Edith Stein e il mistero del Natale

di Claudia Mancini

Nel raccoglimento dell’abbazia benedettina di Beuron, nel 1932, tre anni prima di entrare nel Carmelo, Edith Stein scrisse una ricchissima meditazione teologica sul Natale. Il testo, pronunciato in occasione di una conferenza dell’Associazione Accademici cattolici di Ludwigshafen (nel Land della Renania-Palatinato, in Germania), fu pubblicato per la prima volta nel 1950 a Colonia e in Italia solo nel 1989.

Filosofa, ebrea, atea, convertita, religiosa e martire, questa donna speciale inizia la meditazione non con una citazione erudita, alla ricerca di un incipit originale, ma con una riflessione che spiazza per la sua semplicità; sì, la semplicità di chi ha lo sguardo inclusivo della fenomenologia. La Stein fa notare che tutti – anche gli appartenenti ad un’altra religione e i non credenti, cui l’antico racconto del bambino di Betlemme non dice alcunché – non possono sottrarsi al fascino del Natale.
Nelle settimane precedenti già «un caldo flusso di amore inonda tutta la terra», perché «tutti preparano la festa e cercano di irradiare qua e là un raggio di gioia». Cercare e dare gioia, preparare e prepararsi ad una festa, poiché è strutturalmente umano, è sempre apprezzabile e mai scontato da ricordare. Ma per il cristiano, e in particolare per il cristiano cattolico, la stella che porta alla mangiatoia è anche qualcos’altro. Il cuore di colui che vive con la Chiesa, fin dalle campane del Roratee dai canti dell’Avvento, comincia a battere all’unisono con la sacra liturgia che scandisce un tempo unico: il tempo di un’attesa che è allo stesso tempo un’ardente nostalgia. Un’attesa-nostalgia che cresce durante l’Avvento, e trova appagamento solo quando le campane della messa di mezzanotte suonano e annunciano: «E il verbo si fece carne». A questo annuncio, ci ritroviamo sempre davanti all’incanto del Bambino nella mangiatoia, che protende le mani e sorridendo sembra già dire quanto più tardi, divenuto Maestro, le sue labbra ripeteranno fino all’ultimo respiro della croce: «Seguimi».

Attenzione: la Luce della stella e l’incanto del Bambino nella mangiatoia durano il tempo di un battito del cuore. «Alla Luce discesa dal cielo, si oppone tanto più cupa la notte del peccato». Di fronte al Bambino, simultaneamente, gli spiriti si dividono in “favorevoli” e “contrari”. Davanti al «Seguimi», chi non è per Lui è contro di Lui. Non a caso, il giorno dopo il Natale, mentre ancora riecheggia il suono gioioso delle campane notturne e delle festose liturgie natalizie, la Chiesa depone i paramenti bianchi della festa e indossa il rosso del sangue e, il quarto giorno, il violetto del lutto per ricordare il primo martire Stefano e i bambini innocenti uccisi da Erode. Che significa questo? Dov’è l’incanto del bambino nella mangiatoia, dov’è la «beatitudine silente della notte santa»?

Il mistero della notte di Natale, scrive la Stein, porta una verità grave e seria che l’incanto della mangiatoia non deve velare ai nostri occhi: «il mistero dell’incarnazione e il mistero del male sono strettamente uniti». La gioia del Bambino e delle figure luminose che s’inginocchiano attorno alla mangiatoia – i bambini innocenti, i pastori fiduciosi, i re umili, i martiri, i discepoli, gli uomini di buona volontà che seguono la chiamata del Signore – va di pari passo con la constatazione che non tutti gli uomini sono di buona volontà, che la pace non raggiunge «i figli delle tenebre», che a essi il Principe della pace «porta la spada», che per essi è «pietra di inciampo» contro cui urtano e si schiantano. Quel Bambino divide e separa, perché mentre lo contempliamo impone una scelta: «Seguimi». Egli lo pronuncia anche per noi, oggi, e ci pone di fronte alla decisione di scegliere tra la luce e le tenebre. Le mani del Bambino «danno ed esigono nel medesimo tempo». Allora, se mettiamo le nostre mani in quelle del Bambino divino e rispondiamo con un «Sì» al suo «Seguimi», cosa riceviamo?

