Vescovo di Mosul: Occorrono decisioni forti

nonadi Lorenzo Cremonesi (Corsera)

Fa un caldo torrido a mezzogiorno nei cortili di cemento e sui prati ridotti a sterpaglia giallastra attorno all’arcivescovado caldeo. Gli sfollati sono stremati. Hanno costruito ripari di fortuna con coperte e tappeti stesi su corde fissate tra il muro di cinta e i rari olivi. Oltre 8.000 persone, tanti anziani, un numero sproporzionato (per noi occidentali) di bambini, neonati di pochi mesi, molti disidratati, con la diarrea. Una settantenne chiede insulina. Altri scrivono su foglietti di carta spiegazzati nomi di medicinali che nessuno sa dove trovare. Decine di carrozzelle arrugginite sono state donate dalle associazioni umanitarie per gli infermi e sono usate come seggiole per i vecchi. Le organizzazioni cristiane locali assieme alle agenzie dell’Onu hanno improvvisato un servizio di mensa che distribuisce riso bianco, pane, acqua in bottiglia. I servizi igienici sono quasi inservibili. Gli unici abiti sono i pantaloni impolverati e le magliette dai colori ormai indefinibili con cui sono fuggiti dalle loro abitazioni nella piana di Ninive tre o quattro giorni fa. Odore di corpi non puliti, cibo avariato, pozzanghere sporche, fogne a cielo aperto. «Il pericolo delle epidemie è alle porte. Stiamo organizzando l’evacuazione dell’arcivescovado e la loro istallazione in dieci scuole cristiane qui nel quartiere di Einkawa», ci diceva ieri mattina l’arcivescovo di Erbil, Bashar Warda.

E’ questa la situazione che abbiamo incontrato in quello che al momento è il cuore della tragedia dei cristiani iracheni. L’arcivescovado funziona da centro organizzatore degli aiuti. Ha a che fare con comunità ancora vibranti, forti di una religiosità autentica, abituate a guardare ai prelati come leader. «L’emergenza riguarda oltre 100.000 cristiani scappati di fronte all’avanzata dei radicali sunniti da Mosul verso l’enclave curda. Ma il dramma non è solo delle persone. E’ l’antica cultura della nostra convivenza con i musulmani che viene cancellata. Il meccanismo della coesistenza pacifica si è inceppato. Siamo di fronte a un Medio Oriente diverso da quello che avevamo sempre conosciuto», esclama allarmato Warda. Le sue parole sono un campanello di allarme. Occorre ascoltare bene i racconti della sua gente per comprenderlo. Da lontano, è difficile distinguere la valenza dei crimini che si stanno consumando nella piana di Mosul. Qui ora c’è una Chiesa molto diversa da quella che ai tempi di Saddam Hussein porgeva «l’altra guancia». C’è un disperato grido di guerra. Una richiesta di aiuto alla cristianità perché si mobiliti in difesa della fede. Tutti plaudono ai raid aerei Usa. «Per fortuna sono arrivati loro. Devono sterminare i criminali del Califfato. Speriamo che li ricaccino verso la Siria, a morire nel deserto», dicono i responsabili della Chiesa e i loro fedeli con parole sempre eguali. «Ma perché le bombe americane non sono arrivate prima? E voi europei cosa aspettate?».

I giovani chiedono armi. Gli anziani approvano. «Le nostre sofferenze di oggi sono il preludio di quelle che subirete anche voi europei e cristiani occidentali nel prossimo futuro», dice il 47enne Amel Nona, l’arcivescovo caldeo di Mosul fuggito ad Erbil. Il messaggio è inequivocabile: l’unico modo per fermare l’esodo cristiano dai luoghi che ne videro le origini in epoca pre-islamica è rispondere alla violenza con la violenza, alla forza con la forza. Nona è un uomo ferito, addolorato, ma non rassegnato. «Ho perso la mia diocesi. Il luogo fisico del mio apostolato è stato occupato dai radicali islamici che ci vogliono convertiti o morti. Ma la mia comunità è ancora viva». E’ ben contento di incontrare la stampa occidentale. «Per favore, cercate di capirci – esclama -. I vostri principi liberali e democratici qui non valgono nulla. Occorre che ripensiate alla nostra realtà in Medio Oriente perché state accogliendo nei vostri Paesi un numero sempre crescente di musulmani. Anche voi siete a rischio. Dovete prendere decisioni forti e coraggiose, a costo di contraddire i vostri principi. Voi pensate che gli uomini sono tutti uguali – continua l’arcivescovo Amel Nona – Ma non è vero. L’Islam non dice che gli uomini sono tutti uguali. I vostri valori non sono i loro valori. Se non lo capite in tempo, diventerete vittime del nemico che avete accolto in casa vostra».

