Storie incredibili: quando il piano è inclinato. Molto inclinato.

Incollo qui di seguito un mio articolo dedicato a Barbara Wagner, Michael Freeland, Amelie Van Esbeen e a tutti coloro che nei Paesi dove sono in vigore leggi che consentono eutanasia e suicidio assistito rischiano di finire nel tritacarne del "fine vita". Quando il vessillo dell’autodeterminazione nasconde la complicità nella, se non la volontà di, eliminazione di malati, depressi, anziani. DA AVVENIRE, INSERTO E’ VITA, DEL 27 MAGGIO 2010. Oregon, giugno 2008. La signora Barbara Wagner scopre che il tumore ad un polmone, che da due anni aveva smesso di tormentarla, sta di nuovo progredendo in modo preoccupante.

Gli oncologi le prescrivono medicinali allo scopo di rallentare l’avanzamento della malattia ed allungare l’aspettativa di vita di Barbara. Alla signora viene però comunicato che l’Oregon Health Plan, il piano di contributi per la sanità dell’Oregon, non garantisce copertura finanziaria per quel tipo di medicine. La signora Wagner, nel caso in cui avesse voluto optare per servizi sanitari passati dalla mutua, avrebbe dovuto scegliere: cure palliative o suicidio assistito.

Non è la trama di un romanzo thriller, ma quanto successo veramente in Oregon, uno degli Stati pionieri per quel che riguarda l’approvazione di leggi permissive in tema di eutanasia e suicidio assistito. Fortunatamente la signora Wagner fu aiutata dalla casa farmaceutica che produceva le medicine prescritte, ma non c’è dubbio che questa storia, come molte altre, mostri in modo evidente a quali abusi di ogni tipo si giunga una volta che si aprano le porte alla dolce morte ed al diritto all’assistenza medica al suicidio.

Arriva ancora dall’Oregon, dove il Death with Dignity Act, la legge che regolamenta il suicidio assistito per i malati terminali è stata approva nel 1997, la vicenda di Michael Freeland. Il caso fa scuola, essendo il primo, relativamente all’Oregon, per il quale viene resa disponibile l’intera storia clinica del paziente. Freeland è poco più che sessantenne quando gli viene diagnosticato un cancro.

L’uomo, che “aveva una lunga storia di seria depressione e di precedenti tentativi di suicidio”, viene così affidato ad un ospedale psichiatrico da alcuni medici, che temono possa tentare nuovamente di togliersi la vita. Nonostante questo, un medico attivista pro suicidio assistito consegna a Freeland la dose letale di medicinali da ingerire che non gli viene sequestrata neppure quando è accertata la sua incapacità di prendere decisioni per la propria salute.

Solo l’intervento dell’associazione Physicians for Compassionate Care (Medici per le cure compassionevoli) garantisce che vengano intensificate le cure palliative, che migliorano la situazione a tal punto da far desistere Freeland dai suoi intenti suicidi. I casi riguardanti soggetti depressi ed in generale persone con problemi psichici e le forzature da parte di militanti schierati per il diritto a morire costituiscono il filo conduttore che porta dritti in Europa.

E’ il maggio 2009 quando Dignitas, la nota associazione svizzera che fornisce assistenza al suicidio, finisce al centro di indagini per aver aiutato a morire Andrei Haber, un rumeno da tempo afflitto da depressione. Il giudice Philippe Barboni si trova di fronte ad un vero e proprio abuso: “Questo caso presenta un fatto particolare – dichiarò Barboni – la persona non soffriva di una seria e incurabile malattia. […] Le sue motivazioni erano essenzialmente psicologiche”.

I dubbi sull’operato di Dignitas sono molteplici. A fine aprile, in occasione del ritrovamento di urne cinerarie nei fondali del Lago di Zurigo, i sospetti si concentrano tutti su Dignitas. “Lo hanno sempre fatto”, ha denunciato Soraya Wernli a proposito della prassi di gettare almeno un’urna su tre nel lago.

La Wernli è un’ex collaboratrice di Dignitas, uscita perché resasi conto che sotto le rassicuranti sembianze dell’omicidio compassionevole esibite dall’organizzazione presieduta da Ludwig Minelli, si nascondeva in realtà una “macchina del profitto”.

