La confusione tra l’umano e il divino

Una delle questioni più importanti della cultura e della formazione umana da sempre, sia ad Occidente che ad Oriente, è quella del rapporto dell’uomo con Dio, legata alla stessa concezione dell’uomo, delle possibilità della natura umana, della morale e del senso della sua vita.
Qualunque concezione dell’uomo, anche la più animalesca e materialista, lega l’uomo ad un qualche assoluto, dato che nell’uomo, anche il più abbrutito, è insopprimibile il bisogno di assoluto, il quale – si noti bene – non è ancora necessariamente il bisogno di Dio, giacchè l’uomo può assolutizzare anche la creatura, anche se stesso.

Per questo, tale bisogno di assoluto c’è anche in chi nega l’esistenza di qualunque assoluto. In ogni caso chi si pronuncia sulla natura dell’uomo, afferma qualcosa in modo assoluto, esprime il modo col quale vede assolutamente l’uomo, per il semplice fatto che afferma qualcosa in cui crede fermamente o non può non affermare assolutamente. Diversamente non direbbe nulla, per cui questo tale non sarebbe neppure da prendere in considerazione. Anche le visioni nichilistiche, anche un Heidegger che vede l’uomo come “essere-per-la-morte”, anche un Sartre che lo considera una “passione inutile” o un Leopardi che lo vede zimbello e vittima di una “natura matrigna”. Anche il relativista più convinto affermerà che il relativo è l’unico assoluto.

Ma confondere il relativo con l’assoluto o viceversa, in campo antropologico, vuol dire appunto confondere l’uomo (il relativo) con Dio (l’Assoluto). La confusione tra i due termini è fenomeno e tentazione ricorrente in qualsiasi cultura, morale o religione, perché, come insegna la Scrittura, è conseguenza di quella colpa originaria che portò l’umanità a ribellarsi a Dio e a volersi mettere al suo posto, riconoscendo come Dio non il vero Dio, ma ciò che più le aggrada, e quindi anche se stessa: un’umanità che non vede in Dio il fondamento ma l’oppressione della libertà.

La sana ragione naturale, soprattutto in Occidente con la filosofia greca, in particolare Platone ed Aristotele, insegna a distinguere con chiarezza e certezza la natura umana dalla natura divina, gli attributi dell’uomo da quelli di Dio e vede in Questi il Legislatore supremo dell’ordine morale. Non sto adesso a descrivere dettagliatamente questi attributi, tanto il discorso ci porterebbe lontano e per la sua complessità non potrebbe racchiudersi nello spazio di questa breve meditazione.

Quello che qui invece volevo soltanto notare è una tendenza ricorrente nella storia del pensiero sia occidentale ma soprattutto orientale, a confondere gli attributi dell’uomo con quelli divini. L’uomo viene sopravvalutato sino a farne un dio; la divinità viene sottovalutata sino ad assumere i caratteri e le miserie dell’uomo. E se l’uomo viene sottovalutato o abbrutito, è perché il divino stesso – l’assoluto – è concepito in modo bestiale, quindi, paradossalmente, una “divinizzazione” alla rovescia.

Ma una nuova confusione tra Dio e l’uomo è avvenuta paradossalmente nel clima del cristianesimo. Ciò può sorprendere se pensiamo con quanta cura l’Antico Testamento, che costituisce la radice e il presupposto del pensiero cristiano, distingue ciò che è dell’uomo da ciò che è di Dio: Dio è al vertice di tutto, è l’“Altissimo”, uno solo, essere infinito, puro spirito, immutabile, impassibile, trascendente, onnipotente, santo, misericordioso, sapientissimo, creatore del cielo e della terra, provvidente, salvatore, giudice giusto dell’umanità. Dio per la sua infinità è da una parte misterioso e quindi ineffabile; ma essendo un Dio personale, è intellegibile e nominabile e può parlare all’uomo. Da qui i comandamenti divini e i “patti di alleanza” dell’Antico Testamento.

L’uomo invece è una semplice creatura, per quanto creato ad immagine e somiglianza di Dio. Ma è un essere composto di anima e corpo, limitato, fragile, fallibile, peccatore, bisognoso di salvezza, soggetto alla sofferenza e alla morte. Certo può e deve rapportarsi con Dio mediante il pensiero e la volontà. Ma la pretesa di innalzarsi al livello della divinità o di essere o diventare Dio o di sostituirsi a Dio è per la Bibbia, come già per la sapienza greca, una specie di violenza verso la divinità (l’ybris), il massimo dei peccati, quel peccato di superbia (Narciso, Icaro, Prometeo), al quale il serpente genesiaco ha indotto la coppia primitiva e con lei tutta l’umanità decaduta dall’innocenza originaria.
Ovvero si dà la pretesa di abbassare la divinità nei limiti e nelle miserie dell’umano o del subumano: gli animali, le piante, le rocce, i monti, i fiumi, i beni materiali, gli elementi del mondo fisico, le stelle e così via, tutto ciò è un altro peccato, il peccato di idolatria, duramente condannato dalla Scrittura. E’ vero che alcune cose, come per esempio anche il cielo, l’acqua, il fuoco, la luce, il vento (lat. spiritus, gr. pneuma, ebr. rùach) possono essere simboli del divino; ma sta di fatto che Dio è spirito e non materia, tanto che nelle visioni gnostiche e dualiste la materia diventa addirittura principio del male.

