«Dobbiamo operare per evitare che si ripeta quanto avvenuto dopo la promulgazione di Humanae Vitae nel 1968». È uno dei concetti formulati dal cardinale George Pell durante la presentazione del volume di Juan José Pérez-Soba e Stephan Kampowski, entrambi docenti al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, intitolato “Il Vangelo della famiglia nel dibattito sinodale oltre la proposta del Cardinal Kasper”.
Humanae vitae è l’enciclica promulgata da papa Paolo VI il 25 luglio 1968 con la quale veniva ribadita la dottrina di venti secoli della Chiesa: la contraccezione è un male intrinseco. Non posso nascondere che si tratta di un pensiero che più volte ha fatto capolino nella mia mente da quando è stato annunciato il Sinodo sulla famiglia: che cosa può insegnare la vicenda di Humanae Vitae? Ovviamente gli eventi non si ripetono mai uguali due volte, tuttavia mi sembrerebbe che cogliere alcune similitudini con i fatti di oltre quarant’anni fa potrebbe aiutare nel discernimento.
Il contesto mostra una prima certa analogia: così come oggi papa Francesco, anche allora papa Paolo VI godeva di un grandissimo consenso; per convincersene basta rivedere le immagini di papa Montini durante il tragitto sulla via dolorosa nel suo pellegrinaggio in Terra Santa, dove una folla strabordante si strinse attorno al Pontefice per accompagnarlo quasi sollevandolo da terra. L’abbraccio con il primate ortodosso Athenagora, la prosecuzione del Concilio Vaticano II inaugurato da San Giovanni XXIII, la rinuncia al triregno, l’avvio della riforma liturgica, erano tutti elementi che avevano conferito al pontificato un indubbio carattere innovativo che aveva attirato la simpatia sul Pontefice anche di settori tradizionalmente ostili al cattolicesimo.
Un secondo elemento di somiglianza è quello della materia che in entrambi i casi ha indirettamente a che fare con la sessualità. Paolo VI dovette affrontare la liceità della contraccezione, della sessualità coniugale volontariamente privata del significato procreativo, di un insegnamento ininterrotto di venti secoli che fu dei Santi, dei canoni e del magistero dei predecessori. Oggi la materia che accende la discussione è la comunione ai divorziati risposati; comunque la si voglia girare, ancora una volta è della liceità di una modalità di esercizio della sessualità che si discute: unirsi con una donna o un uomo diversi dal coniuge.
Anche in questo caso è dell’insegnamento dei Santi, di un Concilio, del magistero più recente, ed in più delle parole dello stesso Gesù Cristo che si discute. Il sinodo sulla famiglia è stato preceduto da un sondaggio planetario. Ma anche per la contraccezione si svolsero sondaggi; vi fu un sondaggio promosso dalla Segreteria di Stato tra gli episcopati sugli aspetti dottrinali e pastorali della contraccezione, ci fu quello del Dr. Cavanagh su 2.300 donne, quello dei coniugi Crowley su oltre 3.000 coppie di 18 paesi, quello della signora Kulanday, infermiera indiana.
Abbiamo letto le pronunce di alti prelati in favore della comunione ai divorziati, oggi leggiamo i cardinali Maradiaga e Tettamanzi, il documento del vescovo di Anversa Bonny, per non citare il caso del cardinale Kasper, che ha firmato persino un libro per spiegare la sua posizione. Cinquant’anni fa suggerivano il cambiamento della dottrina il vescovo di Boscoducale Willem Bekkers, quello di Magonza Joseph Reuss, la conferenza episcopale olandese, il vescovo inglese Thomas d’Esterre Roberts assieme al primate del Belgio e moderatore del concilio, cardinale Joseph Suenens, tutti protagonisti di pubbliche perorazioni per il cambio di atteggiamento sulla contraccezione.
In realtà proprio quelle prese di posizione crearono quel clima di attesa per un imminente cambiamento della dottrina che portò tanti coniugi all’abbandono della continenza periodica e alla successiva ribellione, una volta che il Papa ebbe ribadito l’insegnamento della Chiesa.
C’è da chiedersi se ed in quale misura il fatto che vengano oggi messi in discussione elementi del Magistero già di per sé così negletti nella pastorale delle parrocchie e delle diocesi, contribuirà ad accantonarli ancora di più, realizzando un analogo “danno pastorale”, come lo ha definito un padre sinodale. Gabriella, la ragazza di cui ha raccontato Gianfranco Amato, potrebbe essere il caso indice di una purtroppo vasta epidemia.
Sulla contraccezione si diceva: se vi sono coloro che contestano la dottrina, allora significa che la dottrina non è certa e poiché lex dubia non obligat, deve valere la libertà di coscienza. Come allora, oggi si legge qua e là il tentativo deresponsabilizzante di rendere insindacabile il giudizio della coscienza degli sposi riguardo la propria condotta, ma si dimentica di aggiungere che se è vero che agire contro coscienza significa peccare, non di meno agire secondo coscienza non garantisce di non peccare. Come allora si dimentica la lezione del beato Newman: «La coscienza ha dei diritti perché prima ha dei doveri»; si dimentica la lezione del Concilio: la coscienza è il sacrario dove «l’uomo scopre (detegit) una legge che non è lui a darsi»; si dimentica la bocciatura di Joseph Ratzinger di una coscienza che si fa «istanza che ci dispensa dalla verità» e «si trasforma nella giustificazione della soggettività», si dimentica l’invocazione dei padri: «Liberami dalle colpe che non vedo» (Sal 19,13) e l’ammonimento stesso di Gesù Cristo a badare che la lucerna del corpo non sia malata (Mt 6,22-23).
