Intervista sul giornalismo. Parla Massimo Pandolfi

Lo conobbi nella fredda Bolzano nel novembre 2009 alla conferenza cui partecipai, per la prima volta, da relatore. Il primo intervento fu il suo e confesso che la pacatezza e la disinvoltura con le quali intrattenne il pubblico per almeno una ventina di minuti mi furono di grande aiuto, giacché mi diedero il tempo di stemperare, almeno in parte, la mia ansia di esordiente. Del resto, Massimo Pandolfi, giornalista, scrittore nonché caporedattore del quinto quotidiano d’Italia – il Resto del Carlino – è tutto tranne che un dilettante. Classe 1965, originario delle Marche ma romagnolo d’adozione, ha all’attivo già sei libri di cui uno, L’inguaribile voglia di vivere ("la storia di nove persone che pur nella malattia o nella disabilità affrontano la realtà così come è stata loro donata)", è stato lo spunto, a partire dal titolo, per la nascita di una fortunata realtà pro-life sorta con lo scopo di difendere l’intangibilità della vita umana e di favorire iniziative di sostegno concreto a malati, disabili, anziani e persone sole. Niente male per un giornalista, tanto più in tempi nei quali, a scrivere su quotidiani, si passa spesso per pennivendoli. Ma la caratteristica principale di Pandolfi, prima ancora della concretezza, è un’altra, ed è ancora più speciale: l’umiltà. Lui infatti è uno che non solo, nonostante la non poca strada percorsa, non si sente arrivato e non assume atteggiamenti altezzosi ("ti prego, dammi del tu", fu la prima cosa che mi disse), ma che non si sottrae mai al dialogo; con Riccardo Girardi, suo amico carissimo ma con opinioni spesso agli antipodi, ha persino aperto un blog – "(in)quieto vivere"- sul quale, per più di un anno, ha discusso, senza paure, limiti o preconcetti. In anni di giornalismo militarizzato se non da trincea, converrete, non è poco. Ecco perché ritrovarci a discutere con "Pando", come lo chiamano alcuni amici, è davvero un piacere.

Pandolfi, da piccolo – come racconta nel suo sito – lei sognava di fare il telecronista. Oggi è Caporedattore del Resto del Carlino, scrive libri e promuove iniziative di volontariato: un bel salto di qualità rispetto alle aspirazioni d’un tempo, non crede? "Mi ritengo un uomo fortunato, perché riesco a fare il lavoro che sognavo da piccolo. A volte comporta rinunce e sacrifici, certo,ma quando son giù di morale penso a tutti coloro che hanno mille sogni nel cassetto e hanno quasi sempre dovuto lasciarli lì, in quel cassetto pieno di ragnatele che io, invece, ho avuto la fortuna e forse un po’ la forza di aprire. Una conquista, questa, che mi da la carica, anche quando sono stanco".

Quali sono, secondo lei, i virus che in questi anni infettano maggiormente il mondo del giornalismo italiano? E’ davvero a rischio, come sentiamo spesso ripetere, la libertà di stampa? "Se la libertà di stampa è davvero in crisi non lo è a per colpa di qualche temutissimo dittatore mediatico italiano, ma per la crisi economica che a volte costringe a commistioni troppo pericolose fra pubblicità ed informazione. Faccio un esempio: le grandi aziende di modo sono da sempre fra i massimi clienti pubblicitari dei mass media: avete mai letto di una recensione che un vestito primavera-estate di x o y è brutto da morire? Io no. Il virus del giornalismo italiano è poi quello del "copia e incolla". Raramente, purtroppo, si vede e si racconta. Ci sono troppi passaggi, troppe mediazioni".

E col temutissimo "bavaglio", come la mettiamo? "La mettiamo benissimo, nel senso che non c’è nessun bavaglio. Vi sembra normale pubblicare su un giornale le smorfie e gli amplessi di un uomo politico con la sua donna? A me sembra "guardoneria" bella e buona. I sindacati dei giornalisti, anzi il sindacato unico dei giornalisti, da sempre iper politicizzato, non sa far altro che strillare contri i referenti politici, spesso di centro destra, che non ama. A me fa più paura un altro bavaglio. Faccio un esempio banale: per la legge sulla privacy e sui minori, se io voglio pubblicare la foto di una scolaresca, devo farmi pubblicare la liberatoria da tutti i genitori. E mi pare una follia".

