di Simone Volpe
La Chiesa non ha mai smesso di subire persecuzioni negli uomini rimasti fedeli alla navicella di Pietro. Le avversioni provocate dai nemici dichiarati sono, in un certo qual modo, prevedibili e, nell’ordine naturale, producono un dolore di minore intensità rispetto a quello che si proverebbe, se a tradire fosse una persona che fino a ieri ha spezzato il tuo stesso pane e mangiato alla tua stessa mensa. Comunque sia l’origine della persecuzione, Cristo è morto anche per la salvezza dei suoi aguzzini, tra le cui file, ahimè, è facile essere annoverati, basta commettere un solo peccato mortale. Tra queste schiere mi sono trovato tante volte anch’io e per questo sono lucidamente cosciente di non essere migliore dei religiosi che hanno fomentato la ribellione contro il loro Fondatore ed ex Superiore Generale, Padre Stefano Maria Manelli, certo, anzi, che senza l’infinita misericordia di Dio e la vigilanza della Vergine sulla mia povera persona, sarei capace di ben peggiori meschinità. Con questa consapevolezza mi accingo a fare delle considerazioni tra quanto capitato, circa quattrocento anni fa, a San Giuseppe Calasanzio, fondatore dei Padri Scolopi e, oggi, a Padre Stefano Maria Manelli, Fondatore dei Frati Francescani dell’Immacolata.
La persecuzione del santo vecchio Giuseppe Calasanzio parte da lontano. Comincia dall’anno 1625, quando papa Urbano VIII dispose una visita apostolica ordinaria in tutti le chiese e i conventi di Roma. Nell’ordine degli scolopi s’insinuava un certo malcontento per via di alcuni confratelli che accusavano il Padre Fondatore di essere autoritario, dispotico e di fare troppe fondazioni, pur non avendo il personale necessario da mandare nelle nuove scuole[1]. Il Calasanzio è conosciuto soprattutto per il carisma educativo. Se al posto delle scuole scriviamo il termine conventi, vediamo che fin da queste prime righe c’è una similitudine impressionante tra le accuse mosse al fondatore degli Scolopi e quelle volte a Padre Stefano Maria Manelli. Forse il Santo, come Padre Stefano, sminuì la portata delle accuse, non certo per incapacità di analizzare la portata degli avvenimenti, ma nella speranza, come obbliga il cuore di padre, di attendere il ritorno di quei figlioli che si erano separati a causa delle miserie umane cui tutti siamo soggetti.
Le accuse mosse al Calasanzio coincisero con una visita apostolica ordinata dal Pontefice del tempo in tutte le Chiese di Roma e benché uno dei primi diffamatori, lo scolopio Ottanelli, si pentì, le calunnie fecero il loro corso, come il venticello descritto nell’aria de “Il barbiere di Siviglia”. Durante il percorso il vento delle diffamazioni incontrò lo scontento di chi non aveva ricoperto le cariche desiderate e la delusione di chi immaginava uno sviluppo dell’Ordine più conforme ai propri desideri che a quelli del Fondatore e, come succede nei casi in cui si semina zizzania, la crescita del seme dannoso fece il resto. Anche qui mi sembra ci sia abbondante materia di comparazione tra gli oppositori del Calsanzio e i religiosi dall’abito azzurro cenere che hanno avviato la contestazione. Anzi nel caso dei Francescani, si è prima accusato Padre Stefano di imporre, poi, correggendo il tiro, senza una doverosa pubblica smentita, Padre Alfonso Bruno ha parlato di privilegiare la messa in rito antico.
La tarda età del Fondatore, sia per San Giuseppe Calasanzio, quanto per Padre Stefano Manelli, sembra essere un punto di vulnerabilità. Come gli scolopi ribelli accusarono il Calasanzio di non essere più in grado di guidare gli scolopi, anche Padre Alfonso Bruno, attuale Segretario Generale dei Frati Francescani dell’Immacolata, ha insinuato l’incapacità di Padre Stefano Manelli di governare l’Ordine.
