Mi tremano le mani, ora che mi accingo a scrivere alcune misere considerazioni su Benedetto XVI. Ci sono momenti della storia che non appartengono alla storia, ma all’eternità. Questo sembra, a me, a molti, uno di quei momenti. In cui si percepisce che sta accadendo qualcosa che è ben di più di quello che sembra. Il mondo si interroga. Ma non ha chiavi di lettura, perché senza la fede non si può comprendere ciò che nasce dalla fede. In ogni modo a molti è evidente un primo fatto: quando un papa se ne va, il rumore del mondo si rivela per quello che è: un ciarlare senza vita e senza respiro. Basta leggere il più malriuscito dei discorsi di Benedetto XVI, per sentire in esso più verità, più sapore, che in tutto il ciarlare mondano dei protagonisti della politica, della televisione, dei giornali. Le prediche di Scalfari, gli editoriali “impegnati” di De Bortoli, le trasmissioni di Fazio, i comizi para-religiosi di Vendola e di tutti quanti… dimenticheremo tutto domani. Tutta roba che scivola via, che scade, in tempo reale. Solo le parole che nascono dalla fede sincera e profonda nell’esistenza della Verità, della Carità, della Giustizia divina, così diversa da quella umana, rimarranno nei cuori e nella storia. Ancor più se dette con la “nobile serenità e quieta grandezza”, per usare le parole del Winckelmann riferite al Laocoonte (avvolto dai serpenti), con cui le ha pronunciate per anni Benedetto XVI.
Un secondo fatto: Benedetto XVI se ne va dopo aver subito attacchi di ogni sorta. Dentro e fuori la Chiesa. Chi, ai nostri giorni, è stato più calunniato di lui? Appena eletto si sono affrettati a presentarlo nientemeno che come un nazista; poi l’Europa intera lo ha processato quando ha ricordato che in Africa non si vince l’aids con il preservativo, ma educando gli uomini e le donne al rispetto reciproco, alla sessualità ordinata, alla fedeltà, al dominio della devastante violenza della cieca concupiscenza; e poi ancora, un processo dopo l’altro, e sempre il papa imputato. Imputato di fronte a giudici iniqui.
Ma non sono stati questi, a mio parere, gli attacchi che hanno logorato di più Benedetto XVI, nel corpo e nello spirito. Perché egli è stato, anzitutto, un generale non tanto senza esercito, quanto senza (quasi) ufficiali e luogotenenti. Il suo coraggio, nel rilanciare la razionalità della Fede, l’alleanza tra il pensiero greco, quello romano e la teologia cristiana, ha trovato sordi, anzitutto, molti suoi vescovi e preti, educati da trent’anni ad un culto protestante-martiniano della Bibbia, sradicato dalla tradizione filosofica europea. La sua battaglia per il ritorno al senso del sacro, ha trovato anch’essa l’ostilità e l’incomprensione di troppi che hanno trasformato il cristianesimo in una filosofia morale, in una filantropia di stampo illuminista.
Di qui l’ostracismo al Motu proprio summorum pontificum che rimetteva in vigore secoli di liturgia latina, ridando cittadinanza al canto gregoriano, agli altari tridentini, alla pietas di generazioni e generazioni di santi. Di qui l’incapacità di molti di comprendere il tentativo di Benedetto XVI di rilanciare la devozione eucaristica, vero cuore della fede cristiana, promuovendo la comunione in ginocchio e in bocca, la pratica dell’adorazione eucaristica, la solennità della cerimonie sacre… Di qui l’inerzia di fronte alla richiesta continua del papa di ritornare a spiegare il catechismo, a spezzare il pane della sapienza, a dare le ragioni e i dogmi della Fede, nella loro essenzialità e chiarezza.
E la battaglia per la difesa dei principi non negoziabili? Pochi dei suoi ufficiali lo hanno spalleggiato: chi per incapacità di comprenderne il senso, chi per mancanza di coraggio, chi per una fede ormai così tiepida da ritenere “controproducente” ogni scontro con lo spirito del mondo.
Senza ufficiali, con un esercito di fedeli spesso disorientato, Benedetto XVI ha forse sentito un peso eccessivo sulle spalle. Gioiscono in molti, con o senza sottana. E’ triste, invece, un popolo che lo ha amato (anche chi avrebbe voluto meno encicliche e libri e più governo; anche chi non ha condiviso certe idee, certe scelte; anche chi non ha apprezzato alcune nomine o le dimissioni stesse…). Voglio concludere riportando un brano molto bello e attuale da uno dei suoi ultimi discorsi (19 gennaio, ai membri del Pontificio Consiglio Cor Unum): “La visione cristiana dell’uomo è un grande sì alla dignità della persona chiamata all’intima comunione con Dio, una comunione filiale, umile e fiduciosa. L’essere umano non è né individuo a sé stante né elemento anonimo nella collettività, bensì persona singolare e irripetibile, intrinsecamente ordinata alla relazione e alla socialità. Perciò la Chiesa ribadisce il suo grande sì alla dignità e bellezza del matrimonio come espressione di fedele e feconda alleanza tra uomo e donna, e il no a filosofie come quella del gender si motiva per il fatto che la reciprocità tra maschile e femminile è espressione della bellezza della natura voluta dal Creatore”. Dei sì e dei no: così parlano i pastori, di fronte ai lupi travestiti da agnelli. Il Foglio, 14 febbraio