La legge svizzera stabilisce che è illegale contribuire alla morte di un paziente se si configura un guadagno per chi fornisce assistenza: nonostante questo, notava il quotidiano Telegraph nel gennaio 2009, Minelli è divenuto milionario grazie all’aiuto al suicidio fornito ad almeno 870 malati terminali.

 Ma morte procurata in Europa non significa solo Svizzera: in Belgio e Olanda, dove le leggi sul fine vita risalgono al 2002, non sono mancati casi che hanno destato scalpore.

In Belgio, a fine marzo 2009, Amelie Van Esbeen, una novantatreenne in buono stato di salute, decide che ne ha abbastanza. “Voglio morire ora”, dice l’anziana signora. Ma la legge belga non prevede il diritto all’eutanasia per chi non è allo stato terminale di una malattia e non soffre di dolori insopportabili.

Saranno sufficienti dieci giorni di sciopero della fame ad Amelie per ottenere l’eutanasia tanto desiderata. La legge viene di fatto violata. Anche in Olanda si registra un caso per molti versi analogo a quello della signora Van Esbeen.

Nel novembre 2007 viene incriminato il presidente della Stichting Vrijwillig Leven (Associazione per la vita volontaria). L’accusa è quella di aver aiutato a morire una donna olandese alla quale era stato negato il diritto all’eutanasia poiché non si erano riscontrati i requisiti previsti dalla legge olandese.

Nel maggio 2009 arriva la condanna. I numerosi abusi non sembrano servire da monito per il Regno Unito: è del 24 maggio, infatti, la notizia che per la prima volta si sono applicate le linee guida volute dal Direttore della Procura generale Keir Starmer a proposito di assistenza al suicidio, secondo le quali il reato si configura solo se chi aiuta a morire trae un beneficio economico dal suicidio.

Michael Bateman, che ha assistito la moglie suicidatasi con un sacchetto di plastica e del gas, è stato dichiarato non perseguibile. Bryan Boulter del Crown Prosecution Service, l’organo incaricato delle decisioni su eventuali azioni giudiziarie, ha dichiarato che incriminare Bateman “non ha alcun interesse pubblico” poiché la moglie aveva chiari intenti suicidi ed è evidente che egli ha agito “motivato da compassione”.

Dedizione e sacrificio per educare alla vita. La dimensione umana del lavoro. L’esperienza di Daniela Santanchè