L’avvento dell’Incarnazione del Verbo in Gesù Cristo ripropone in maniera nuova la questione del rapporto dell’uomo con Dio. Il problema nasce dalla domanda: chi è Gesù? Che Gesù sia uomo, questo è evidente; che Egli possa essere il “Cristo”, ossia il Messia, non mette ancora in gioco la questione dell’identità profonda di Gesù.

Il fatto è, come risulta dai Vangeli, che Gesù non si presenta solo come Messia, ma anche – sono le sue stesse dichiarazioni – come “Figlio di Dio”; ma non un qualunque figlio di Dio, bensì come unico ed unigenito “Figlio di Dio, “uscito dal Padre”, perfetto conoscitore del Padre, Dio egli stesso, stando alle prove che Egli dà per mezzo dei miracoli e profezie e stando ad alcune sue dichiarazioni, riportate soprattutto dal Vangelo di Giovanni, dichiarazioni con la quali, per la verità, Gesù non afferma apertamente di essere Dio, ma dice delle cose che, se non fosse Dio, non avrebbero senso o dovrebbero considerarsi le affermazioni di un empio o di un pazzo, come appunto Gesù fu giudicato dalle autorità del suo tempo e per questo fu condannato alla morte di croce.
Si pensi solo a quando Gesù dice: “Io Sono”, oppure: “Io sono la Verità”, oppure: “senza di me non potete far nulla”, oppure: “Io dono la vita eterna”, oppure “Io rimetto i peccati”: solo Dio può dire queste cose di se stesso; solo Dio può avere queste caratteristiche o questi poteri.

Col cristianesimo, certo, l’uomo può accedere ad una partecipazione alla vita divina; è questa la vita soprannaturale o vita di grazia nell’esercizio delle virtù cristiane della fede, speranza e carità, sotto il regime dei doni dello Spirito Santo. Ma ciò non vuol dire ancora affatto – cosa impossibile ed empia al solo pensarci – che l’uomo possa diventare uguale a Dio o identico a Dio. E’ quella folle prospettiva del panteismo, della quale la filosofia indiana, per una deviazione dalla sua alta spiritualità, non è esente.

Il diavolo, tuttavia – o quello che Giovanni chiama l’“Anticristo” – invidioso del mistero dell’Incarnazione che porta alla redenzione e quindi alla salvezza dell’uomo, sin dagli albori della storia del dogma cristiano, ha suscitato delle eresie cristologiche su di una duplice linea: o la negazione pura e semplice dell’Incarnazione e quindi della Redenzione: oppure la falsificazione di questi due misteri.

Il primo tipo di eresia è legato alla concezione di Dio dell’Antico Testamento. E’ un’eresia, potremmo dire, di tipo giudaico. La seconda eresia invece è legata alla concezione del divino propria del paganesimo. Nella prima concezione l’Incarnazione, ossia il fatto che un uomo sia Dio, è cosa impossibile, perché sarebbe l’uomo “che si fa Dio” (l’accusa lanciata dai sommi sacerdoti a Cristo), il che è empietà e bestemmia. Per questo in questa visuale Gesù è una semplice creatura, una semplice persona umana, per quanto sublime, nella quale si dà una speciale inabitazione del Verbo Divino. Ma Gesù e il Verbo, in questa visuale, non sono affatto una sola persona, bensì due. E’ l’eresia di Nestorio. Essa è legata al giudaismo.
In un’altra visuale che calca troppo sulla misteriosità di Dio, anch’essa di fondamento veterotestamentario ma legata anche alle mistiche orientali, Dio è talmente trascendente e misterioso, da diventare totalmente inintelligibile ed incomprensibile, totalmente inesprimibile ed ineffabile o, se si dice qualcosa di lui, son cose puramente metaforiche, simboliche o relative (quello che sarà poi il relativismo dogmatico e la mistica irrazionalista). Gesù ci parla semplicemente come maestro o profeta, in modo umano, non insegna nulla di soprannaturale, ma solo ci insegna ad essere persone virtuose sul piano umano (visione che sarà propria dell’illuminismo).

