F.I: come Abramo e Lot, non come Caino e Abele

di Fabrizio Cannone

In medio stat virtus. La Chiesa Cattolica che all’epoca di Giovanni Paolo II ha permesso la Santa Messa con le chierichette, la comunione in mano, le chitarre e i tamburelli, la tavola, ecc., con Benedetto XVI permette anche la messa con diacono e suddiacono, la comunione in ginocchio, l’organo, il canto gregoriano, l’altare coram Deo, il latino…

«Le due forme dell’uso del rito romano possono e devono arricchirsi a vicenda»[1].

 Così si esprimeva il card. Kurt Koch sulle pagine de L’Osservatore Romano, a commento del Motu proprio Summorum Pontificum.

 È necessario che le due forme, ordinaria e extraordinaria, convivano pacificamente, affinché la riforma liturgica non diventi una rivoluzione liturgica; affinché il ramo nuovo non si stacchi dalla radice da cui trae linfa vitale; affinché nella continuità dei riti, risplenda la continuità dell’unica fede; affinché sia affermata l’ermeneutica della continuità e non prevalga la logica della rottura e della discontinuità (Benedetto XVI, 22 dicembre 2005)

Se nella Chiesa non ci fosse più posto per i cultori della Tradizione, i fedeli saranno travolti dai cultori delle novità il cui “prurito”, stigmatizzato da san Paolo (2 Tim 4, 3), porta a “seguire le favole” (ivi) e a smarrire l’immutabile Verità della Fede vivificante.

«Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto» (Benedetto XVI, Lettera di presentazione del Motu proprio SP, 7 luglio 2007).

Detto questo, veniamo a noi. La Chiesa missionaria di papa Francesco (Evangelii Gaudium, cap. 1), nella sua tensione verso i poveri e verso una radicale conversione che coinvolga tutto e tutti, compreso il papato (cfr Evangelii Gaudium, § 32) è allo stesso tempo la Chiesa che manifesta al mondo la gloria di Dio attraverso lo splendore della liturgia (cfr EG § 24).

A chi sperava di arruolare papa Francesco tra i nemici del Motu proprio Summorum Pontificum è arrivata una doccia fredda. I Vescovi della Puglia, nella loro visita ad limina, la primavera scorsa, si lamentavano per le divisioni create dalla liberalizzazione dell’uso antiquior del rito latino. Il Papa rispose esortandoli «a vigilare sugli estremismi di certi gruppi tradizionalisti, ma anche a fare tesoro della tradizione e a farla convivere nella Chiesa con l’innovazione»[2], e avrebbe aggiunto: “Vedete? Dicono che il mio maestro delle cerimonie papali [Guido Marini] sia di stampo tradizionalista; ed in molti, dopo la mia elezione, mi hanno invitato a sollevarlo dall’incarico e sostituirlo. Ho risposto di no, proprio perché io stesso possa fare tesoro della sua preparazione tradizionale e contemporaneamente egli possa avvantaggiarsi, allo stesso modo, della mia formazione più emancipata” (ivi).

Il Papa dei poveri e della semplicità evangelica non può essere il Papa della sciatteria e della banalità liturgica. Come san Francesco d’Assisi, povertà e austerità per sé e per i frati, ma non per Dio, al quale vanno offerte le cose più belle e più preziose (cfr San Francesco, Lettera a tutti i chierici).

Una delle finalità della piccola “riforma della riforma” liturgica iniziata da Benedetto XVI era quella di “favorire la riconciliazione in seno alla Chiesa (Universae Ecclesiae, 8 c). Il suo cuore era verso il mondo tradizionalista che, soprattutto in occidente, cresce sempre più, e spesso sfocia in atteggiamenti scismatici.

Ora si dice: la liberalizzazione del Vetus Ordo era per favorire la riconciliazione, e invece a causa del Vetus Ordo i Francescani dell’Immacolata stanno per dividersi. È la dimostrazione del disastroso fallimento del motu proprio Summorum Pontificum.

Rispondiamo: no, è il provvidenziale fallimento di un semplicistico e sostanzialmente errato concetto di unità. Altra è l’unità della Chiesa, altro è il modo in cui avviene l’unità dei Cristiani all’interno della stessa Chiesa. Altra è la riconciliazione rispettosa delle diversità, e altra è la massificazione omologante. Non si può paragonare la deriva scismatica (in atto o in potenza) dei lefebvriani con l’ormai irreversibile processo di distinzione dei Francescani dell’Immacolata, destinato a generare due rami dalla stessa radice originaria.

La divisione scismatica è un danno per la Chiesa, perché è la perdita di un tralcio che si stacca dalla vite ed è così destinato a seccare. La divisione riformatrice, invece, è un guadagno per la Chiesa, perché è la generazione di un nuovo pollone, destinato a crescere e a portare frutto, come tutte le riforme degli ordini religiosi. In tal senso, al motu proprio Summorum Pontificum va il merito, non la colpa, di avere catalizzato questo processo di riforma nei francescani dell’Immacolata nel senso di un approfondimento del loro carisma, sia pure in due direzioni diverse. E crediamo che non siano gli unici.