Daniela Santanchè è imprenditrice nel campo della comunicazione e del sociale, prima donna relatrice della legge finanziaria nella storia parlamentare. È impegnata nella difesa dei diritti delle donne musulmane e dal 2006 è seguita da una scorta armata. È stata attiva per anni nel mondo delle cooperative sociali che lavorano nelle carceri. Attualmente è sottosegretario all’attuazione del programma e lavora nel marketing dei gruppi editoriali. Cosa l’ha spinta a mettersi in moto fin da giovane? La mia ricerca d’indipendenza e di libertà parte da lontano, fin da quando, all’Università, per mettere insieme un po’ di soldi, trattavo svariate attività, dall’infilare perline per collanine o bracciali, a piccoli lavori a maglia -di cui mi è rimasta la passione- a pubblicità o vendite porta a porta. Compiti che svolgevo di notte o nei ritagli di tempo dopo aver studiato e che mi hanno permesso anche di conoscere meglio l’universo umano, ampliando quella limitata sfera studentesca a cui in quegli anni di piombo in una Torino targata Fiat non mi sentivo legata e che non mi rappresentava. Quali sono state le sue convinzioni di base e da dove le derivano? La volontà di “decidere” di me stessa come desideravo mi ha fatto interpretare il fattore lavoro nella vita come emancipazione, comunicazione, stabilità e punto di riferimento. Ho sempre lavorato per costruire il mio futuro. D’altronde, a sventare il rischio di abbandonarmi all’inerzia della studentessa foraggiata dai genitori sono stati i miei stessi famigliari, che, quando seppero che volevo frequentare la facoltà di Scienze Politiche, stabilirono di sovvenzionarmi soltanto l’alloggio: per il resto avrei dovuto provvedere da sola. E così feci, tra mille paure, ma con la convinzione che indietro non sarei tornata. Ricordo poi quando aprii, nel 1992, la “Dani Comunicazione”, avevo trent’anni. E’ stata una sfida esaltante ma anche una strada obbligata da percorrere per sfruttare l’esperienza acquisita dalle realtà aziendali precedenti e per mettere a frutto il mio know-how. E anche se molti mi hanno “appiccicato” addosso l’etichetta di signora dei salotti sono andata avanti per la mia strada che mi ha portato ad essere quella che sono, senza falsità e ipocrisie, orgogliosa degli oneri che mi sono assunta e degli obiettivi raggiunti. Ho ricondotto poi la mia esperienza nell’ambito del sociale fondando l’associazione no profit Solidarietà 2000, che ha promosso diverse iniziative a favore di persone portatrici di handicap e, in collaborazione con le Cooperative sociali Alice e Granserraglio, anche in favore di persone detenute. Ritengo che il lavoro di queste ultime rappresenti da una parte la condizione imprescindibile per l’inserimento sociale di chi intende voltare pagina, e dall’altro uno degli strumenti che lo stato e la società devono perseguire al fine di assicurare maggiore sicurezza ai cittadini. L’idea del lavoro proviene soprattutto dalla cultura occidentale (ora et labora) ed è quindi un nostro bagaglio culturale. Perché secondo lei il lavoro è un aspetto fondamentale della vita? Al contrario di ciò che era il pensiero antico, in cui il lavoro fisico era considerato non onorevole, nella cultura moderna è riconosciuto che il lavoro dell’uomo, fisico o intellettuale che sia, fa parte della sua dignità specifica. Anche la nostra Costituzione, nell’art. 4 sancisce che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Sono parole importanti che hanno un percorso lungo, di fatto iniziato con l’era cristiana. La rivoluzione che attuò Gesù Cristo, con la sua umile provenienza e poi con il suo lavoro di carpentiere, ha elevato l’idea stessa del lavoro oltre che come ode e preghiera al Signore, anche come evoluzione dell’essere umano e solidarietà verso il prossimo. Scomodando uno dei “grandi” del nostro tempo, Giovanni Paolo II, ritrovo lo stesso pensiero della tradizione contadina della mia famiglia, nella sua lettera sul lavoro umano intitolata Laborem exercens del 1981 e scritta per il novantesimo anniversario dell’enciclica Rerum novarum. Oggi, con occhi adulti di donna e genitore, sono grata a mia madre e mio padre per tutto ciò che mi hanno insegnato; offrendomi esempi di vita per farmi capire in cosa consiste il merito della parola lavoro e ciò che comporta: dedizione e sacrificio. A non averne paura o sconforto ma a carpirne l’essenza che racchiudono. Molti ragazzi di oggi non si impegnano per alcun ideale ma si aspettano il piatto pronto, convinti che tutto sia loro dovuto. Oggi i tempi sono cambiati e la grave crisi che ha colpito l’economia mondiale si ripercuote maggiormente sui soggetti più deboli come i giovani e le donne. Inoltre, nella nostra cultura si è radicata da decenni una mentalità di approccio al lavoro completamente sbagliata e concetti come flessibilità, lavoro a progetto, job sharing hanno acquisito un’accezione completamente negativa, sia a causa degli abusi e per la mancanza di regole e tutele da parte degli operatori, sia per una forma mentis da parte dei salariati improntata sull’omologazione di quelli che si ritengono standard sociali invariabili e intoccabili. Tutti fattori che, insieme all’esasperato consumismo della nostra epoca, hanno destrutturato la vita lavorativa e reso i soggetti di entrambe le parti poco motivati. Infine, se da un lato gli imprenditori non hanno compreso che, oltre alla prospettiva del guadagno, è necessario anche un apprezzamento sociale, dall’altro i lavoratori si sono spesso lasciati trasportare da diktat sindacali e politici che dovevano invece restare estranei ai processi aziendali. Potrebbe tracciare una possibile strada di speranza? Per il bene del futuro dei nostri ragazzi è fondamentale una seria rimodulazione dell’istituto del lavoro. Con riforme strutturali che diano modo di ritrovare la giusta collocazione dell’effettivo valore del lavoro stesso inteso come bene comune e manifestazione della persona e non mera “produzione economica”. Non esistono ricette speciali ma soltanto la volontà di far convergere sinergie, responsabilità e disciplina in un unico progetto che dia modo di trasformare e modificare l’assurda condizione di caos attuale. Ci si deve riappropriare della dimensione umana del lavoro per poi fondare su di esso una nuova solidarietà, libera da interpretazioni ideologiche e tesa al rispetto della vita.

