E’ un dato di fatto che i popoli europei, inglesi e tedeschi in primis, accolgono con entusiasmo la notizia della I guerra mondiale, e lo manifestano nelle piazze, nelle strade e nelle stazioni che rimbombano di inni patriottici e canti di marcia. Accade, dice qualcuno, come nelle feste, dove ogni status sociale, ruolo, mestiere, viene dimenticato in un’atmosfera di amicizia e di euforia collettiva. Si diffonde un’ideale comunitario,
un cameratismo, un nazionalismo dilagante, per cui il condividere un destino e una meta comune porta la gente a fraternizzare, a rompere le abituali barriere e differenze di ceto, età, cultura, sentendosi un’unità solidale.
Marianne Weber scrive: “Non siamo più ciò che siamo stati per tanto tempo: individui soli“. Qualcuno pensa che la cosiddetta uguaglianza sociale del 1914 ponga termine ai conflitti sociali. I singoli, è un’immagine ricorrente, vengono investiti da un’ondata, un flusso di entusiasmo ed emotività che li travolge, come in un gioco, dove l’azione genera l’azione automaticamente, senza riflessioni o calcoli. E’ questo il flusso che unifica la corrente, mescola ruoli, carriere, ceti distinti, nell’unità. L’interesse materiale, autentico motore del comportamento individuale nella società capitalistica, pare non stare più alla base delle motivazioni individuali. L’entusiasmo per la guerra deve essere visto come fuga da qualcosa verso qualcos’altro. ? chiaro che il malcontento può generare anche solo un desiderio di fuga da, la ricerca di una valvola di sfogo senza un verso, e così, di solito, accade.
La fuga è dalla modernità intesa come moderna società industriale borghese con tutte le sue nefaste conseguenze. Età delle macchine e della tecnologia significano infatti: materialismo, homo oeconomicus, conflitto di classi, individualismo ed egoismo, crollo dei valori e degli ideali puramente morali e non utilitaristici, solitudine, benessere svalutante, negazione dell’esperienza diretta della vita attraverso la sostituzione del naturale con l’artificiale… Già nel periodo pre-bellico sono nati in Germania movimenti giovanili di figli di borghesi che aspirano, come gli uomini dell’agosto del 1914, alla liberazione dalla società urbana e industrializzata moderna. Il simbolo di tale società, della società borghese, industriale, egoista, diviene, soprattutto per i tedeschi, la perfida capitalistica, borghese e mercantile Albione (l’Inghilterra), guida della “cospirazione del commercio”.
La fuga è verso la guerra intesa come anti-economica, pre-economica e pre-industrale; ma anche come distruzione, annichilimento. In una visione romantica e idealistica la guerra pone appunto fine ai conflitti sociali e all’individualismo, al materialismo dominante, sostituendoli con l’ideale. Così nel 1914, allo scoppio della guerra, l’Europa è percorsa da fremiti bellicosi e da grandi aspettative. Tedeschi ed Inglesi, poeti e soldati, testimoniano che nell’estate del 1914 l’entusiasmo per la guerra è diffuso in gran parte della popolazione. Lo studioso Eric Leed racconta che in Germania “un’esplosione di follia infuriò per le strade”; nelle vie si cantano inni patriottici, si sente palpabile un sentimento di ” solidarietà nazionale, spirito comunitario”. Molti giovani tedeschi, figli della borghesia, sono in preda ad un entusiasmo collettivo, esaltati dall’idea di difendere la propria patria dall’odiata Inghilterra, che viene indicata, dalla propaganda giornalistica, come un paese di avidi mercanti imperialisti, che vogliono asservire il mondo, trasformandolo in una sua colonia: è sotto gli occhi di tutti il fatto che gli inglesi si oppongono al giovane colonialismo tedesco, mentre loro, nel corso dei secoli, si sono impadroniti della libera Scozia, dell’Irlanda cattolica, dell’India, di buona parte dell’Africa e via dicendo.