Oppure, come avviene nel paganesimo, non c’è difficoltà a concepire che Gesù sia Dio. Questo è proprio già degli eroi della Grecia e di Roma. Solo che questo “dio” non dev’essere concepito con le caratteristiche del Dio dell’Antico Testamento, ma con i limiti e le miserie propri dell’uomo: la mutabilità, la passibilità, il peccato, la morte, la materialità.
Quanto all’umanità, in forza di questa sbagliata visione dell’Incarnazione per la quale si confonde la natura umana con quella divina, sorge una nuova concezione dell’uomo visto come assoluto divino, momento o apparizione di Dio, Dio sotto apparenze umane, o viceversa umanità meramente apparente (“docetismo”), che nasconde una realtà divina, assoluta libertà del pensiero e della volontà al di fuori di ogni oggettività del reale e regola oggettiva dell’azione (quello che sarà poi nell’Ottocento l’idealismo panteista tedesco).
Qui in ogni caso l’uomo avoca a sé ciò che appartiene a Dio. Naturalmente ciò non può avvenire sul piano ontologico dove resta necessariamente la differenza abissale; ma può avvenire sul piano del pensiero: l’uomo “crede” di essere Dio e si comporta come se potesse disporre di quell’assoluta libertà che è solo appannaggio della divinità: la sua volontà allora, come quella divina, sarà – a suo giudizio – sempre buona: ecco il buonismo; il peccato non esiste o convive con la grazia; salvo poi ad attribuire a Dio l’origine del male solo perché Egli è il creatore del mondo.
Si dice che Dio è solo misericordia, per poter peccare liberamente senza esser puniti, ma intanto si scaricano su di Lui tutti i mali del mondo e si bestemmia Cristo se non ci dà quello che desideriamo (vedi la recente polemica su Castellucci).

Con l’Incarnazione, in questa visuale immanentistica, Dio perde la sua trascendenza, la sua immutabilità e la sua impassibilità: muta la sua natura in quella umana, “diviene” uomo (Menschwerdung) non nel senso che assuma una natura umana restando identica la natura divina, ma proprio nel senso che la natura divina muta e diventa umana o, come si esprimerà Hegel, il Dio “astratto” diventa “concreto”. Dio non è più al di sopra del tempo e della storia, ma diventa storia e mutabilità. Sorge l’immagine pietosa ed irriverente del Dio “debole” e “disgraziato” delle farneticazioni del “pensiero debole”, dimenticando l’avvertimento dell’Apostolo che Cristo “fu crocifisso per la sua debolezza” (umana), “ma vive per la potenza di Dio” (II Cor 13,4).

In tal modo lo spirito della menzogna ha trovato il modo di vanificare il mistero dell’Incarnazione e quindi l’opera della Redenzione. Per impedire questo inganno Dio ha suscitato nei secoli la guida sapiente della Chiesa, assistita dallo Spirito Santo, nel nome del Signore Gesù. Ecco allora l’opera dei Concili cristologici, i più importanti dei quali sono stati certamente quelli dei primi secoli che hanno culminato nel Concilio di Calcedonia del 451.

Ma lo stesso Vaticano II non è per nulla privo di insegnamenti cristologici, soprattutto laddove propone un nuovo umanesimo fondato in Cristo, una più profonda devozione allo Spirito Santo che è lo Spirito di Cristo, una maggiore comprensione della chiamata universale alla salvezza, considerando che Cristo è morto per tutta l’umanità, una visione della Chiesa più strettamente unita a Cristo mediante i ministeri gerarchici e carismatici, laicali (uomini e donne) e sacerdotali, una nuova Mariologia più legata alla Chiesa e quindi più legata a Cristo, capo e sposo della Chiesa.

Oggi non è raro constatare come siano risorte molte antiche eresie cristologiche – magari sotto mentite spoglie o altri termini – precedenti al grande Concilio di Calcedonia, che produsse sintesi tra opposti estremismi e chiarezza nel linguaggio con la famosa visione dell’unità della persona di Cristo nella distinzione delle due nature, umana e divina, unite ma non confuse, distinte ma non separate, immutabili nella loro identità propria e quindi esenti da ogni confusionario ed empio mutamento o divenire che le confonda o le mescoli tra di loro o le muti l’una nell’altra. Questo orribile pasticcio trasformerebbe il mistero di Cristo, mistero di suprema bellezza ed armonia, in una ripugnante mostruosità.

Sta qui probabilmente, in questo empio trasformismo storicista, tra tutte le vecchie eresie (vedi per esempio quella di Eutiche o di Ario), quella che oggi seduce maggiormente anche spiriti dotti e benintenzionati ma poco illuminati dalla grande Tradizione ecclesiale, per nulla smentita dal recente Concilio, ma anzi confermata, sviluppata e chiarita. Esso infatti, se da una parte ha recepito l’istanza moderna della cristologia, che insiste di più sull’opera e l’azione di Cristo nella storia, non per questo dimentica l’essenziale base ontologica dell’essere di Cristo, appunto come fondamento della sua presenza salvifica nel mondo e nella storia.

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