E’ abbastanza risaputo che tra coloro che si opposero con più forza, costanza e intelligenza al nazismo vi furono i ragazzi della Rosa Bianca, un gruppo di amici che si accorsero pian piano che il nazionalsocialismo stava ottenebrando le coscienze e impadronendosi della libertà fisica e spirituale dei tedeschi, con i suoi campeggi camerateschi, i suoi riti, le sue cerimonie totalizzanti.
La Rosa Bianca era costituita da giovani legati tra loro dall’amore per la musica, per la poesia, per la teologia, per la vita. Dalla loro amicizia e dalla loro forza interiore nacque l’idea di dar vita ad una forma di resistenza al potere tramite la diffusione di volantini che venivano copiati, spediti, fatti girare il più possibile, con ogni stratagemma, esattamente come i samizdat russi. A muovere questi giovani arditi fu “la domanda sull’origine e lo scopo delle cose“, come scriveva uno di loro, Hans Scholl: una domanda che nel loro paese sembrava inaridita, perché il regime guidava ogni azione, progettava ogni pensiero ed ogni desiderio, organizzava ogni evento, riducendo così l’esistenza individuale ad una partecipazione momentanea alla grandezza terrena del Reich.
I protagonisti di questa storia, di questa amicizia, erano i fratelli Scholl, Christian Probst, Alexander Schmorell e diversi altri, tra cui anche alcuni professori universitari con cui i ragazzi amavano confrontarsi. Alcuni di loro erano accomunati dall’interesse per la biologia e la medicina, e proprio nel loro campo avevano potuto constatare cosa fossero i programmi per l’eutanasia e l’eliminazione di malati di mente, handicappati, mutilati… Certo, nessuno, pur deprecando il regime nazista, aveva alcuna voglia di martirio. Eppure decisero di caricarsi sulle spalle il peso di una battaglia impari, senza alcuna possibilità di riuscita, diffondendo in ogni modo sei volantini battaglieri, con cui tentavano di muovere le coscienze dei loro compatrioti. “Fate resistenza passiva, resistenza ovunque vi troviate; impedite che questa atea macchina da guerra continui a funzionare“, scrivevano tra le altre cose nel primo dei loro manifesti. E nel terzo: “Tutti i regimi politici ideali sono utopie….Lo stato deve manifestarsi in analogia con l’ordine divino…invece lo Stato in cui viviamo è la dittatura del Maligno“.
Sapevano bene, i ragazzi della Rosa Bianca, che, come Tolkien fa dire al suo eroe Gandalf, “non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, [ma] il nostro compito è fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo“. Per questo lottarono, e, una volta scoperti, andarono incontro alla morte con un eroismo straordinario, e con una estrema fiducia in quel Dio che avevano sempre amato, o che avevano scoperto poco a poco, come unica luce nella “notte materialista”, come Boris Pasternak chiamò l’epoca del comunismo sovietico e del nazismo tedesco, equiparando sostanzialmente le due ideologie. Non furono superuomini nicciani, “fedeli alla terra”, coloro che si opposero al mostro nazista, ma umili creature piene di fede, di speranza e di carità soprannaturali verso il loro popolo.
“Cari genitori, scrive Alexander prima di essere ucciso, se dovessero rifiutare la richiesta di grazia, ricordatevi che morte non significa fine della vita. Al contrario. E’ proprio nascita, passaggio a vita nuova, a una vita splendida che dura in eterno“.
Similmente Christian Probst, giovane medico, marito e padre di due figli, condannato a morte insieme ad Hans e Sophie Scholl, il pomeriggio prima dell’esecuzione prega il cappellano del carcere di battezzarlo, dopo tanti anni di riflessioni sulla fede. Nel cortile del carcere, si accomiata dagli amici con queste parole: “Tra pochi minuti ci rivedremo nell’eternità“.
Eternità: che parola strana per chi era stato allevato al messianismo millenarista di Hitler, per dei giovani a cui era stato insegnato che ciò che conta sono la forza, il vigore, la potenza terrena del corpo e della nazione! Eppure i ragazzi della Rosa Bianca sono la dimostrazione che chi crede nell’eternità, in valori immutabili, nel Bene perenne, sa anche rinunciare, se necessario, alla vita terrena, sa contraddire la storia, sa opporsi al male temporaneamente trionfante.
