Sul Foglio del 26 agosto Mehdi Hasan sosteneva che gli occidentali, in particolare britannici, che partono per la guerra santa, e sgozzano infedeli in nome dell’Islam, non sono anzitutto uomini infervorati dal Corano (che forse neppure conoscono bene), ma persone mosse dallo sdegno morale, la disaffezione, la noia, la ricerca di una nuova identità, il bisogno di un senso, di uno scopo, di una appartenenza. E citava il fatto che testimoni oculari avrebbero visto i dirottatori dell’undici settembre visitare bordelli e night club prima dell’attentato.
Senza entrare in un dibattito
complicato (l’unica certezza è che l’Islam è nato con la spada, non con la croce e il martirio), né dilungarmi in una discussione riguardo al fatto se l’Islam possa essere definito una religione (almeno nel senso in cui definiamo così il cristianesimo), credo che le cose stiano proprio così.
Come dimostra, per esempio, la storia di Sally Jones, la donna inglese che prima di indossare il tradizionale vestito islamico ed il velo, e prima di scrivere su facebook che vorrebbe decapitare cristiani col suo coltello, vestiva mini gonne di pelle, cantava rock, si occupava di magia nera e stregoneria, e gestiva, da sola, due figli, accogliendo uomini ad ogni ora… “Era sempre inquieta, nervosa, alterata”, dicono oggi i suoi vicini. (nella foto sopra, Sally oggi; in quella sotto, Sally poco tempo fa)
Per capire il fenomeno degli odierni jihadisti occidentali si può fare un paragone con i fatti del 1914.
In quell’anno orribile, che ha preparato la distruzione e la morte del vecchio mondo, i giovani tedeschi e inglesi accolgono lo scoppio del conflitto con gioia; con quelle urla, quell’euforia, quell’entusiasmo che caratterizza spesso chi non ha ben compreso cosa sta succedendo, ma si aspetta che qualcosa di bello, finalmente, accada. Qualcosa di decisivo. In quegli anni in cui Rebora scrive di aspettare che qualcuno suoni al suo campanello; in cui Montale auspica di incontrare finalmente un quid miracoloso e liberatore; in cui il socialista Ungaretti gioisce perché la guerra mondiale “porrà fine alle guerre”; in cui Mussolini auspica che il fuoco distruttore cancelli dall’Europa l’Austria cattolica e i tedeschi militaristi per aprire una nuova era; in cui un annoiato e arrabbiato Paipini auspica una massacro malthusiano purificatore… in quegli anni, dicevo, migliaia di giovani, soprattutto nei paesi più industrializzati, provano un profondo disgusto per la società in cui vivono. Una società, quella di primo Novecento, profondamente secolarizzata: positivista e progressista, nei salotti e sui giornali; del tutto annoiata, stanca, sazia e disperata, nella vita quotidiana della gran parte delle persone.
Perché tanti giovani sono capaci di abbandonare ogni sogno (un lavoro, una casa, una famiglia) con tanta fretta? Perché non c’è più gusto, né sapore! L’ arruolamento volontario di massa del 1914 è essenzialmente una fuga dal mondo secolarizzato contemporaneo, da una civiltà che sembra, ed è, agli occhi dei giovani, stanca, senza vita interiore né profondità. Certo, la modernità, respinto Dio, crea di continuo idoli e religioni surrogate. All’epoca non pochi si fanno battezzare nella nuova “religione”, il nazionalismo, ma non si muore per qualcosa di così astratto, come la Nazione, se non perché si è perso il contatto con ciò che è concreto, ciò che ci sta sotto i piedi, e accanto: la patria, la famiglia, la fede… Scrive Umberto Saba, proprio in quegli anni, che le guerre sono anche tributi offerti all’istinto di morte, al cupio dissolvi.
Nelle città europee, soprattutto nelle metropoli inglesi e tedesche, regna già, nel 1914, la morte. La morte spirituale.
Per sfuggirle i giovani le vanno incontro, festanti. Meglio morire in guerra, con un atto eroico, sentendosi vivi, immaginando magari una gloria futura, che perire piano piano, giorno dopo giorno, per la mancanza di un senso, di uno scopo nella vita.
Del resto il mondo conosce sempre dei “martiri”: testimoni disarmati della verità, del bene, della giustizia, o araldi violenti di un’ideologia in nome della quale uccidere altri, e morire. Anche per quanto riguarda il comunismo e il nazismo, sarà, in buona parte, la stessa cosa. Nel 1914 il paese in cui i giovani sono più riluttanti a partire per la guerra è l’Italia. Come ha scritto giustamente Galli della Loggia, il nostro è, allora come oggi, il paese meno secolarizzato d’Europa. Dio, patria e famiglia non sono uno slogan fascista (il fascismo allora non esiste), ma i pilastri di una vita fondata. Anche oggi i giovani europei più pronti a partire per la jihad islamica sono i britannici. E fa sorridere, amaramente, pensare che qualcuno vorrebbe fermarli, ricordando loro i cosiddetti “moderni valori inglesi”: sono proprio questi, ciò da cui fuggono.
I jihadisti sono solo l’avanguardia di un movimento di suicidi di massa. In attesa che gli stati europei introducano ovunque l’eutanasia, come via di fuga dalla vita stessa, si muore, almeno, con un po’ di adrenalina in corpo. In fondo, nell’epoca in cui le emozioni e i desideri sostituiscono ogni valore, anche una morte particolare, originale, può avere il suo fascino. Più di una vita senza speranza.
il Foglio, 4/9/2014