La Corea del nord: una feroce dittatura atea

Non ne abbiano a male gli amici dello UAAR (atei e agnostici razionalisti), ma ancora una volta l’ateismo, quando va al potere si rivela devastante e disumano. Per questo, in un momento in cui un paese comunista, la Corea del Nord, minaccia la pace nel mondo, non è inopportuno parlare di cosa avviene in esso.

 . SEUL. Han, un funzionario del partito comunista della Corea del Nord, si accorse di essere in pericolo mentre tornava a casa dal lavoro. Si era procurato una radiolina in Cina durante un viaggio ufficiale. L’aveva ascoltata in tarda notte, con le cuffie, con le tendine abbassate, per sentire quella musica che gli dava un attimo di respiro portandolo via dagli orrori della sua giornata. Qualcuno deve averla trovata, o semplicemente deve averne parlato.

 "Potrebbero essere stati i miei bambini a dirlo in giro. Potrebbe essere stato un amico, un conoscente", ci ha detto Han, 39 anni, a condizione che non venga identificato col cognome. "Se un contadino o un operaio avesse una radio, poteva magari essere liberato", dice Han. "Ma io sono un ufficiale. Nel mio caso c’è la tortura e una condanna a vita nei campi dei prigionieri politici".

 In quel momento ha scelto, ha scelto come tante altre migliaia di persone che scappano dalla Corea del Nord: ha lasciato la sua famiglia per salvare la sua stessa vita. Andò al confine cinese in quel giorno di luglio del 1997 e ha guadato il fiume, abbandonando sua moglie e i suoi figli, allora di quattro e due anni, ed ha passato tre anni in Cina, finche’ non è stato aiutato da dei missionari a raggiungere Seul.

Da quando ha lasciato la Corea del Nord, non ha più avuto contatti con la moglie e i figli. "Penso a loro ogni giorno", ha detto di recente a Seul. "Ho provato a dimenticarli", dice lentamente, "ma quella è la mia famiglia". I fuggitivi hanno aperto gradualmente una finestra dettagliata e spaventosa sulle brutali condizioni di sopravvivenza per 22 milioni di persone in Corea del Nord.

Per molti anni, le storie dei relativamente pochi fuggiaschi erano sospettate di essere strumenti di propaganda del governo sudcoreano. I racconti delle loro luride storie di vita in Corea del Nord venivano considerati esagerazioni, per compiacere i nuovi nemici. Ma oggi i fuggiaschi della Corea del Nord ammontano a decine, forse centinaia di migliaia – la dimensione complessiva dell’esodo non è ancora chiara. In fuga attraverso il fiume al confine con la Cina, dove vivono da rifugiati, o in fuga attraverso i deserti e le giungle della Mongolia, Birmania o Tailandia.

Le loro storie hanno guadagnato la credibilità solo a causa del loro numero e della loro consistenza, e per la conferma dei pochi stranieri che hanno lavorato in Corea del Nord. Nelle dozzine di interviste a Seul in due anni, i fuggiaschi hanno tratteggiato un’immagine di crudeltà, difficoltà, repressione, che li ha convinti alla fuga come unica via d’uscita, non importa a quale costo. Sono spesso scappati portandosi sulla coscienza l’aver di fatto condannato i loro amati.