Il Visitatore Apostolico degli Scolopi, Monsignor Antonio Seneca, redisse una relazione prestando attenzione solo a quello che gli avevano riferito i dissidenti e così, la sua nomina, deponeva a sfavore di un’analisi oggettiva. Anche nel caso dei Francescani, l’imparzialità del giudizio è stata fortemente compromessa, sia nella fase precedente al commissariamento che in quella successiva. Infatti, il visitatore apostolico dei Frati Francescani dell’Immacolata, Monsignor Vito Todisco, insieme al fratello Mario, in passato furono assidui frequentatori del Santuario di Frigento, dove viveva la famiglia francescana; peraltro, Vito Todisco, intensificò l’amicizia con Padre Antonio Santoro e Padre Michele Iorio, due dei cinque frati contestatori e, per un certo periodo, il fratello del Monsignore, Mario Todisco, fu aspirante frate francescano dell’Immacolata. Dopo un tempo di esperienza nel convento francescano si orientò verso un tipo di spiritualità diversa da quell’austera vita comunitaria che prevaleva Convento di Casa Mariana.
L’insieme di queste circostanze doveva rappresentare una condizione pregiudicante per una valutazione obiettiva, giacché don Vito Todisco era emotivamente implicato. Inoltre, cosa gravissima, non c’è stato mai un effettivo accertamento apostolico del Visitatore. Don Vito Todisco non ha mai girato tra i conventi , per verificare le accuse; non ha mai stabilito un contatto diretto con i frati. Invece occorreva ascoltarli, guardarli negli occhi e capire se le insofferenze espresse dai cinque oppositori, avessero trovato la loro ragione nel rancore personale, nell’ambizione, nell’orgoglio, oppure fossero state condivise da tutti. Niente di tutto questo! L’unica azione del Visitatore Apostolico è stata quella di produrre un questionario e inviarlo via e-mail all’indirizzo delle varie comunità sparse nel mondo. Ora, seppur non si volesse tener conto della nomina del Visitatore Apostolico nella persona di don Mario Todisco, amico, lo ribadiamo, di due dei cinque firmatari che hanno fatto ricorso alle autorità vaticane, non si può non dissentire dalla nomina di Padre Alfonso Bruno a Segretario generale dell’Istituto dei Frati Francescani dell‘Immacolata, da parte del Commissario, il Padre cappuccino Fidenzio Volpi. Padre Alfonso Bruno, infatti, era schierato da sempre dalla parte dei cinque iniziali firmatari che si contrapponevano a Padre Stefano. Tale nomina, dunque, è stata una cartina di tornasole, un biglietto da visita con cui si pregiudicherà la conduzione imparziale del commissariamento. Con quali criteri sia stata fatta la nomina del Visitatore Apostolico e quella del Commissario dei Frati Francescani dell’Immacolata, io non saprei, certo, ahimè, la storia della Chiesa insegna che tali nomine possano essere pilotate da amicizie e conoscenze. Difatti, in seguito alle manovre del cardinale Albizzi, abile faccendiere e amante della carriera vaticana, il Papa Urbano VIII ordinò l’ispezione di un visitatore apostolico nella famiglia religiosa degli scolopi, padre Agostino Ubaldini. Questi, uomo retto, ordinò di controllare la cella del principale accusatore del Calasanzio e subito se ne fece un’idea negativa. Purtroppo prevalse il potere più che la giustizia perché l’Albizzi lo fece subito destituire, sostituendolo con un visitatore più compiacente.
Ritornando ai Francescani dell’Immacolata, sorprende, non poco, la sfrontatezza della nomina, a meno che non si possa spiegare con una pianificazione che parta da lontano. Sono numerose le testimonianze raccolte, non solo da laici, in cui si svela che, interi mesi primi del commissariamento, i religiosi dissidenti già dichiaravano quanto sarebbe esattamente accaduto. Forse nel tentativo di persuadere laici e religiosi a passare dalla loro parte, già nell’Aprile del 2013, alcuni dissidenti andavano affermando che i Francescani dell’Immacolata sarebbero stati commissariati a luglio, come di fatti è accaduto. Non sono pratico dei giochi di palazzo, ma sorprende che decisioni così importanti siano conosciute con tanto anticipo; dunque, mi domando se ci sia stata solo un’accidentale fuga di notizie o abbiano avuto un ruolo collegamenti tra persone che abbiano favorito l’iniziativa disgregante dei cinque religiosi.