Come allora si voleva applicare il principio di totalità all’apertura complessiva degli sposi all’accoglienza dei figli, rendendo così irrilevante ogni singolo atto coniugale, oggi si vorrebbe procedere in modo analogo con i singoli atti compiuti fuori dal matrimonio sacramentale. Nella pastorale dei liberals il principio attivo della moralità degli atti scompare mediante diluizione hahnemanniana aggiungendo quanto basta di caritas sine veritate (carità senza verità).
Riguardo al matrimonio oggi si dice: se gli ortodossi consentono un secondo e un terzo matrimonio non sacramentali, allora significa che è possibile concedere divorzio e nuove nozze senza violare l’indissolubilità del matrimonio. Negli anni ’60 erano gli anglicani e luterani che avevano sdoganato la contraccezione ad essere indicati dai regressisti cattolici come esempi virtuosi di pastoralità coniugale. In entrambi i casi dimostrare che la dottrina opposta a quella cattolica sia quella giusta e porti le persone alla salvezza delle anime è derubricato tra le varie ed eventuali.
Oggi la Chiesa affronta le questioni bollenti utilizzando lo strumento della collegialità sinodale. Anche per la contraccezione si discusse collegialmente, lo si fece apertamente in concilio fino a quando il 23 ottobre 1964 mons. Guano, relatore dello schema XIII, comunicò ai padri conciliari che il Santo Padre aveva deciso di avocare a sé la questione. Lo si fece attraverso la commissione pontificia nominata da Papa Giovanni XXIII, lo si fece con una moltitudine di rapporti, lettere, studi, visite che il Papa ricevette, ma poi, alla fine fu lui personalmente, Pietro, a dovere decidere: «Nel decidere siamo soli. Decidere non è facile come studiare. Dobbiamo dire qualcosa. Ma cosa? Dio dovrà semplicemente illuminarci», disse il Papa al giornalista Cavallari sul Corriere della Sera. Anche oggi sul matrimonio, sulla parola di Dio, sull’Eucaristia, sarà Pietro a dovere confermare i fratelli nella fede. Oggi come allora il sensus fidei viene brandito come clava contro la Chiesa per frantumare la sua pretesa di essere maestra di verità; eppure, per quanto dura, la verità non capitola davanti alla minaccia di rimanere sola: «Forse anche voi volete andarvene?» (Gv 6,67).
Voglio dirlo con quella franchezza che Papa Francesco ha raccomandato: sì, ha ragione il cardinale Pell, c’è bisogno di evitare ciò che avvenne con l’Humanae vitae. Evitiamo la defezione, il silenzio, la cacofonia, lo scandalo dei docili. Evitiamo la pavidità, il conformismo; battezzati nella fede cattolica, sforziamoci di mantenerci cattolici, ricordiamo che la nostra altezza dipende dalla capacità di stare in spalla ai giganti che ci hanno preceduto.
Oggi come allora c’è un’enorme spinta da parte del mondo ateo e laicista a favore della rivoluzione della sana dottrina: perché? Sanno bene che una Chiesa “più umana” significherebbe una Chiesa “meno divina”, sanno bene che se ciò che ieri era un male oggi non lo si dichiarasse più tale il primo passo fondamentale sarebbe compiuto. «Ogni compromesso concluso con il male somiglia non solo al suo trionfo parziale, ma al suo trionfo completo, giacché il male non chiede sempre di cacciare il bene, ma vuole il permesso di coabitare con lui. Un istinto segreto lo avverte che chiedendo qualcosa, chiede tutto. Appena non lo si odia più, esso si sente adorato», scriveva Ernest Helo.
Oggi, come al tempo di Humanae vitae, si accontenterebbero che si affermasse che non vi è niente d’immutabile, non vi è niente di perenne, non vi è niente di certo, tutto è relativo al dove e al quando. Ho l’impressione che vi sia chi dica “aggiornamento”, ma propugnando adattamento e stravolgimento. Una Chiesa che fosse orientata dall’indice di gradimento anziché dalla parola di Dio sarebbe come un giullare costretto a rendersi ridicolo per compiacere il proprio signore. Allora chi non ha alcuna fede potrebbe cantare “no hell below us, above us only sky” (nessun inferno sotto di noi, solo cielo sopra di noi), potrebbe dire “Infine sono dio”. Ma per ottenere un tale risultato non potrà essere un ex-Beatles defunto, un ottuagenario ateo in barba bianca, un filosofo dal pensiero molle, né un matematico impertinente a dichiararlo. Non potrà essere la maggioranza del laicato, né degli ecclesiastici in nero, viola, o porpora; no: è bianco il colore di cui hanno bisogno, è bianco il colore che non hanno mai avuto e non potranno mai avere, perché com’è logico, se si macchiasse cesserebbe di essere bianco.
fonte: LaNuovaBQ