di Daniele Premoli
Dopo il vergognoso attacco alla sede del giornale Charlie Hebdo, sono molti i commentatori che hanno ripreso il monumentale discorso di Benedetto XVI a Ratisbona. Tuttavia, in quel viaggio del 2006, c’è un altro discorso che sembra più che adatto per riflettere su quanto successo ieri.
Come al solito, per cercare di evitare equivoci, pongo subito alcune premesse. È assolutamente intollerabile l’uso della violenza,
sia pure per “difendere” il proprio credo o le proprie idee. «Non agire secondo ragione – ci ha ricordato il Papa – è contrario alla natura di Dio» e, quindi, contrario anche alla natura di colui che ne è a sua immagine e somiglianza. Sono da condannare fermamente, e da neutralizzare, coloro che usano le armi per estendere il proprio dominio, uccidendo a sangue freddo chiunque gli capiti a tiro.
Tuttavia, non è possibile nemmeno presentare Charlie come paladino della libertà di espressione e di stampa, o il attacco come al cuore dell’Europa. L’umorismo necessita di regole. E un tema delicatissimo: può trasformarsi da segno di affetto in sarcasmo, a seconda di ciò che si dice, dal modo in cui ci si esprime e da quello che viene preso di mira. Per fare umorismo, occorre essere intelligenti: altrimenti si cade nella banalità e nel disprezzo. Basta avere un’educazione che si limiti al rispetto minimo dell’altro; basta riflettere sul fatto che certe tematiche sono oggetti di stima e devozione da parte dei fedeli. Si tratta di buon gusto, che si insegna a fatica. O c’è, o c’è una grossolanità che non rispetta valori e persone.
La libertà di espressione è ben diversa dalla libertà di dileggiare tutto e tutti, e il cuore della cultura occidentale sono le conquiste umanistiche e scientifiche, non la libertà sfrenata e senza riguardo. Per fare un paragone, la cultura italiana è quella romana, del Cristianesimo e del Rinascimento, di Dante e Manzoni; e non quella di Lercio o del Vernacoliere. Questo non è un discorso di fede: non si intende dire che tutti debbano essere cristiani e cattolici, per dirsi italiani. Ma dire che la nostra identità dipende anche dal cattolicesimo, questo pare sotto gli occhi di tutti.
Dopo queste premesse – che, lo ripeto, non vogliono in alcun modo giustificare o attenuare la gravità di quanto accaduto – veniamo a questo sconosciuto, quanto profetico discorso del Papa Emerito. Si tratta di un’omelia, ma in questo particolare punto sembra non rivolgersi solo ai credenti. Benedetto XVI parlava così a Monaco il 10 settembre 2006: «Le popolazioni dell’Africa e dell’Asia ammirano, sì, le prestazioni tecniche dell’Occidente e la nostra scienza, ma si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da insegnare anche alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l’utilità a supremo criterio per i futuri successi della ricerca. Cari amici, questo cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno comprende il timor di Dio – il rispetto di ciò che per l’altro è cosa sacra». La fede cristiana «non la imponiamo a nessuno. Un simile genere di proselitismo è contrario al cristianesimo. La fede può svilupparsi soltanto nella libertà. Ma è la libertà degli uomini alla quale facciamo appello di aprirsi a Dio, di cercarlo, di prestargli ascolto».
Si tratta di un formidabile e inascoltato appello al recupero del valore della religione. Se l’Occidente si chiude nel suo razionalismo scettico e sprezzante, forse dovrebbe iniziare da se stesso l’analisi delle cause del possibile scontro di civiltà. Continuare a non ascoltare o almeno a non riflettere sulle parole dei grandi discorsi di Benedetto XVI (quello di Ratisbona, quello al collège des Bernardins, quello al Parlamento tedesco, per citarne alcuni) ci porterà ad una sorta di suicidio dell’Occidente. Un suicidio che, su basi nichiliste, non saprà opporre nulla all’avanzata del terrorismo islamico. La coscienza occidentale è costretta a fare i conti con la propria tradizione cristiana, che anima e rinvigorisce gli autentici valori di verità e morale.
Pochi giorni fa, Luigi Negri commentava la vicenda delle volontarie italiane rapite in Siria, prendendo spunto dall’evidente diversità delle due foto contrapposte. Da una parte, un mondo colorato, lieto della vita, capace di intraprendenza e sacrificio; dall’altra parte, «un mondo nero, senza colori. Abiti che intristiscono e imprigionano la persona, occhi bassi, apparentemente nessuna reazione, personalità sfuggenti o forse già sfuggite al grande quotidiano interesse della vita. Cioè ridotte in schiavitù». E concludeva: ”
Sulla nostra società incombe la possibilità della riduzione, della distruzione dei valori fondamentali su cui abbiamo giocato la nostra esistenza, personale e di popolo. Questa è la ricchezza della nostra tradizione occidentale, in particolare della nostra tradizione italiana […]. Ci pensino bene soprattutto i giovani abituati, addirittura in modo scriteriato, a una libertà di vita, di costumi, di divertimenti, di abitazioni. Non ditemi: eh, quante osservazioni sul confronto tra due fotografie. Ci sono nella vita di una persona, così come di un popolo, dei fatti emblematici: ebbene, il confronto tra queste due fotografie è un fatto emblematico. È meglio che nessuno tenti di voltarsi dall’altra parte perché questo confronto ci perseguiterà: non per i prossimi giorni, ma certamente per i prossimi anni».
Unico rilievo che si potrebbe fare a Negri: oggi abbiamo capito che non possiamo aspettare i prossimi anni, perché il problema si impone oggi.