 Lasciare illegalmente la Corea del Nord è considerato un grave crimine; andare in Corea del Sud è considerato tradimento. Le famiglie -e perfino i parenti più lontani- di quelli che lo hanno fatto, vengono proscritte, private del lavoro, imprigionate o uccise. Molti si rendono conto che la loro libertà è più complicata di quanto avessero immaginato, ed il loro presente è continuamente minacciato dal loro passato.

"I membri delle famiglie dei traditori perdono il diritto perfino alle razioni di cibo. Condannati a morte per fame", dice la moglie di Soon Yong Bum, un capitano di peschereccio. La coppia salpò per il Mar Giallo e andò verso il porto sudcoreano di Inchon lo scorso agosto. Hanno dovuto lasciarsi dietro le loro famiglie, compreso il fratello di lei, un funzionario di governo che certo verrà punito severamente. "Lei per questo piange ogni notte", dice Soon, "ed anch’io mi sento colpevole".

 Il "tributo" della carestia.

Decine di migliaia di morti nell’ultima carestia (1995-1997). Lee, che chiede che non sia fatto il suo vero nome, era un’impiegata del servizio governativo per il conteggio dei morti nella sua città. Una giovane donna di 29 anni, con capelli ricci fino alle spalle e una pelle liscia e perfetta, ed ha difficoltà a raccontare. "Abbiamo visto scene di cannibalismo", ricorda, "ma forse non potete capire".

 "Quando uno è molto affamato, può diventare pazzo. Una donna della mia città ha ucciso il suo figlio di sette mesi e lo ha mangiato assieme ad un’altra donna. Ma il figlio di quest’ultima le ha denunciate alle autorità". "Non riesco a condannare il cannibalismo. Non che io abbia mai desiderato di mangiare carne umana… ma erano così affamate! Era normale che la gente andasse su una tomba interrata da poco e ne scavasse fuori il cadavere per mangiarne le carni. Ho conosciuto una donna che ha praticato cannibalismo. Mi diceva che il sapore era buono".

 Il massiccio aiuto alimentare internazionale ha gradualmente combattuto gli effetti della carestia, ma resta un numero di morti stimabile tra i 300.000 e i due milioni. Esistenza disumana. Lee Soon Ok, 56 anni, è stata un membro del partito dei più alti ranghi. L’anno scorso ai comitati congressuali a Washington ha detto che nel 1987 fu imprigionata come capro espiatorio della diminuzione delle razioni alimentari governative. Fu arrestata improvvisamente mentre lavorava, picchiata, e messa in una fredda cella sotterranea di un metro e mezzo per un metro e mezzo, per quattordici mesi. Ha detto di essere stata regolarmente torturata, le è stato negato il sonno, veniva torturata con l’acqua e fatta inginocchiare nuda sul ghiaccio. Sapeva già di dover morire. La sua prigionia "non era un’esistenza umana", ha detto in un’intervista a Seoul. "Alla fine fui condannata a morte e messa nel braccio della morte. Quella fu la parte più difficile. Uno resta lì per un mese, conoscendo esattamente il giorno della sua morte. Poi, e tuttora non so per quale motivo, hanno deciso di mandarmi in un campo per prigionieri politici".

Al campo, ha detto, ebbe mansioni di segreteria in un ufficio dove sentiva parlare i ricercatori di armi chimiche e biologiche da sperimentare sui prigionieri. I gruppi dei prigionieri furono portati dietro una collina, ha detto, e le fu detto di compilarne una lista perchè i loro nomi venissero stralciati dall’elenco delle razioni di cibo della prigione. Ha saputo che suo marito e suo figlio, allora allievo dell’università d’elite del partito, erano stati imprigionati a causa sua e che suo marito vi era morto. "Finalmente mi portarono mio figlio", dice. "Non aveva scarpe. I suoi piedi erano avvolti nella paglia. I suoi vestiti erano così malmessi che pensavo fosse un mendicante".

Nel 1995 lei e suo figlio sono scappati dal campo, scalando una montagna di 600 metri in pieno inverno. Hanno attraversato il fiume al confine, raggiunto la Cina, poi Hong Kong e finalmente la Corea del Sud. Suo figlio ora è iscritto ad un’università sudcoreana. Lei è tranquilla ma i suoi occhi restano duri e prudenti. "Quei sette anni in prigione continuano a torturarmi", dice. "Ho visto tanti modi diversi di uccidere e torturare persone… e li sogno ancora di notte".