Giornalisticamente parlando, quali sono i maestri ai quali si ispira? "Tante persone mi hanno insegnato moltissimo, così come tante persone continuano a farlo ancora oggi. Faccio i nomi di due grandi giornalisti che ho avuto l’onore di avere come direttori: Italo Cucci e Vittorio Feltri. Italo, un caro amico, quasi un secondo papà per il sottoscritto, mi ha insegnato e mi insegna ancora oggi a stupirmi della realtà, ad abbracciare la realtà, a non vivere ancora a un computer o a delle agenzie. L’entusiasmo e la passione di Cucci per il bello è contagiosa. Poi Feltri. Viene considerato un giornalista partigiano e un po’ killer. Quando l’ho avuto come direttore aveva un intuito eccezionale. E non gliene fregava nulla se la notizia x o y potesse dare fastidio al partito Caio o al partito Sempronio. Sono certo che uno come lui spopolerebbe anche se dirigesse l’Unità. Per un motivo molto semplice: è bravo, è un fuoriclasse" .

In un suo articolo ha scritto che, paradossalmente, in Italia l’unico che non può parlare è proprio lui, il Premier, pena lo scatto di aggressioni e il lancio di accuse e talora pure di souvenir meneghini. Conferma, da giornalista, questa analisi controcorrente? "Assolutamente sì. Nel 2004 scrissi anche un libro ("Inchiostro rosso: le vere veline dell’era Berlusconi”) nel quale spiegai, numeri alla mano, come la stragrande maggioranza dei giornalisti rema contro Berlusconi. E non mi si venga a dire che sono malato di berlusconismo: se vuole la verità, le confesso che il Cavaliere un po’ mi ha stancato".

Lei si occupa spesso di attualità e più volte ha affrontato il tema dell’alcolismo giovanile. Una volta si è in buona sostanza pronunciato a favore dell’"ergastolo" della patente per chi uccide da ubriaco, mentre altre ha invitato alla prudenza, ad esempio in ordine al totale divieto di assunzione di alcolici da parte dei neopatentati. Non le sembrano, almeno a prima vista, due posizioni contraddittorie, l’una estremamente severa e l’altra, se non permissiva, quanto meno assai cauta? "Non credo, penso anzi che siano coerenti. L’alcol non è un male assoluto. Se io e lei andiamo a cena, condividiamo una bella serata, ci gustiamo una bistecca e un buon bicchiere di vino, cosa facciamo di male? Nulla. Ecco perché mi sembra sbagliato demonizzare l’alcol e voler mettere questo divieto assoluto, questa tolleranza zero per cui se un neopatentato guida con un tasso alcolico di 0,1 gli tolgono la patente. E’ esagerato. Contemporaneamente, però, bisogna essere chiari su un altro punto. Faccio un esempio. Nel ravennate, recentemente, a una persona è state tolga la patenta per guida in stato di ebbrezza per l’ottava volta, e fra qualche mese tornerà a guidare. Finora è andata bene. Ma se un giorno andasse male, cioè se questa persona dovesse ammazzare qualcuno? Perché, parliamoci chiaro, è evidente che il signore in questione guida sempre in stato di ebbrezza se ben otto volte è stato sorpreso dai vigili in queste condizioni. Io ho la patente da 27 anni e non ho mai avuto un controllo con l’alcoltest. Di fronte a casi simili, togliamo la patente a vita: questa persona va aiutata, ma dovrà andare in giro a piedi, in bici, in tram, in taxi. E’così grave? A me sembra di no".

Ci parli del progetto "L’inguaribile voglia di vivere". Come si è passati dal libro all’Associazione? Quali le iniziative realizzate e quali quelle in cantiere? "Ho fatto quasi cento incontri in giro per l’Italia e nel 90% dei casi non sono state toccate e fuga. No, sono nate delle relazioni, amicizie, condivisioni. E’ nato un percorso, quasi naturale, che ci ha portato a creare il club "L’inguaribile voglia di vivere", che è un’associazione che ha principalmente due scopi. Anzitutto trasmettere un messaggio culturale di vita, di amore, di speranza. Perché ciò che vogliamo urlare, con il sorriso fra le labbra, è che c’è sempre una strada che può portare a dare un significato alla propria vita, anche quando una persona è gravemente malata o disabile. A volte capita che non vedi la strada, che non la trovi per via della nebbia che ha negli occhi e nel cuore. Compito di una società civile e compito di uomini veri è aiutare chiunque a trovare questa strada. Lo ripeto: esiste sempre! Noi vogliamo essere delle torce umane che aiutano ad eliminare questa nebbia. Non abbiamo una ricetta: ci giochiamo tutto con la nostra umanità. Il secondo obbiettivo dell’Associazione è prestare aiuto concretamente a persone malate o in difficoltà ed aiutarle a realizzare i loro sogni: quest’estate abbiamo manato per due mesi al mare Patrizia, una disabile romagnola che da 17 anni accarezzava questo desiderio".