D’altra parte la propaganda inglese agisce in ogni modo per stimolare il sentimento patriottico ed il nazionalismo della gioventù: i giornali inglesi parlano dei Tedeschi come di un popolo di duri militari, feroci ed implacabili, risoluti ad accrescere sempre di più i propri possedimenti. Così come racconta Fussel, anche la gioventù inglese è in buona parte entusiasta della guerra e parte volontaria per il fronte, talora convinta di andare a difendere i valori di libertà e di giustizia, dando poi prova di coraggio e di grandezza, talora invece, più o meno consapevolmente, per affogare nel sangue e nell’azione un intimo ed interiore senso di vuoto, di assurdità della vita, che si sta facendo, alle soglie del nuovo secolo, sempre più drammatico: è infatti vero che, accanto al patriottismo, scorre, in molti, fin nelle vene, un nichilismo totale, un feroce cupio dissolvi (che le moderne categorie della storiografia marxista non vogliono riconoscere, riducendo l’uomo ad essere esclusivamente materiale e quindi mosso in tutto solo da ragioni economiche).
Se ne intravede traccia, addirittura, nelle parole di W. Churchill, ministro della Marina inglese, scritte pochi giorni prima dello scoppio della I, quando ancora egli stesso si cimentava, a suo dire, ma non per altri, nell’evitarla: “Tutto tende verso la catastrofe e la rovina. Sono interessato, in piena azione e felice. Non è terribile essere fatto così? I preparativi hanno per me un fascino orrido…andiamo tutti alla deriva in una sorta di ottusa ipnosi catalettica, quasi che fosse opera di qualcun altro“.
Così Umberto Saba, interventista nel 1915 e poi anche collaboratore de “Il popolo d’Italia” di Mussolini, scriverà nelle sue “Scorciatoie”, che le guerre non scoppiano, come molti credono, per cause economiche, in quanto queste coesistono, ma “sono, in gran parte, almeno oggi, pretesti offerti all’istinto di morte“. Un istinto che corrode come un cancro l’uomo senza fede del ‘900, e che fa dire, ad un personaggio della letteratura di questo tempo, creato da un altro interventista, Thomas Mann: “La morte è una felicità profonda …la riparazione di un deplorevole infortunio“.
Nell’Italia del 1914 non si riscontra un’analoga volontà di guerra; il paese è ancora fortemente cattolico, in buona parte non si riconosce nello Stato moderno italiano, nato dalle annessioni piemontesizzanti dette Risorgimento, e per questi motivi è meno “politicizzato” di altri: non si può dire, per gli italiani, ancora, che la politica sia divenuta, come scrive Galli della Loggia, “una nuova religione laica“, cioè che gli italiani cerchino nella politica, nel nazionalismo, nell’attività verso l’esterno, la risposta alle domande fondamentali: cosa è la vita, cosa è la società, cosa è l’uomo, qual è il suo fine…? Gli italiani non sono, come altri popoli, masse secolarizzate, “la cui emotività e il cui immaginario, liberatisi dalla presenza della religione e della trascendenza, erano pronti a seguire con grandissimo entusiasmo qualsiasi idea generale che si presentasse con dei caratteri in qualche modo surrogatori della vecchia fede religiosa” (Galli della Loggia).
Non si può dire, per l’Italia, quello che afferma l’ebreo tedesco Thomas Mann (che per ironia della sorte pagherà, nella II guerra mondiale, il suo nazionalismo), della Germania: “Da troppo tempo eravamo già una grande Potenza: ci eravamo avezzi e non ne traevamo l’attesa felicità…Guerra dunque, e se occorreva contro tutti, per convincere tutti e conquistare tutti…per questo partimmo con entusiasmo, compresi della certezza che l’ora secolare fosse giunta per la Germania…che il secolo ventesimo fosse nostro e, passata l’epoca borghese inaugurata circa centovent’anni prima, il mondo dovesse rinnovarsi nel segno della Germania, nel segno di un socialismo militaresco non ancora interamente definito” (T.Mann, Doctor Faustus, 1947; traduzione italiana Mondadori 1975).
Eppure abbiamo anche noi i nostri profeti di una età nuova, di un uomo nuovo, “non ancora interamente definito”, di una utopica felicità realizzabile solo dopo un bagno di sangue, come era stato per i rivoluzionari Marat e Robespierre (le salut par le sang). Gli interventisti italiani, una ristretta, ma agguerrita e inquietante minoranza, lottano in tutti i modi, in particolare con la carta stampata, per affermare la necessità dell’entrata in guerra. Vogliono liberare Trento e Trieste, vogliono sconfiggere, a loro dire, il militarismo austro-tedesco; per alcuni, come i futuristi, la guerra è un bene in sè.
