In preparazione del festival della scienza, Scienza sì, scientismo no, del 15 e 16 maggio, a Trento, vorremmo pubblicare degli articoli che anticipino il senso di alcuni interventi.
Il festival metterà in luce la grandezza della scienza, ma porrà all’attenzione degli ascoltatori anche ciò che spesso viene dimenticato: cioè il fatto che in nome della scienza si sono compiute spesso le più grandi aberrazioni della storia. Questo soprattutto perchè quando oggi si discute di vita, di manipolazione genetica, ecc., qualche furbetto (Odifreddi, Montalcini, Augias, Boncinelli, Fazio., Giorello…) la smetta di utilizzare, malamente e strumentalmente, il caso Galilei, per mettere a tacere chi si pone delle domande etiche.
Un fatto è certo: troppo numerosi sono stati gli sconfinamentei di scienziati fuori dal loro campo, per non ricordare ancora oggi quali siano i limiti teorici e morali entro cui la scienza deve e può operare.
La storia del razzismo che volle essere "scientifico" di Lombroso, può far riflettere proprio su questo.
"Cosa c’entrano i cammelli coi camalli? Niente, si dirà. Eppure, partendo anche dall’assonanza dei nomi, che verrebbero dall’arabo hamal, Cesare Lombroso si spinse nel 1891 a teorizzare che tra gli animali e gli scaricatori di porto ci fosse una sorta di parentela dovuta alla gibbosità. Al punto che, con Filippo Cougnet, firmò un saggio dal titolo irresistibile: Studi sui segni professionali dei facchini e sui lipomi delle Ottentotte, cammelli e zebù. La folgorante idea, scrive Luigi Guarnieri nel suo irridente L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso (Bur), gli viene «esaminando un paziente, di professione brentatore, il quale ha sulle spalle, nel punto in cui appoggia il carico, una specie di cuscinetto adiposo. Vuoi vedere, almanacca prontamente Lombroso, che la gobba dei cammelli e dei dromedari ha la stessa origine del cuscinetto del brentatore? Subito esamina tutti i facchini di Torino e scrive a legioni di veterinari perché studino a fondo gli animali da soma, in special modo gli asini. Non pago dell’imponente massa di dati raccolti, Lombroso indaga con grande scrupolo i misteri del cuscinetto adiposo delle Ottentotte», cioè le donne del popolo africano dei Khoikhoi.
C’è da riderne, adesso. Come c’è da sorridere a rileggere gran parte dell’opera dell’antropologo veronese. Basti ricordare, tra gli altri, lo studio su La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, dove sosteneva, in base all’esame delle foto degli schedari del capo della polizia parigina, Goron (il quale scoprì poi che per sbaglio aveva mandato al nostro le immagini di bottegaie in lista per una licenza…), che «le prostitute, come i delinquenti, presentano caratteri distintivi fisici, mentali e congeniti» e hanno l’alluce «prensile». O quello su Il ciclismo nel delitto, pubblicato su «Nuova Antologia», nel quale teorizzava che «la passione del pedalare trascina alla truffa, al furto, alla grassazione ».
Non c’è opera lombrosiana in cui non sia possibile trovare, a voler essere maliziosi, spunti di comicità. A partire da certi titoli: «Sul vermis ipertrofico», «La ruga del cretino e l’anomalia del cuoio capelluto», «Fenomeni medianici in una casa di Torino», «Sulla cortezza dell’alluce negli epilettici e negli idioti », «Rapina di un tenente dipsomane », «Il vestito dell’uomo preistorico», «Il cervello del brigante Tiburzio», «Perché i preti si vestono da donna»…
Nulla è più facile, un secolo dopo la sua morte avvenuta nel 1909, che ridurre l’antropologo, criminologo e giurista veronese a una macchietta. Un ciarlatano. Eppure, come scrisse Giorgio Ieranò, andrebbe riscoperta «la complessità di una figura che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno nella cultura italiana». Se non altro perché «c’era del metodo nella follia di Lombroso. C’era l’illusione di poter offrire di ogni aspetto, anche minuto, dell’universo una spiegazione scientifica, la ferma convinzione di poter misurare quantitativamente ogni fenomeno. Lombroso era un utopista che credeva nella missione redentrice della scienza».