E’ vero che il suo interesse pro-life ha subito un’impennata con la vicenda di Eluana Englaro?"La vicenda di Eluana Englaro non poteva lasciarmi indifferente. Mi ha provocato come uomo, come giornalista, come cattolico. E torno alla nebbia di prima: anche la vita di Eluana aveva un significato; c’era una strada. Purtroppo non siamo stati capaci di aiutare suo padre a trovarla, questa strada. Egli è stato consigliato forse da troppi finti amici che cercano, come va di moda oggi, la scorciatoia. E cioè: ogni desiderio deve diventare un diritto. Ma se una persona dice non vuole più vivere se si dovesse trovare in determinate condizioni, lo Stato che fa, mette un timbro e diventa notaio freddo e implacabile? No, no. Questo non è umano. Io accendo la torcia e cerco fino all’ultimo la strada che può portare questa persona disperata a trovare un senso alla vita. Sia che sia Eluana, che forse non era più cosciente, sia che sia un altro malato, sia che sia un disperato".

Che idea si è fatto del rifiuto di Napolitano di firmare il decreto legge "salva Eluana" motivato con ragioni di mancata urgenza, dal momento che il Presidente, in altri occasioni, convalidò senza fiatare decreti legge verosimilmente meno urgenti, quale, ad esempio, quello risalente al maggio 2006 sulle "Disposizioni urgenti in materia di installazione su particolari veicoli di strisce retroriflettenti"? "Inutile girarci attorno: quello di Eluana Englaro è stato un omicidio legalizzato. Omicidio perché si è fatta morire una persona. Legalizzato perché dei giudici hanno detto che si poteva far morire. E Napolitano, in questo caso, ha messo il timbro presidenziale su questo omicidio legalizzato".

Tempo addietro, in compagnia di una delegazione composta, tra gli altri, dall’on. Palmieri, dal dott. Mario Melazzini e dal cantante Ron, ha consegnato al Quirinale 24.684 firme per chiedere alle Regioni di attivare i fondi già stanziati per i malati di Sla, per le loro famiglie e in generale per tutti coloro che diventano disabili a causa di malattie invalidanti. L’iniziativa ha prodotto esiti? "Si è no. Sì nel senso che l’opinione pubblica, rispetto al passato, si è sensibilizzata a queste problematiche. No perché nel concreto queste persone in difficoltà e i loro familiari continuano a ricevere dallo Stato soprattutto umiliazioni e schiaffi".

Senza troppi giri di parole e senza risparmiare stoccate alla venerata Legge 194/’78, nei suoi articoli ha più volte denunciato l’aborto di massa. Immagino concorderà con le parole di Madre Teresa che, ritirando il Nobel per la pace, l’11 Dicembre 1979, definì l’aborto "il più grande distruttore di pace". "Oggi va di moda giocare con le parole. Stravolgiamo il significato delle parole stesse magari per non stare troppo male, per sentirci meno cattivi. Concordo con Madre Teresa di Calcutta: l’aborto è il male assoluto di ieri e di oggi. Oggi e domani ci stiamo accanendo e ci accaniremo sui disabili, sui malati e sui vecchietti. Ma è la stessa roba. Se non ci rendiamo conto dell’unicità straordinaria di ogni essere umano, sia che sia un feto o che sia un novantenne con mille acciacchi, continueremo ad andare alla deriva".

In che termini, a parer suo, il giornalismo può contribuire alla causa pro-life? "Richiamando al vero significato delle parole, non prendendo per oro colato ciò che certe macchine da guerra dell’informazione come i Radicali fanno diventare verità, quando invece si tratta di fandonie. Cerchiamo di conoscere meglio le questioni delle quali ci occupiamo".

Quali consigli, per concludere, si sentirebbe di dare a chi sogna di diventare giornalista? "Come ho già detto, l’importante è appassionarsi alla realtà e cercar di conoscerla da vicino. Oggi abbiamo un difetto: siamo tutti iper informati ma manca la conoscenza. Sappiamo cioè in teoria un po’ di tutto, ma nella pratica sappiamo poco o nulla. Questo vuoto di conoscenza può essere ripianato solo con l’esperienza. Per questo è importante, per un giornalista, non avere paura di sporcarsi le mani: ci si metta in gioco. Si sbaglierà, ci si correggerà, ma poi si sarà più veri, più umani".

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