Uno degli accusatori del Calasanzio, il chierico Gianfrancesco Castiglia, confessò in seguito di aver agito contro il Fondatore solo per un affronto ricevuto. Tutto ciò ricorda le lamentele di alcuni francescani di non aver ricevuto mai una telefonata, quando erano lontani in terra di missione o di non essere stati difesi da Padre Stefano, quando ingiustamente accusati. Purtroppo, se le lagnanze non le lasciamo estirpare dall’Immacolata, scavano un solco profondo e all’occorrenza vi fanno precipitare dentro l’anima. Se allignano nel nostro cuore, impediscono la vera condivisione fraterna del carisma mariano dell’Istituto che, come insegna San Massimiliano Kolbe, dovrebbe spingere a compiere tutte le azioni solo per rendere gloria all’Immacolata e non ricercare soddisfazioni personali. Se perdura l’insoddisfazione, la superbia può spingerci facilmente a travestirla da legittima richiesta di giustizia.
In tale contesto spiccano le figure degli scolopi demolitori, Mario Sozzi e Stefano Cherubini. Cominciamo dal minore. Il Cherubini è descritto come un personaggio bravo nel curare le pubbliche relazioni. Doveva essere simpatico, ma se il piacere agli altri non è utilizzato per servire Dio, mal si sposa con il ruolo di religioso. Il Cherubini era smanioso di primeggiare e amante degli onori. Non aveva per niente spirito di preghiera.
Il secondo scolopio, primo per accanimento contro il vecchio fondatore, fu Mario Sozzi. Religioso per professione, più che per vocazione, amava sentirsi considerato dalla gente, avere il loro ossequio e magari sperare di occupare un incarico di riguardo, giacché l’Ordine era in un periodo di espansione, come quello dei Frati Francescani dell’Immacolata. A questo punto è doverosa una considerazione. All’origine di ogni divisione c’è sempre l’amor proprio, sebbene, come già detto, a volte sappia nascondersi dietro l’esercizio di un sacrosanto diritto. Di solito i manovratori delle discordie sono quelli che non sanno far tacere la superbia e l’orgoglio. Il pieno e totale abbandono all’Immacolata, invece, dovrebbe essere l’atteggiamento più giusto per appianare i dissensi. Se ci fosse stato l’amore per gli ultimi posti, così come insegna il Vangelo, se si fosse coltivata la virtù dell’umiltà, di certo la divisione non avrebbe trovato diritto di cittadinanza all’interno di un Ordine o di un Istituto. La fede, quella vera, opererebbe miracoli e rimedierebbe gli errori, presunti o reali dei superiori. Sozzi svolgeva il lavoro di religioso come chi si appresta a salire una scala, fino a trovare un gradino da cui attendere il momento opportuno per il grande lancio verso la cima. Il momento opportuno arrivò quando si presentò una giovane donna che gli raccontò, in confessione, come fosse stata ingannata e indotta alla prostituzione da una nobildonna fiorentina, Faustina Mainardi, con la complicità del canonico di Santa Maria in Fiore, don Pandolfo Ricasoli. Sozzi vide in quella ragazza l’occasione giusta per farsi notare e andò a denunciare l’accaduto all’inquisitore fiorentino, il francescano Giovanni Muzzarelli. Ecco che Sozzi comincia ad acquistare la fama di purificatore e risanatore dei costumi. Eccolo finalmente entrato nel giro della gente importante, da cui non sarebbe più uscito. Dopo Muzzarelli, entrerà nelle grazie dell’influente assessore del Santo Uffizio, monsignor Francesco Albizzi. La fama acquisita gli fornirà le credenziali per vendere ogni bugia come oro colato.
Intanto Sozzi soggiornava a Firenze, dove svolgeva compiti all’interno dell’Ordine, senza sottomettersi a nessuno, anzi ostentava uno spirito di domino, fino ad arrivare ad una lite con il padre rettore. Questi gli ingiunse di lasciare Firenze e trasferirsi a Narni. Per tutta risposta lo scolopio ribelle andò a Roma e si mise sotto la protezione di Albizzi, che ordinò al Calasanzio di rimandarlo a Firenze. Qui, sempre più borioso, arrivò ad alzare le mani su un confratello sacerdote. Purtroppo bisogna annotare negativamente come lo spalleggiamento di alcuni vescovi e Cardinali non giovò alla causa della verità.