Certo, spiega l’antropologo Duccio Canestrini, che insegna a Trento e a Lucca e per celebrare il centenario della scomparsa ha allestito una conferenza- spettacolo (Lombroso illuminato. Delinquenti si nasce o si diventa?) al debutto domani sera a Torino al Circolo dei lettori, era un uomo pieno di contraddizioni: «Socialista, criminalizza di fatto i miserabili. Ebreo, pone le basi del razzismo scientifico. Razionalista, partecipa a sedute spiritiche nel corso delle quali una medium gli fa incontrare persino la mamma defunta e spiega il paranormale con l’esistenza di una ‘quarta dimensione’. Le sue teorie, affascinanti e spesso assurde, ebbero un successo internazionale, condizionando sia la giurisprudenza, sia la frenologia».
Con Verdi e Garibaldi, fu probabilmente uno degli italiani più famosi del XIX secolo. Le sue opere erano tradotte e pubblicate in tutto il mondo, dall’America alla Russia, dall’Argentina (dove lo studioso lombrosiano Cornelio Moyano Gacitúa arrivò a rovesciare certe analisi contro i nostri immigrati: «La scienza ci insegna che insieme col carattere intraprendente, intelligente, libero, inventivo e artistico degli italiani c’è il residuo della sua alta criminalità di sangue») fino al Giappone. I convegni scientifici di tutto il pianeta se lo contendevano. Vittorio Emanuele III salutava in lui «l’onore d’Italia».
I socialisti lo omaggiavano regalandogli un busto di Caligola. Émile Zola lo elogiava come «un grande e potente ingegno». Il governo francese gli consegnava la Legion d’Onore. Gli scienziati, i medici e i prefetti si facevano in quattro per arricchire la sua stupefacente collezione di crani, cervelli, maschere funerarie, foto segnaletiche, dettagli di tatuaggi di criminali e prostitute e deviati di ogni genere, oggi raccolti al «Museo Lombroso» di Torino. Lo scrittore Bram Stoker lo tirava in ballo scrivendo Dracula. Il filosofo Hippolyte Adolphe Taine gli si inchinava: «Il vostro metodo è l’unico che possa portare a nozioni precise e a conclusioni esatte».
E questo cercava Cesare Lombroso, misurando crani e confrontando orecchie e calcolando pelosità in un avvitarsi di definizioni «scientifiche» avventate: l’esattezza. Capire il perché delle cose. Così da migliorare la società. «Il traguardo che spero di raggiungere completando le mie ricerche», dice in un’edizione de L’uomo delinquente del 1876, «è quello di dare ai giudici e ai periti legali il mezzo per prevenire i delitti, individuando i potenziali soggetti a rischio e le circostanze che ne scatenano l’animosità. Accertando rigorosamente fatti determinati, senza azzardare su di essi dei sentimenti personali che sarebbero ridicoli» . Il guaio è che proprio quel «rigore scientifico» appare oggi sospeso tra il ridicolo e lo spaventoso. Il consiglio dato al Pellegrosario di Mogliano Veneto di curare la pellagra con «piccole dosi di arsenico».
Il marchio sugli africani: «Del tetro colore della pelle, il povero Negro ne va tinto più o meno in tutta la superficie, e in certe provincie, anche interne, del corpo, come il cervello e il velo pendulo». Il giudizio sulla donna che tende «non tanto a distruggere il nemico quanto a infliggergli il massimo dolore, a martoriarlo a sorso a sorso e a paralizzarlo con la sofferenza». La ricerca «sul cretinismo in Lombardia » dove descrive una «nuova specie di uomini bruti che barbugliano, grugniscono, s’accosciano su immondo strame gettato sul terreno». Le parole sull’anarchico Ravachol: «Ciò che ci colpisce nella fisionomia è la brutalità. La faccia si distingue per la esagerazione degli archi sopracciliari, pel naso deviato molto verso destra, le orecchie ad ansa». La teoria che «il mancinismo e l’ambidestrismo sensorii sono un po’ più frequenti nei pazzi». Un disastro, col senno di poi. Gravido di conseguenze pesanti. Eppure a quell’uomo incapace di trovare il bandolo della matassa e liquidato da Lev Nikolaevic Tolstoj (che in base alla bruttezza lui aveva classificato «di aspetto cretinoso o degenerato») come un «vecchietto ingenuo e limitato», una cosa gliela dobbiamo riconoscere. Non si stancò mai di cercare. A che prezzo, però…
Corriere della Sera, Gian Antonio Stella, 28 aprile 2009