Tutti gli anni al Meeting di Rimini c’è un certo spazio dedicato alla scienza e agli scienziati. Quest’anno è prevista una mostra dedicata a Jérôme Lejeune, il genetista francese e servo di Dio, che si giocò il premio Nobel con le sue battaglie in difesa della vita nascente. Nella mostra, raccontano gli organizzatori, “viene ripercorsa la sua formazione scientifica nel contesto delle conoscenze biomediche del suo tempo e vengono introdotte alcune nozioni-base. Viene quindi descritta la sua attività scientifica, il suo approccio alla ricerca e le sue scoperte: in particolare, come è arrivato a dimostrare nel 1958 il nesso tra sindrome di Down e trisomia 21. Lejeune è un ricercatore ma è anche un medico, in particolare medico pediatrico: la sua posizione, e quindi lo scopo della sua ricerca scientifica, è conoscere per curare; e curare significa prendersi cura della persona. Si introducono esempi di come la ricerca genetica abbia reso possibile curare alcune sindromi ereditarie e, proprio a partire dalla testimonianza di Lejeune, dell’importanza per il malato di un contesto umano anche nei casi dove non ci siano progressi…”.
Se quest’anno è la volta di un insigne uomo di scienza che non c’è più, e cui i pro life italiani sono molto affezionati, tre anni orsono il protagonista fu invece un grande matematico vivente: il francese Laurent Lafforgue, professore all’Institut des hautes études scientifiques, e vincitore della massima onorificenza nel campo matematico, la Medaglia Fields (2002).
Mi limiterò a riprendere alcune sue considerazioni degne di nota fatte in quei giorni. Partendo da una intervista rilasciata a ilsussidiario.net, sempre nel 2009. Chiede l’intervistatore: “La matematica ha avuto inizio con i greci, ma è nel mondo moderno che il legame fra matematica e mondo fisico ha raggiunto una profondità inimmaginabile. Come è stato possibile?”. Risponde Lafforgue: “Perché ciò accadesse bisognava considerare importante la materia. E ciò sembra profondamente legato al cristianesimo. Questa mia è un’ipotesi; ma penso che il disprezzo della materia non sia cristiano. Una cosa che noto con i miei colleghi matematici e fisici è che io sono più materialista di loro. C’è una doppia tentazione: da una parte rifiutare la materia, cioè la tentazione idealista; all’opposto, c’è la tentazione di buttare la scienza moderna fondata sull’interpretazione matematica dell’universo. Da un certo punto di vista sarebbe tutto più semplice se il mondo fosse solo una struttura matematica, o se la matematica non avesse nulla a che vedere con il mondo fisico. La realtà è che la materia è sottomessa a leggi matematiche ma non si riduce a queste leggi. E questo è un mistero. In sé la relazione della matematica col mondo fisico resta un mistero”.
Solo 5 giorni prima di questa intervista, a Parigi, presso la Biblioteca nazionale di Francia, il 23 ottobre 2009, Lafforgue aveva svolto il tema “Simone Weil e la matematica”, e dopo aver citato una frase della filosofa francese – “La matematica è la prova che tutto obbedisce a Dio”– aveva aggiunto che “la matematica e la scienza sono studio e contemplazione dell’obbedienza a Dio da parte delle entità matematiche e della materia”.
C’è un ultimo pensiero di Lafforgue che mi piace riportare. Siamo a Roma, il 24 marzo del 2009. Lafforgue sostiene un concetto molto forte, cioè che “la conoscenza suppone un dono di sé alla verità”: “La vocazione del soggetto che conosce non solo è cercare la verità, servirla e conoscerla esteriormente. La vocazione è ricevere la verità e parteciparne, così come la vocazione umana è ricevere la vita divina. Per la sua oscurità e la sua profondità misteriose, a causa della sua mescolanza di fatti crudi e di bellezza, la verità conoscibile ha in effetti qualche cosa che evoca davvero la profondità insondabile caratteristica dell’essere divino. Per la sua oscurità e la sua profondità misteriose, a causa della sua mistura di saperi che riguardano i fatti e di tensione verso la bellezza dell’intelligibile, la conoscenza ha essa stessa qualche cosa che evoca la profondità insondabile di Dio. Grazie alla sua sottomissione ai fatti, la verità conoscibile possiede un legame con Colui che discende nelle profondità dell’Essere terrestre, con il Verbo fatto carne. Grazie alla sua sottomissione ai saperi specifici, la conoscenza possiede un legame con il Verbo incarnato” (tracce.it).
“Dono di sé alla verità”: un concetto su cui Lafforgue torna spesso, per ribadire che anche in un’epoca di relativismo come la nostra, benché si abbia quasi ripugnanza per “la verità”, come se essa fosse limite ed imposizione, non se ne può fare a meno. La fede nell’esistenza della verità-definita “il fondamento di ciò che è”, ciò che “si oppone a ciò che è indifferente, a ciò che in realtà non ha valore, a ciò che non è veramente capace di alimentare la nostra vita…”-, è dunque essenziale alla vita intellettiva di ogni uomo che vuole conoscere e la Verità diventa accessibile a chi, ad essa, si dona e si inchina (accettandone l’ “intrusione” nella propria esistenza). Come se la Verità si donasse a chi è disposto a donarsi a lei. Una questione, diciamo così, di innamoramento.
Fonte: Il Foglio