Pio XIV viene eletto – grazie la macchinazione di alcuni cardinali progressisti, totalmente asserviti alle istanze moderniste del Concilio Vaticano II – come “pontefice di transizione”, in quanto è creduto un personaggio insipido e vecchio, dunque facilmente manovrabile. Una semplice pedina momentanea atta a traghettare la Chiesa dal papa progressista appena spirato ad un papa che lo fosse ancora più.
La reale tempra di papa Pio XIV, tuttavia, si rivela essere tutt’altra e il suo amore per il Corpo di Cristo e per la sua Sposa lo porteranno a contrapporsi in modo netto e deciso alle istanze riformistiche per riportare la Chiesa nell’alveo della Tradizione.
Questa, in estrema sintesi, la trama del romanzo “Habemus Papam – Il fumo di Satana e l’uomo di Dio” (Fede&Cultura 2011, pp. 483, 24 euro) di Walter Martin, pseudonimo del sacerdote salesiano don Giuseppe Pace (1911-2000).
Walter Martin, tuttavia, non si limita a narrare una storia da “fantavaticano”, bensì fornisce una lucida analisi (quasi premonitrice, visto che il testo fu scritto tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta) della situazione in cui versa la Chiesa oggi e regala al lettore tutta una serie di spiegazioni teologiche e razionali su taluni aspetti della modernità che dopo il Concilio Vaticano II hanno fatto breccia nelle mura del Tempio di Dio, ma che non sempre sono pienamente conformi alla Tradizione della Chiesa, o adatte a rendere maggiore Gloria a Dio.
Vediamone alcuni esempi.
Riguardo ai seminari, Martin scrive: “Un’atmosfera di vacanza permanente andava diffondendosi sempre più liberamente in quelle sempre più spaziose dimore: nelle quali ognuno dei loro felici abitatori si faceva il proprio orario, magari variandolo di giorno in giorno, ed anche nel corso della medesima giornata, ma sempre in modo responsabile; senza alcuna preoccupazione distraente dal punto di vista economico, grazie ai sacrifici ed alla generosità di tanti fedeli, sia pure un pochino decrescente, ma sempre sufficiente, dato il provvidenziale decremento anche degli usufruttuari. Così in numerose camerette private di quei fortunati seminaristi, che continuavano ad attribuirsi il titolo borghese di studenti, non mancava il televisore, piccolo ed economico, da Chiesa dei poveri insomma! La radio o la radiolina, il registratore, il giradischi o il mangiadischi con relativa discoteca; la macchina fotografica per la ripresa di documentari di particolare importanza pastorale; […] Numerosi avevano anche la chitarra elettrica appesa al posto d’onore, dove in altri tempi era appeso il quadro dell’Immacolata” (Habemus papam, pp. 57-58).
E circa l’abito talare: “Non è l’abito che fa il monaco! Dice il proverbio. Ebbene, io sono qui a dirvi che è proprio l’abito che fa il monaco. L’abito infatti per colui che lo porta, per quanti lo vedono con quell’abito, è il segno e il simbolo permanente della sua segregazione, il segno e il simbolo che il religioso non è più un uomo tra gli uomini. L’abito è per lui una forza, la forza che lo tiene sequestrato e mancipio di un padrone che in tal modo non lascia fuggire il suo schiavo. Noi vagoliamo nel mondo dei sogni, allorquando ci illudiamo di potergli strappare quella preda, fino a quando detta preda è vestita di quell’abito. Tutto cambierà non appena il religioso avrà deposto l’uniforme della milizia nella quale si è arruolato. Necessariamente ritroverà anche la libertà di appartenere solo a se stesso” (Ibidem, pp. 273-4).
Ma l’azione di restaurazione promossa da papa Pio XIV nell’arco del suo breve pontificato è primariamente volta al ritorno alla celebrazione della Messa tradizionale, apostolico-romana, in lingua latina. E questo non per un vacuo sentimento nostalgico o per uno sterile amore delle epoche passate, bensì perché solo questa è la “[…] sacra liturgia, maturata lungo i secoli per opera di tanti Dottori, Pontefici e Santi” (Ibidem, p. 241).
La messa com’è stata redatta nella forma post-conciliare, invece, tende a svilire la portata del Sacrificio Eucaristico e a tramutare tutto in una cenetta simbolica, condita da tante belle parole. Atteggiamento, questo, perfettamente conforme a quanto dichiarava Lutero: “«Bisogna che la parola prenda il sopravvento, e che si distrugga in tal modo la Messa come sacrificio». Per una religione di spretati, quale fu il protestantesimo delle origini, non ci può essere sacrificio: basta una cena; non ci può essere un sacerdozio: basta un presidente…” (Ibidem, p. 242).
A chi avanza obiezioni circa l’uso della lingua latina, Martin risponde con due argomenti.
Innanzitutto, la Messa non è stata creata ad hoc per comprendere appieno il sacrificio che durante la stessa si celebra, bensì precipuamente per pregare e adorare il Signore: “La liturgia non può essere né la forma di catechesi principale, né tanto meno l’unica forma di catechesi, come purtroppo sta avvenendo” (Ibidem, p. 253).
In secondo luogo, da sempre la lingua utilizzata per la predicazione e la comunicazione è stata distinta dalla “[…] lingua della preghiera, la lingua liturgica, necessariamente esoterica, vale a dire dal significato noto solo agli iniziati: “[…] Gesù stesso, istituendo la Santa Messa, non usò l’aramaico volgare, bensì l’ebraico liturgico” (Ibidem, p. 258).
Nel corso di Habemus papam vengono inoltre toccate la tematica delle vocazioni, la problematica del divorzio, lo stretto legame che intercorre tra l’arte religiosa e la moralità dell’artista che la crea, la questione dell’ecumenismo (Gesù non ha detto “Ite et dialogate, e non turbate le coscienze!”, p. 416), il caso dello scisma anglicano e del protestantesimo… e molto altro. Tutto ciò, si diceva, è però inserito all’interno di una storia avvincente e verosimile, che indora di piacevolezza questo denso romanzo dai chiari contenuti teologico-dottrinali.