Il loro caso è comunque singolare: sulla base di un carisma comune, un gruppo con a capo i Fondatori accoglie la liberalizzazione del Vetus Ordo come un lievito che fa fermentare la massa verso la tradizione liturgica; un altro gruppo l’accoglie come un corpo estraneo, tutt’al più come un bel soprammobile da guardare ogni tanto, ma di cui, per loro, non c’era alcun bisogno. Così che nulla nei Francescani dell’Immacolata è come prima: un gruppo vede nel carisma originario tutte le virtualità della tradizione liturgica, che il motu proprio ha permesso di esplicitare. Un secondo gruppo nega che ci siano queste virtualità e afferma, invece, una vera contrarietà. Danno anche loro, perciò, una nuova interpretazione del carisma originario.

Non si fermano al dato di fatto: “fino al 2007 i Francescani dell’Immacolata non celebravano secondo il Vetus Ordo”; ma aggiungono una valutazione di principio: “perché il Vetus Ordo è incompatibile con il carisma dei Francescani dell’Immacolata”, che è dire molto di più. Ora, questa incompatibilità, pur essendo oggettivamente indimostrabile, si configura come una nuova possibile interpretazione del carisma fondazionale. Ora, se ha diritto di esistere la novità contraria al Vetus Ordo, ancor più avrà diritto d’esistere la novità favorevole, perché ha dalla sua parte e i Fondatori, e uno dei documenti più importanti e autorevoli del pontificato di Benedetto XVI.

A onor del vero, se un effetto scismatico c’è stato, questo è storicamente seguito alla riforma liturgica di Paolo VI, la quale è direttamente chiamata in causa – soprattutto nel modo in cui è stata attuata – dalla drammatica e feroce contestazione da parte della “galassia lefebvriana”, in costante espansione, che a tutt’oggi conta circa 600 sacerdoti, 215 seminaristi, numerosi conventi e monasteri, e 2 milioni di fedeli in tutto il mondo. La riforma della riforma di Benedetto XVI sicuramente non provocherà un altro “scossone scismatico”, anzi, ridurrà le dimensioni di quello in atto, ma forse provocherà la “meiosi” dei Francescani dell’Immacolata, e questo non è un male, soprattutto se si guarda alla loro potenziale fecondità futura.

Papa Francesco ha ricordato recentemente ai superiori maggiori degli ordini religiosi, che Il carisma non è una bottiglia di acqua distillata” (Incontro con i superiori maggiori del 29 novembre 2013, SIR 3 gennaio 2014), ossia non è una realtà stagnante ma dinamica, non è morta ma viva. E la dinamicità e la vivacità degli ordini religiosi si dimostra anche nella loro capacità di rigenerarsi attraverso la riattualizzazione del loro carisma. Cosa che per i Francescani dell’Immacolata avvenne grazie all’impulso del motu proprio Summorum Pontificum.

È vero che la riforma di una famiglia religiosa non richiede necessariamente la divisione dei suoi membri; è vero che tutto poteva realizzarsi all’interno. È vero, e sarebbe stato bello che così fosse avvenuto. Ma le cose, per circostanze imponderabili, sono andate in altro modo. “La realtà è superiore all’idea” (EG 233) dice il Santo Padre. E ora non c’è che da prendere atto di una realtà, forse più brutta dell’ideale unità, ma innegabile: ci sono due modi diversi d’intendere il carisma originario, per la qual cosa, la divisione dei Frati Francescani dell’Immacolata, in un modo o in un altro, è inevitabile. Bisogna cercare il modo migliore, soprattutto per salvare tante vocazioni e la fede di tanti fedeli laici, che seguono con apprensione questa complicata vicenda.

Chi potrà aiutare i Francescani dell’Immacolata in questo travaglio rigeneratore?

Chi li aiuterà a dividere la preziosa eredità kolbiana, affinché ciascuno dei due gruppi prenda la sua strada, da buoni fratelli, come Abramo e Lot, come Paolo e Barnaba, e non come Caino e Abele? Chi, per motivi ideologici, sta armando una parte per sopprimere l’altra, la finisca, per favore! (Dietro ogni “primavera araba” c’è un “signore della guerra”). 

Prevalga il buon senso, il bene della Chiesa, prevalga il “sano realismo cristiano”, al quale si riferisce Papa Francesco. Al nostro amato Papa questo osiamo chiedere la nomina un cardinale di santa Romana Chiesa, che sia super partes, affinché accompagni i due gruppi, già esistenti di fatto, di Francescani dell’Immacolata in questo ormai irreversibile processo di divisione rigeneratrice.


[1] Koch card. Kurt, “Una speranza per tutta la Chiesa”, in L’Osservatore Romano, 15 maggio 2011, p. 7.

[2]Magister Sandro, Tra confidenze e esorcismi, Un Francesco tutto da decifrare, 25 maggio 2013, in L’Espresso, Settimo Cielo)

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Autore: Libertà e Persona

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