Dalla fame alla schiavitù.

La fuga dalla Corea del Nord non è l’unica prova per i fuggiaschi. I confini sudcoreani e russi sono molto controllati, per cui la maggior parte scappano attraverso i fiumi lunghi ma poco profondi di Yalu e di Tumen in Cina, dove qualche grande comunità coreana possa offrire aiuto. Purtroppo la Cina ha stretto un accordo con l’alleato comunista per il rimpatrio dei fuggiaschi. Questi vengono presi in periodiche retate e rispediti in corea, dove vengono messi in campi di lavoro per periodi che vanno dai due mesi alla vita intera.

Quelli che restano in Cina sono soggetti a sfruttamento sessuale, fisico ed economico. Sung Ae, 31 anni, la metà spesi in Cina, talora nelle mani di mercanti di schiavi che comprano e vendono donne per degli uomini cinesi. "Ho visto tante atrocità nel mio viaggio, che non so da dove cominciare", ci ha detto nell’agosto del 2001. E’ una donna col volto tondo e occhi a mandorla e sopracciglia curate. Ci ha raccontato di esser saltata giù da un treno in corsa pur di sfuggire ai mercanti cinesi di schiavi.

I coreani in Cina l’avevano tradita e lei era perennemente in movimento per evitare di essere presa. "In Corea del Nord soffrivo la fame. In Cina sono stato sempre perseguitata", ci disse. Ha passato 16 giorni su una nave di contrabbandieri con 64 operai cinesi illegali pur di arrivare in Corea del Sud nel dicembre 2000. Lee, l’ex impiegata, ci ha detto che si era illusa di poter vivere bene in Cina. "Un giorno un uomo della mia città venne a vedermi. Cercava una donna nordcoreana di bell’aspetto da portare in Cina. Più carina fosse stata, meglio era. Allora decisi di andare". "Ovviamente mi aveva illusa. Diceva che voleva farmi conoscere un buon uomo, un laureato che voleva sposarsi. Ma capii poi che le donne nordcoreane venivano vendute a prezzi economici a contadini cinesi".

In Cina è andata alla deriva, di famiglia in famiglia, lavorando in condizioni di schiavitù, finchè non è stata arrestata dalle autorità cinesi. E’ stata picchiata e restituita alla Corea del Nord nel 1998, dove è stata mandata in un campo di lavoro, ridotta alla fame, lavorando duramente e subendo molestie sessuali. Finalmente rilasciata, venne ripresa di nuovo dai mercanti di schiavi, che la rispedirono in Cina in uno scatolone. Solo verso la fine del 2000 dei missionari cristiani l’hanno fatta arrivare in Corea del Sud attraverso uno stato di cui non vuole fare il nome. "In Cina ti vendono e ti rivendono", ci dice. "Le giovani sono vendute ai bar, e le donne ai contadini, e quindi ulteriormente rivendute". "Trattati come forestieri" Solo una piccola percentuale di quelli che attraversano il confine con la Cina arrivano poi in Corea del Sud, con l’aiuto di gruppi missionari cristiani oppure contrabbandieri di professione. Il numero dei fuggiaschi raddoppia di anno in anno fin dal 1998, raggiungendo i 1.141 l’anno scorso, stando al governo sudcoreano.

I nordcoreani riescono ad ottenere un piccolo appartamento, aiuto sociale e lavorativo, un bonus equivalente a 25.000 dollari, ed un sussidio mensile di circa 500 dollari. Anche con quell’aiuto, restano però alieni in uno stato che è fermo agli anni cinquanta. Arrivano infatti in una società competitiva, e a dispetto dei clichè sui sentimenti fraterni dei sudcoreani nei confronti dei nordcoreani, i fuggiaschi dicono sempre di essere discriminati, il che li tenta a pensare di non aver fatto la scelta giusta. Per cinque anni devono informare le autorità di tutte le loro attività.