«O scambio mirabile! Il Creatore del genere umano ci conferisce, assumendo un corpo, la sua divinità». Proprio qui sta la grandezza del mistero dell’Incarnazione: chi sceglie la luce, chi si mette dalla parte di quel Bambino, «libera la via perché la Sua vita divina possa riversarsi in noi», e porta «invisibilmente il Regno di Dio dentro di sé». Il Natale è l’inizio di un’avventura che non è altro che quella di lasciare la grazia «penetrare di vita divina tutta la vita umana». Perche Dio è diventato uomo? Dio è diventato un figlio degli uomini, affinché gli uomini potessero diventare figli di Dio. Scrive la Stein: «uno di noi aveva lacerato il legame della figliolanza divina, uno di noi doveva nuovamente riannodarlo e pagare per il peccato. Ma nessun discendente di questa progenie antica, malata e imbastardita, era in grado di farlo. Su di essa andava innestato un ramoscello nuovo, sano e nobile».Queste parole di Edith Stein richiamano alla mente – per evidente analogia – un passo del “Cur Deus homo?” di Sant’Anselmo, in cui è racchiusa la medesima logica della redenzione: «La restaurazione della natura umana non sarebbe potuta avvenire, se l’uomo non avesse pagato a Dio ciò che gli doveva per il peccato. Ma il debito era così grande che la soddisfazione – essendo obbligato solo l’uomo, ma potendolo solo Dio – occorreva che fosse data da un Dio-uomo». (CDH 2,6)

Edith Stein aveva imparato alla scuola dei maestri del Carmelo, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce in particolare, che la grazia si sviluppa in noi come un seme che ci trasforma, facendoci partecipe della Vita stessa di Dio. Per questo motivo, il seguito della meditazione insiste sui segni fondamentali di un’esistenza umana unita a Dio. Il primo segno della figliolanza divina è «essere una cosa sola con Dio». Il Bambino è sceso nel mondo per essere un «corpo misterioso» con noi: «egli è il nostro capo, noi le sue membra». Non esistiamo più «gli uni accanto agli altri, come esseri singoli, autonomi, ma siamo tutti una cosa solo con Cristo». Il secondo segno della figliolanza divina è «essere una cosa sola in Dio»: «se nel corpo mistico Cristo è il corpo e noi le membra, allora siamo membra gli uni degli altri, e tutti insieme siamo una cosa sola in Dio». Misura del nostro amore per Dio è il nostro amore per il prossimo «che sia parente o no, che lo troviamo simpatico o no, che sia moralmente degno del nostro aiuto o no»; «chi ama col suo [di Cristo] amore, vuole gli uomini per Dio e non per sé». Il terzo segno della figliolanza divina è la disponibilità ad accogliere qualunque cosa dalla mano di Dio: «Sia fatta la tua volontà!», in tutta la sua estensione, deve essere il criterio della vita cristiana. Esso deve scandire la giornata dal mattino alla sera, il corso dell’anno e tutta la vita. «Deve essere l’unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre il Signore le prende su di sé».