Eternità significa che tutto ciò che facciamo, su questa terra, non si perde, ma ha un significato infinito; eternità significa che ogni gesto d’amore, ogni eroismo, ogni azione rimane in eterno, rimbomba nella storia e per sempre; eternità significa che siamo fatti per qualcosa di ben più grande, di un impero millenario puramente terrestre. Non ebbero paura, quei ragazzi, perché avevano imparato pian piano a capire che a chi ha Dio, “non manca nulla”: Lui solo resta, non muta, è fedele. Lui che vede ogni cosa, conta ogni capello del nostro capo, e accoglie tra le sue braccia chi dia la vita per la verità, anche se agli occhi del mondo, questa vita, è persa, finita per sempre; anche se il loro sacrificio, per chi non crede, rimane senza senso, senza risultato.
Non potevano temere alcunché, perché avevano imparato a non volere nulla per se stessi, ma ad amare veramente, con cuore puro. “Temete il Signore e nient’altro”: così recitano le Scritture, e quei giovani lo avevano compreso. Per questo riuscirono ad essere liberi sino in fondo: non ebbero paura di essere pochi, di non avere forza a sufficienza; non ebbero timore del disonore, del fallimento, di perdere la propria vita, perché “chi perde la propria vita per amore mio, la salverà”.
“Non dovremmo forse quasi essere lieti di portare a questo mondo una croce – scrive il giovane Willi Graf, alla sua famiglia, dopo sette mesi di carcere, in attesa della morte-, che a volte sembra superare qualsiasi misura umana? Questa è in un certo senso letteralmente, la sequela di Cristo“.
E Hans Scholl, il leader del gruppo, qualche giorno prima della ghigliottina: “miei carissimi genitori…devo ancora ricevere il Santo Sacramento e poi morirò felice. Mi faccio leggere il Salmo 90, vi ringrazio di avermi regalato una vita così ricca. Dio è con noi. Vi saluta per l’ultima volta il vostro grato figlio Hans” .
Tra le motivazioni che avevano incoraggiato all’azione i giovani della Rosa Bianca vi erano altri volantini distribuiti clandestinamente, inviati per posta o messi nella buca delle lettere: le prediche di un vescovo, noto come “il leone di Muenster”, Clemens August von Galen, che fu consigliere di mons. Pacelli, futuro Pio XII, e del papa Pio XI nella redazione della “Mit Brennender Sorge”.
Di lui sono celeberrime soprattutto tre prediche, pronunciate contro il regime nell’estate del 1941, che “ebbero come prima ritorsione da parte nazista l’internamento in lager di 37 sacerdoti molti dei quali persero la vita” . In esse Galen, che Hitler aveva giurato di far uccidere, ma dopo la guerra, per non doversi scontrare con i suoi numerosi sostenitori in un momento critico, rispondeva con forza alla politica di uccisione di malati e di handicappati, portata avanti da Hitler in nome della pietà per le loro sofferenze, e dell’eccessiva spesa pubblica per mantenerli.
Di queste prediche si occupò persino il New York Times, che nel 1942 pubblicò una serie di articoli sugli uomini di Chiesa che si erano opposti a Hitler. “Bisogna obbedire a Dio, più che agli uomini”, sosteneva Galen, “può essere che l’obbedienza a Dio, la fedeltà alla coscienza costi a me, a voi, la vita, la libertà, la patria. Ma meglio morire che peccare!”. Le prediche di Galen vennero pronunciate mentre la Gestapo occupava una dopo l’altra chiese cattoliche, scuole, monasteri. Galen elencava una ad una le violenze naziste, le occupazioni, le violazioni, mentre la gente ascoltava, commossa, rumoreggiante, spaventata, partecipe… Diceva: “Se si ammette il principio, ora applicato, che l’uomo ‘improduttivo’ possa essere ucciso, allora guai a tutti noi, quando saremo improduttivi, allora guai agli invalidi, i quali nel processo produttivo hanno impegnato le loro forze, le loro ossa sane le hanno sacrificate e perdute. Se si possono eliminare con la violenza esseri improduttivi, allora guai ai nostri bravi soldati che tornano in patria gravemente mutilati, invalidi!”