Tornando tra le tende di fortuna, tra file di sfollati in attesa di un magro pasto, salta all’occhio la profonda differenza tra i cristiani che sono riusciti a fuggire da Qaraqosh, Al Qosh e dagli altri villaggi a sud di Erbil, e quelli che invece a Mosul hanno sofferto i soprusi dei guerriglieri islamici. I primi qualche cosa hanno salvato: soldi, coperte, un bagaglio, gli effetti personali, l’automobile. Gli altri sono senza nulla, si dicono fortunati di essere ancora vivi, e il loro terrore è contagioso. Dai racconti fanno capire che la guerriglia islamica aveva un piano preciso, ha giocato con loro come il gatto col topo. «La sera del nove giugno siamo scappati verso le zone curde quando abbiamo visto che le loro avanguardie entravano a Mosul. Le stesse colonne dell’esercito iracheno in ritirata ci hanno suggerito di fuggire», dice tra i tanti Youssef Jibril Youssef, un carpentiere 52enne. «Dopo una settimana i nostri vicini musulmani ci hanno telefonato per dire che andava tutto bene. Potevamo tornare a casa. Nessuno ci avrebbe torto un capello. E così è stato. Sembrava tranquillo. Io sono anche tornato a lavorare. Attorno al 10 luglio è comparso un noto capo guerrigliero, Haji Othman, assieme a due guardie del corpo con il mitra a tracolla, la jallabiah sino alle caviglie, barba e capelli lunghi stile afghano. Mi ha detto che non avevo nulla da temere, mi ha dato il suo numero di telefono invitandomi a chiamarlo in caso di bisogno, ma ha voluto anche il mio numero di telefono e conoscere esattamente quanta gente vivesse in casa. Siamo qui per difendervi, mi ha detto. Però andandosene hanno marcato il muro della mia casa in vernice nera con la «n» stilizzata di «nasrani», che sta per cristiani in arabo. Tre giorni dopo, abbiamo capito l’inganno. Dagli altoparlanti delle moschee è arrivato un diktat che ci presentava tre alternative: pagare una tassa periodica di centinaia di dollari, la conversione all’Islam, oppure partire subito. Se non avessimo obbedito, ci avrebbero tagliato la testa. Ma quando abbiamo preso l’auto per andarcene ai posti di blocco ci hanno rubato tutto: soldi, gioielli, bagagli, talvolta la stessa automobile. Le nostre case sono state occupate, al peggio devastate».

A metà pomeriggio i capi famiglia tra gli sfollati vengono convocati da monsignor Warda nella basilica di San Giuseppe. Si è riusciti a organizzare le scuole e un campo di tende Onu per accoglierli in modo più decente. Ma subito tra l’altare e le panche della basilica si scatena il dibattito. «Chi si occupa del nostro trasporto? Cosa fare dei malati? E i nostri visti di espatrio? Perché non chiedete con più forza l’aiuto della comunità cristiana mondiale?», protestano in tanti dal microfono che in genere serve per le prediche della messa. Qualcuno denuncia che «decine di cristiani» sono rimasti in mano ai jihadisti, potrebbero venire decapitati «entro due giorni». Bashar Jibrail, ex guardiano di una delle basiliche devastate a Mosul, è rabbioso: «Qui si sta consumando un genocidio. Abbiamo paura che gli islamici prendano anche Erbil. Perché non ci date fucili?».

Non solo di quelli c’è bisogno. Gli Stati Uniti hanno cominciato, oltre ai raid aerei, i lanci di cibo e di acqua per le popolazioni ancora assediate dai miliziani. La Gran Bretagna ha mandato un volo umanitario in Kurdistan. La Francia ieri ha annunciato la spedizione di aiuti. Qui l’arcivescovo cerca di tranquillizzare la folla impaziente: «Il Papa da Roma continua a lanciare appelli. Arriverà presto un suo inviato. Gli Stati Uniti hanno intensificato i raid militari che stanno fermando l’aggressione. State calmi. Ho incontrato il console americano e cerco contatti con quelli europei. Ho chiesto che ci diano visti per facilitare l’emigrazione». L’ultima frase è quasi buttata lì. A pensarci bene, rivela un epocale mutamento da parte dei capi cristiani. Nel passato si erano sempre adoperati affinché le loro comunità restassero. Persino quando dieci anni fa c’erano stati i sanguinosi attentati in serie contro le basiliche di Bagdad avevano facilitato l’esodo verso Mosul e frenato l’emigrazione all’estero. Ora non più. Segno che anche loro hanno cessato di credere nel futuro dei cristiani in Iraq. Se potessero, partirebbero tutti.

fonte: Corriere.it

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Autore: Libertà e Persona

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