcuno ha ipotizzato che i bambini possano nascere dai maiali. Ma non è tutto. Il nostro mondo sta diventando anche complessivamente “eterofobo”, oltre che “normofobo” e, aggiungo, tristemente “paidofobo”. Eterofobo: la paura del confronto, della relazione con l’altro-da-sé porta gli individui più fragili a trincerarsi dietro al sogno di poter bastare a se stessi, evitando la sfida comunicativa e relazionale con l’alterità, con la differenza. Liberazione: libertà di evasione, libertà di scelta. Sono queste le false promesse dell’ideologia Gender. E così il nostro mondo sarà dominato da “non-individui” (“in-dividuo” significa infatti indivisibile, un tutt’uno: ma quello che ci aspetta è l’era del doppio, dell’indistinto, del “queer”, etc.) che nutrono un profondo senso di opposizione al diverso, incapaci dunque di relazionarsi sia con se stessi che di conseguenza con l’altro-da-sé. L’ansia di liberazione dal proprio male (e dal male, in generale) passa poi attraverso la negazione di ogni norma, di ogni vincolo, di ogni legame, di ogni accettazione della binarietà del reale: essere, non-essere; bene-male, maschio-femmina, etc. La paura della generazione diventa a questo punto perfettamente comprensibile: per questo la generazione di persone è già ora di fatto sostituita dalla progettazione e fabbricazione di esseri-umani-reificati, ridotti a cose, merce di consumo e/o compagnia, non un fine in sé, con una propria inviolabile dignità, ma teleologicamente progettati per assolvere ai desideri di qualcun altro, pronti per essere a loro volta ridotti a non-individui. Il percorso di auto-designazione arbitraria della propria identità rende ancora una volta manifesta una contraddizione interiore: l’ansia di una sovranità assoluta, che però è per sua natura sempre sfuggente. Dunque se non riesce ad essere padrone del mondo esterno, il soggetto si ripiega nella sovranità del proprio io, che diventa a questo punto un vero e proprio campo di battaglia tra forze opposte, in una modalità tragica e grottesca al tempo stesso: scegliendo il proprio sesso, la propria identità, a prescindere dal dato reale oggettivo che la determina a priori. In questo quadro è chiaro che la negazione del bambino, dei suoi diritti, fin dal concepimento, è del tutto prevedibile nella sua logica crudeltà: la paidofobia, l’odio inconscio per i bambini, appare così come la maschera inconscia più consistente del nichilismo estremo, quello di cui l’Occidente è sempre stato avvelenato e che si sta finalmente per realizzare nel suo trionfo finale: nel suicidio della civiltà.