Nella Luce e nel calore della notte santa, quando abbiamo appena cominciato ad affidarci al Bambino, stringiamo fiduciosi la sua mano e vediamo con chiarezza quanto dobbiamo fare e non fare. Ma la situazione non rimarrà sempre così. Chi guarda l’incanto del Bambino nella notte santa non può far finta di non vedere che la via che si diparte da Betlemme conduce al Golgota, va dalla mangiatoia alla croce. «Chi appartiene a Cristo deve vivere tutta la sua vita». La notte di Natale e la notte della croce sono un’unica notte. Verrà il tempo della sofferenza e della morte, per ogni uomo. Quando sarà, la fiducia in Dio rimarrà incrollabile? Saremo disposti ad accogliere qualsiasi cosa dalla Sua mano? Saremo ancora capaci di dire «Sia fatta la tua volontà!», anche nella «notte più scura», «allorché la luce divina non brilla più e la voce del Signore tace»? I misteri del cristianesimo sono un tutto indivisibile. Chi ne approfondisce uno, finisce per toccare tutti gli altri – scrive la Stein. Sullo splendore luminoso che irradia dalla mangiatoia cade l’ombra della croce. La Luce della notte santa si spegne nell’oscurità del venerdì santo, ma torna a brillare più luminosa la mattina della resurrezione. Il Figlio incarnato di Dio perviene, attraverso la croce e la passione, alla gloria della Resurrezione. Così ogni uomo deve soffrire e morire. Ma se egli è un membro vivo del corpo di Cristo, la sua sofferenza e la sua morte diventano, grazie alla divinità del capo, redentrici: «Ognuno di noi, tutta l’umanità perverrà con il figlio dell’uomo, attraverso la sofferenza e la morte, alla medesima gloria». E Il Salvatore, ben sapendo che siamo uomini quotidianamente alle prese con le nostre debolezze, viene in aiuto della nostra umanità con quelli che la Stein chiama i «mezzi della salvezza»: «essere ogni giorno in relazione con Dio» attraverso l’ascolto della Parola, la preghiera liturgica ed interiore, la vita sacramentale. Ma è soprattutto al «Salvatore eucaristico» che dobbiamo fare spazio, affinché possiamo trasformare la nostra vita nella sua. Come il corpo terreno ha bisogno del pane quotidiano, così anche la vita divina aspira in noi ad essere continuamente alimentata: «Chi lo fa veramente il suo pane quotidiano, in lui si compie quotidianamente il mistero del Natale, l’incarnazione del Verbo». E questa è indubbiamente la via più sicura per conservare ininterrottamente l’unione con Dio e radicarsi ogni giorno sempre più saldamente e profondamente nel corpo mistico di Cristo.

Sono venti pagine di meditazione sul Natale, quelle scritte dalla Stein, fittissime e densissime. Per ricordare che i misteri del cristianesimo sono un tutto indivisibile, perché sono tutti misteri portatori di salvezza. Incarnazione, Croce e Resurrezione sono inseparabili. Solo perché veramente il Figlio, e in Lui Dio stesso, «si è fatto carne», Egli ha potuto morire e risorgere, quindi strapparci dalla morte e consegnarci ad un futuro in cui questa “carne”, la nostra esistenza terrena, entrerà nell’eternità del Regno di Dio. Celebriamo il Natale come l’invito a lasciarci trasformare da Colui che è entrato nella nostra carne, che si è congiunto a noi e ha congiunto noi a sé, per penetrare di vita divina tutta la vita umana. Il mistero della notte di Natale ci ricordi che con l’Incarnazione avviene qualcosa di straordinario: la carne diventa lo strumento della salvezza.

«Verbum caro factum est» il Verbo si fece carne, scrive l’evangelista Giovanni e un autore cristiano de III secolo, Tertulliano, afferma: «Caro salutis est cardo», la carne è il cardine della salvezza. «Infatti se l’anima diventa tutta di Dio è la carne che glielo rende possibile! La carne vien battezzata, perché l’anima venga mondata; la carne viene unta, perché l’anima sia consacrata; la carne viene segnata della croce, perché l’anima ne sia difesa; la carne viene coperta dall’imposizione delle mani, perché l’anima sia illuminata dallo Spirito; la carne si nutre del corpo e del sangue di Cristo, perché l’anima si sazi di Dio. Non saranno separate perciò nella ricompensa, dato che son state unite nelle opere». (De carnis resurrectione, 8, 3: PL 2, 806).

Fonte: La porzione.it

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Autore: Libertà e Persona

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