L’ordine si divise. Ormai c’erano quelli fedeli al Calasanzio e quelli che si lasciavano sedurre dai nuovi padroni per far carriera. Sozzi e i suoi seguaci accusarono il Fondatore di provocare la disobbedienza e con altre simili calunnie, la non sempre ineccepibile macchina della giustizia ecclesiale, faceva il suo corso. Eclatante il caso in cui Sozzi accusò falsamente il Calasanzio di avergli fatto perquisire la stanza. In preda all’agitazione scrisse all’Albizzi che comunicò l’accaduto al Cardinale di Stato Barberini,il quale a sua volta riferì al Pontefice Urbano VIII. Il papa cosa poteva fare? Ordinò di arrestare i responsabili e così il povero santo vecchio, ottantacinquenne, fu condotto per le strade di Roma fino al Sant’Uffizio.
Era ora di pranzo e l’Albizzi, nel pieno delle sue preghiere, pensò di consumare prima il pasto, poi di fare la pennichella e poi, con tutta calma, interrogare il Calasanzio come dal migliore protocollo evangelico. Il santo rispose con calma alle accuse impetuose di Albizzi e lo pregò di verificare l’infondatezza della denuncia. Quando questi ottenne la conferma del Cardinale Cesarini, autore dell’ordine di perquisizione, lo rilasciò senza nemmeno un cenno di scuse; anzi la rabbia del porporato si sostanziò nell’ordine di arresti domiciliari per quindici giorni, senza alcuna motivazione. Questa palese ingiustizia ricorda i tanti provvedimenti immotivati posti a carico dei Francescani dell’Immacolata, del Fondatore e anche di alcuni religiosi.
Intanto nel 1941 si chiuse il processo contro la signora Mainardi e il suo compare don Ricasoli, con la condanna all’ergastolo. Il merito fu tutto di Sozzi e per ricompensarlo, Albizzi obbligò il Calasanzio di nominarlo Provinciale della Toscana.
Le accuse di perdita della lucidità e di mancanza di vigore mentale, lanciate dal Sozzi contro il Calasanzio, grazie all’appoggio del Cardinale Albizzi, arrivarono al Pontefice e gli scipparono un Breve, ossia un documento pontificio con cui Urbano VIII nominava Sozzi, Vicario Generale degli scolopi. La storia è particolarmente rilevante perché ci offre spunti di riflessione per chiarire che il Santo Padre, da San Pietro a Papa Francesco, non sono infallibili, possono commettere errori nell’ordinaria gestione degli atti di governo. Va da se che evidenziarli amorevolmente, come un figlio farebbe con il padre, non vuol dire mettere in discussione il magistero infallibile del Pontefice, non vuol dire sposare la causa di uno scisma e diventare disobbedienti. Va chiarito, inoltre, che se da una parte far risaltare un errore non è sinonimo di disobbedienza, dall’altra bisogna guardare gli eventi con lo sguardo soprannaturale. L’eroismo della fede impone l’accettazione di decisioni ingiuste, fidando nell’Intervento dell’Immacolata che, anche quando ritarda, è senz’altro per grazia, per la propria purificazione e per quella degli altri.
Un giorno il santo vecchio scolopio predisse la prossima morte di Sozzi, raccomandandogli caldamente di apparecchiare l’anima a Dio. Due mesi dopo, infatti, Sozzi morì di una malattia vergognosa che alcuni biografi hanno ovattato parlando, di volta in volta, di fuoco di Sant’Antonio o lebbra: in realtà Sozzi morì di sifilide. La malattia vale più di qualunque discorso eloquente. La salma, per volontà stessa del defunto, non fu esposta al pubblico, ma tumulata di nascosto.
A padre Alfonso Bruno (nella foto) invece, all’apice della sua carriera, auguro quanto accaduto a San Paolo, nella speranza che possa essere disarcionato e chiedere perdono per i suoi peccati, poiché, finché in vita, la misericordia di Dio vuole tutti salvi.