Così anche per Giovanni Papini, in cui la follia bellicista raggiunge il vertice: la guerra è come il vento che spazza l’aria putrida e pesante dello stagno; è un caldo e salutare bagno di sangue che fa piazza pulita di tante persone inutili. Tra gli interventisti italiani ci sono nazionalisti come D’Annunzio, uomini nati e cresciuti nel socialismo, come Battisti, Bissolati, Salvemini e Mussolini; uomini, cioè, per cui la politica è tutto, ideologizzati, e perciò convinti di possedere una ricetta umana di salvezza, di additare una felicità terrena da raggiungere, un paradiso in terra, nel solco tracciato dalla Rivoluzione francese che per prima si era riproposta “la felicità degli uomini sulla terra“, a qualunque costo. In nome di questa illusione, di questa ideologia, di questa utopia, la rivoluzione aveva sperimentato le cose più assurde e feroci, distruggendo e riformando di continuo, alla ricerca dell’irrealizzabile.
Perché il re era stato ghigliottinato? Per la felicità dei francesi, e perché non ci fossero più guerre: “la nazione francese rinuncia a intraprendere qualsiasi guerra a scopo di conquista, né impiegherà mai le sue forze contro la libertà di alcun popolo” avevano gridato Petion e Robespierre alla Costituente. Perché, pochissimo dopo, si dichiarò guerra all’Europa? Per la felicità dell’Europa: “Che tutte le nazioni siano libere come noi, e non ci saranno più guerre” aveva stabilito l’Assemblea (Gaxotte pp.209-210); però intanto bisognava liberarle e si poteva farlo solo con la guerra: “E’ giunta la crisi dell’universo: la sorte del genere umano è nelle mani della Francia…la religione dei Diritti dell’Uomo ispirerà forse meno valore ed entusiasmo della religione dei falsi profeti?“, chiedeva l’anticlericale Anacharsis Cloots davanti all’Assemblea, aprendo l’era delle “crociate” laiche.
Così l’Europa conobbe 23 anni di guerre con le stragi più immani: ovunque arrivarono, i francesi introdussero la leva militare obbligatoria, i popoli vennero saccheggiati, le statue d’argento dei santi fuse per pagare gli eserciti; solo in Russia Napoleone, portatore di “libertà“, perse 400.000 uomini e 100.000 prigionieri! Anche ora la guerra diventa il miraggio nel deserto, il grimaldello per aprire la porta della felicità, eliminando nel fuoco purificatore il presente negativo. Il marxismo, i progressismi vari hanno ammaliato uomini con la facile chimera di un futuro senza dubbio migliore e ora la guerra, afferma Mussolini, è necessaria per spazzare via per sempre l’Austria, “nazione cattolica per eccellenza”, e cioè nazione reazionaria, che si oppone al mondo nuovo perché ancora legata ad un rapporto tra l’uomo e la sua felicità e Dio, tra lo stato e la legge naturale e divina; impero nemico perché in esso, contro il dogma in ascesa del nazionalismo, convivono popoli di lingua e cultura diversi, in nome dell’antico ideale medievale di una comunità basata, non sul sangue, la razza o la classe, ma sulla stessa Fede, e quindi sullo stesso concetto di uomo, di bene e di male…
Spazzata via l’Austria, il futuro fondatore del fascismo avrebbe potuto dire di Francesco Giuseppe imperatore, che “era il pre-’89. Egli si accampava negatore ostinato di quei principi che la Enciclopedia e Parigi avevano fatto trionfare e diffuso nel mondo”; e avrebbe proseguito: “Sulle rovine del vecchio mondo si delinea il sogno della società delle nazioni…la redenzione del lavoro…l’Umanità redenta di domani“, perché “l’Uomo ha vinto… Il Bene ha vinto” e quindi occorre ormai “fede certissima nei destini della Patria e del Mondo” (1918).
In verità la I guerra avrebbe aperto le porte al comunismo, al fascismo e al nazismo, e l’eliminazione del’Impero austrungarico avrebbe reso gli ex paesi dell’Impero facili vittime, del nazismo prima e del comunismo poi.
da: Novecento. Il secolo senza croce, SugarCo.