 "Per noi non è facile vivere qui", dice Han, scappato quando fu trovata la sua radio. "I sudcoreani non capiscono le nostre difficoltà. Non se ne danno peso, e non capiscono. Siamo trattati come forestieri. Perciò molti scappano verso il Canada o negli Stati Uniti".
I nordcoreani sono riconosciuti dal loro accento. Alcuni sono qualificati per lavorare nella società high-tech sudcoreana, ma molti fuggiaschi sono impreparati al metodo capitalista che premia l’iniziativa e il lavoro duro". "Siamo talmente abituati a vivere con quanto ci viene dato e fatto quanto ci viene chiesto, che non abbiamo il concetto di responsabilità nel lavoro", ci dice Byung, 40 anni, a condizione di non rivelare il suo cognome. E’ giunto a Seul a dicembre, dopo aver attraversato le acque del confine con la Cina per scappare con sua moglie, sua madre, e i suoi figli di 7 e 9 anni.

"Davvero non avevo idea di questa società", aggiunge Byung, che ora frequenta una scuola industriale, sta prendendo la patente e sta imparando ad usare il computer. "La sorpresa più grande è che qui chiunque è libero di dirti quel che gli pare. Io pensavo che tutti sarebbero stati ricchi e senza problemi. Ma ora vedo che c’è gente che non ha un lavoro".

Il fardello della colpa.

Pak Do Ik, 38 anni, è un esempio di successo della fuga e del peso che ogni fuggiasco si porta. Era un membro d’elite del partito a Pyongyang, uno scrittore di propaganda e autore di opere teatrali di encomio al regime, che si trovò nei guai perchè era divenuto creativo. Il suo primo lavoro "offensivo", una commedia, lo portò per un mese in un campo di lavoro di una miniera. Oggi ne conclude che la commedia era un "pessimo genere" per una dittatura senza humour. Una volta tornato, nel 1999, scrisse un ossequioso dramma che mostrava la madre di Kim Jong-Il dare a quest’ultimo un revolver con sette proiettili ed uno scopo per ognuno di questi: "Il primo proiettile è per distruggere gli Stati Uniti! Il secondo è per il successo della nostra rivoluzione…".

 "La platea applaudì ogni proiettile", dice Pak. "Ma l’Agenzia di Sicurezza Nazionale disse che non era realistico. Disse che era una «inadempienza quanto agli obiettivi rivoluzionari». Quel giorno scappai sulle montagne". Dopo essersi nascosto per mesi, discese una scogliera del fiume Tumen e arrivò in Cina con i suoi risparmi (ottanta dollari USA). La sua conoscenza della gerarchia del regime interessò gli agenti dell’intelligence sudcoreana in Cina, e dopo averlo interrogato per mesi, lo aiutarono a scappare. A Seul trovò che poteva guadagnare velocemente. Cominciando come fattorino di una compagnia di liquori due anni fa, ora è a capo di un grosso business (due aziende, un totale di 78 impiegati) nella vendita di cosmetici e nell’entertainment.

Sta per ottenere i diritti per una serie televisiva, promuove artisti pop, ed ha intenzione di realizzare un parco tematico "Training alla guerriglia nordcoreana" per far rivivere ai turisti l’esperienza dell’esercito stalinista e – per amore di realismo – negar loro il cibo per parecchi pasti. Pak indossa polsini con diamanti e ottimi abiti, gioca a golf in un costoso club il fine settimana, e le foto in cui è in compagnia di belle attrici che lavorano per lui sono sui muri del suo ufficio. Ma Pak dice di non essere felice. "Tra la gente che è scappata, io credo di essere il più ricco. Guido una BMW serie 700. Ma quando ho comprato quella macchina, ho pianto. Mi mancano i miei fratelli, e mia sorella, e mio padre", ci dice. "Mi chiedevo cosa sto facendo qui, mentre i miei parenti stanno soffrendo. Non penso che uno può essere felice quando si sente colpevole".
Doug STRUCK – Joohee CHO Una finestra aperta sugli orrori della Corea del nord tratto da: Washington Post, 4.10.2003 (Traduzione: Alfonso Martone)